Antonio Pascale , Linus 8/2016, 9 agosto 2016
UNA LACRIMA CHE NON VERSERÒ MAI PIÙ
L’idea di viaggio – o almeno di quello che cerchiamo nel viaggio – è associata al concetto di prima lacrima? Breve digressione per analizzare il suddetto concetto. Allora, Milan Kundera spiega così la questione: la prima volta che vediamo i bambini correre su un prato ci emozioniamo. Quella è la prima lacrima. Un’emozione di primo grado, forte, autentica. Quando vediamo per la seconda o terza volta quei bambini correre ancora ci emozioniamo, tuttavia, a ben vedere, l’emozione è di secondo grado: ci ricordiamo di quando ci siamo commossi la prima volta. È un’emozione che non riguarda più l’oggetto, dunque è una sorta di emozione di secondo grado, degradata. Per Kundera le emozioni di secondo, terzo grado, cioè quelle che non derivano dalle prime lacrime, sono trash. Non significa che siano spazzatura inutilizzabile, anzi, il trash è un modo per creare una sorta di fratellanza tra uomini, sì, proprio a partire dalle emozioni di secondo grado. Il tema è interessante perché riguarda anche e soprattutto lo sguardo che un narratore utilizza per raccontare il mondo. Siccome esistono delle fabbriche di lacrime (e tutti noi narratori siamo i padroni di queste fabbriche) spesso è difficile lasciarsi sorprendere da un testo, un racconto o altro: è come se avessimo la sensazione del già detto, e di conseguenza è come se ti ricordassimo di esserci già emozionati per quella storia. Appunto un’emozione da seconda lacrima. Ora, il romanzo al suo esordio vero, cioè a partire dalla letteratura inglese, intorno al Settecento, si è sempre posto il problema di come descrivere una cosa. Come, cioè, provocare un’emozione autentica, e non al contrario ripetere uno schema che porta all’emozione. Quando leggiamo Robinson Crusoe (1719) avvertiamo proprio la tensione di Daniel Defoe di descrivere un oggetto comune come se lo vedesse per la prima volta. Ci chiediamo: ma questo che il protagonista sta usando è un cucchiaio? Certo, sì, eppure – ci diciamo – non avevo mai fatto caso a questi dettagli. Quando rivediamo le cose vuoi perché cambiamo punto di vista, vuoi perché siamo capaci di attraversare la materia narrata con sguardo ingenuo, allora si può dire che proviamo un effetto da prima lacrima. Lo spaesamento tra quello che credevamo di sapere e quello che ora vediamo con occhi nuovi genera un buco nero: siamo spaesati, confusi, disorientati. Il tentativo di trovare l’equilibrio ci spinge a cercare nuovi punti cardinali, dunque reimpariamo a orientarci accogliendo materia nuova. Quindi il concetto di prima lacrima si lega con quello della buona narrazione. Tra gli scopi della buona narrazione c’è anche quello di trasformare le opinioni in conoscenza: la narrazione è un esercizio, una sorta di apprendistato, un viaggio, appunto, grazie al quale la meta, il traguardo, via via sfugge e alla fine sappiamo solo di non sapere. Il viaggio è legato dunque alla prima lacrima? Diciamo che un buon viaggio dovrebbe essere un’opportunità di leggere spazi nuovi o al contrario vedere con occhi nuovi gli spazi che siamo soliti vedere e calpestare. Di un viaggio particolare, per esempio, ci parla il racconto (un reportage) di Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più. Inizia così: «E allora, oggi è sabato 18 marzo e sono seduto nel bar strapieno di gente dell’aeroporto di Fort Lauderdale e dal momento in cui sono sceso dalla nave da crociera, al momento in cui salirò sull’aereo per Chicago devono passare quattro ore che sto cercando di far passare facendo il punto su quella specie di puzzle ipnotico-sensoriale di tutte le cose che ho visto, sentito e fatto per il reportage che mi hanno commissionato». Stiamo per entrare, grazie all’io narrante di Foster Wallace, su una nave da crociera extralusso. Diciamo la verità, cosa mai possiamo imparare da un viaggio simile? Di certo un viaggio così è l’esatto contrario di quello che cerchiamo in un viaggio. Niente di avventuroso. Una nave da crociera extralusso che costeggia la costa del Pacifico. Croceristi obesi, in bermuda e cappellino, stesi al sole e incapaci di intendere e di volere, l’antitesi del vero viaggiatore. Quale prima lacrima cerchiamo in un viaggio in crociera? A testimonianza della poetica di Wallace c’è questa sua dichiarazione – la troviamo nel discorso ai laureandi, pubblicato con il titolo Questa è l’acqua. Wallace ricorda di aver visto una signora obesa al supermercato, una di quelle classiche icone sulle quali scagliamo il nostro disprezzo narrativo, e anche lui all’inizio sembra abbia voglia di farlo. Poi ci ripensa e così facendo ci mette davanti al dilemma del narratore o del viaggiatore: «Ma molte altre volte, se sarete abbastanza coscienti da darvi la possibilità di scegliere, voi potrete scegliere di guardare in un altro modo a questa grassa signora super-truccata e con gli occhi spenti che ha appena sgridato il suo bambino nella coda alla cassa. Forse non è sempre cosi. Forse è stata sveglia per tre notti di seguito tenendo la mano del marito che sta morendo di un cancro alle ossa. 0 forse questa signora è l’impiegata meno pagata della motorizzazione, che proprio ieri ha aiutato vostra moglie a risolvere un orribile e snervante problema burocratico con alcuni piccoli atti di gentilezza amministrativa». Trovo questa dichiarazione di poetica molto poetica, se mi permettete l’orribile ripetizione. La poetica del viaggiatore e quella del narratore è quella che ci spinge a cambiare le nostre abitudini mentali. Un esercizio importante, anche perché il suddetto esercizio è un pilastro della democrazia: raccontare e capire, provare empatia anche con quelli che non ti somigliano abbastanza. È proprio quello che fa Wallace in questo viaggio che inizia con una sorta di trailer: «Ho sentito il profumo che ha l’olio abbronzante quando è spalmato su oltre dieci tonnellate di carne umana bollente. Sono stato chiamato Mister in tre diverse nazioni (...) ho partecipato (molto brevemente) a un trenino a ritmo di conga (...) ho tenuto il ritmo di due quarti puntando il dito verso il cielo esattamente sulla stessa disco music sulla quale odiavo puntare il dito verso il cielo nel 1977 (...) ho sentito cittadini americani maggiorenni e benestanti che chiedevano all’ufficio relazioni con gli ospiti se per fare snorkeling c’è bisogno di bagnarsi, se il tiro al piattello si fa all’aperto, a che ora è previsto il buffet di mezzanotte». La cosa particolare di questo viaggio, oltre alla straordinaria capacità di Wallace di raccontare i dettagli (il testo è pieno di note bellissime), è che Wallace piano piano finisce per diventare come quei croceristi che tanto detestiamo: ne capisce ragioni e aspettative, ne capisce la vita e si chiede: chi sono io per definire un cretino quello che domanda a che ora è un buffet di mezzanotte? Magari si sta rilassando dopo un terribile dolore o magari è proprio quella brava persona che ti ha aiutato giorni prima. Il viaggio in crociera di Wallace ottiene tre effetti. Il primo: non siamo così diversi da quelli che detestiamo, messi nelle loro condizioni possiamo comportarci allo stesso modo. Il secondo: il capitalismo (cos’altro è la nave se non un racconto delle varie strutture che compongono il capitalismo?) è ammaliante perché noi siamo umani e sensibili alle sue lusinghe E infine: la capacità di un buon narratore non si vede dalla gragnola di accuse contro gli altri, ma dalla forza con la quale smonta, esaminando con ragione e sentimento se stesso e l’ambiente che lo circonda. Insomma, non solo quando raggiunge la vetta prima degli altri e accusa quelli che sono rimasti in basso. Un buon viaggio quello di Wallace, un vero esercizio di democrazia, e poi divertentissimo, lacrime garantite, e ci auguriamo che siano le prime versate in questo modo.