Dario Forti , Linus 8/2016, 9 agosto 2016
UN FUMETTO PER SPIEGARE I PROCESSI DEL GIORNALISMO ONLINE
A chi spetta il compito di decidere cosa è una notizia e cosa no? Quali sono le storie da raccontare e confezionare per il proprio pubblico di lettori? Fino a dieci anni fa la risposta era molto semplice e diretta: ai giornali e alle loro redazioni. Ma adesso? In un’epoca in cui quasi chiunque ha accesso a una quantità semi-infinita di contenuti, i vecchi processi e i modelli mentali validi nell’età pre-internet tramite cui ancora molte redazioni si ostinano a ragionare non funzionano più, risultando addirittura nocivi per l’intero sistema. Jennifer Brandel, giornalista e Ceo di Hearken – una “piattaforma audience-driven che permette ai giornalisti di collaborare con i lettori per creare articoli rilevanti e interessanti“ – ha provato a spiegare il metodo alternativo di lavoro della propria piattaforma tramite un fumetto (disegnato da Jean Cochrane), comparando fra loro l’industria giornalistica e quella della ristorazione.
Si tratta di un esempio virtuoso di “corporate comics“, ossia quei fumetti con cui le aziende spiegano il funzionamento dei propri sistemi, processi o prodotti. Un linguaggio sempre più apprezzato in Silicon Valley: dopo le esperienze di Google (che nel 2008 affidò la spiegazione del browser Chrome a un fumetto di Scott McCloud), Zappos, Peugeot, Twitter, eBay, di recente la Apple ha diffuso un fumetto per spiegare le nuove linee guida dell’App Store.
“Per rimanere in affari, dobbiamo capire cosa vuole la gente e fornirne di più. Riusciamo a preparare un report?“, si chiedono all’inizio di questo fumetto due dirigenti, uno dal settore alimentare e uno dai media. Un approccio alla questione che – come raccontato un po’ didascalicamente dalla Brandel – nel giornalismo ci lascia ostaggi di gattini vestiti da esseri umani e notizie sulla famiglia Kardashian, mentre nell’alimentare si trasforma in una dittatura del classico hamburger, patatine e bibita. Un cane che si morde la coda: i contenuti più visti (e i cibi più mangiati) sono tali solo in virtù di un’assenza di alternativa, ma risultando i più visti vanno a confermare l’opinione fallace di chi quei contenuti dovrebbe fornirli, spingendoli a offrirne sempre di più. “Speravo davvero che la gente avrebbe fatto scelte migliori... ma questo evidentemente è ciò che vogliono” commentano sconsolati gli stessi dirigenti controllando i dati emersi dal report.
Cosa succederebbe però se fosse il pubblico a prendere parte ai processi decisionali? Che si tratti di suggerire un articolo sui tunnel sotterranei di Chicago o una ricetta speciale per il proprio ristorante di fiducia, un altro modello è possibile. Un sistema nel quale i lettori non siano solo il passivo punto d’arrivo di una catena che parte dalla redazione del giornale, senza che i due estremi comunichino fra loro. “Le persone condivideranno di sicuro gli articoli quando si sentono davvero connesse a quei contenuti. Succede perché hanno votato per quella storia, perché risponde a una domanda che si erano posti o semplicemente conoscono qualcuno coinvolto nella creazione del contenuto”, ha scritto la Brandel parlando del sito. Ecco, qui sta il segreto: trattare il proprio pubblico come un blocco monolitico fatto di freddi dati (il numero di click, il tempo trascorso sul sito, il numero di condivisioni) è un errore. Coinvolgerli nel proprio lavoro, lasciando che siano parte attiva – se non addirittura l’input iniziale – del processo redazionale diventa invece un ottimo modo di realizzare storie che siano davvero quello che le persone, non più massa informe e senza volto, vogliono leggere: è questo il significato di “audience-driven”.