Gianfranco Morra, ItaliaOggi 9/8/2016, 9 agosto 2016
POLIGAMIA: SI COMINCIA A PARLARNE
Tutto serve, pur di fare bla bla, lo sport più diffuso in Italia. Come la dichiarazione del fondatore della Unione delle comunità islamiche. Nello stesso giorno in cui il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha celebrato le prime «nozze» omosessuali, Hamza (Roberto) Piccardo ha affermato che lo Stato italiano dovrebbe riconoscere la poligamia tra i diritti civili. Uno sdegno unanime: scandalo e offesa alla donna. Tanto più che la fedeltà all’islamismo lo porta a rifiutare le «unioni civili»: «Insieme con milioni di persone non condivido la relazione omosex». Un omofobo, dunque.
Il rifiuto, anche se il più delle volte superficiale e conformista, di questa proposta retriva è stato unanime. Anch’io rifiuto la poligamia. Per me, il matrimonio può essere solo bisessuale e monogamico, come vuole la Bibbia e come l’Europa cristiana ha sempre riconosciuto: «La donna e l’uomo» (non due uomini o due donne) «lasceranno le loro famiglie e saranno due in una sola carne, per crescere e moltiplicarsi» (Gen 1-2, senza utero in affitto). Una unione a due che per Gesù è indissolubile (Mc 10).
Ma allora perché la poligamia (o meglio la poliginia) ha accompagnato per millenni la storia dell’umanità? Per capirlo mi sono rivolto al più grande antropologo del Novecento, Claude Lévi-Strauss, che nel saggio «La famiglia» ha chiarito tutto (è contenuto in Razza e storia, Einaudi). Poche pagine, ma un capolavoro.
È con la famiglia che nasce la socialità e la natura diventa cultura. Come ha mostrato Frazer, le unioni tra maschi e femmine, prima abbandonate all’arbitrio e alla violenza, vennero regolamentate dal tabù dell’incesto, trasformando il matrimonio da endogamico in esogamico. Si tratta di una istituzione presente in tutte le civiltà, che fa nascere unioni durature per fini di sostegno reciproco, legali in quanto sanzionate da una autorità religiosa o giuridica.
Le forme della famiglia sono state e sono diverse, ma dentro tre caratteristiche comuni: 1. nasce dal matrimonio; 2. consiste nell’unione di uomo e donna, con ruoli distinti, allo scopo di avere figli, ma comprende anche numerosi parenti (famiglia estesa); 3. è una unione interdipendente e complementare, insieme legale, economica, religiosa, affettiva retta da precisi diritti e divieti sessuali, non può mai essere una faccenda privata.
La poliginia è stata presente in tutte le civiltà, comprese quelle del mediterraneo. Essa abbonda nella Bibbia (Lamech ebbe due mogli, tre Abramo, due Giacobbe, molte Davide e 700 Salomone). Rifiutata dal Vangelo, verrà regolamentata dal Corano (4, 3: sino a quattro mogli legittime, da trattare con la par condicio).
Non v’è alcun dubbio che solo la monogamia corrisponde alla dignità della donna. Anche due paesi islamici come Turchia e Tunisia l’hanno proibita. E in quelli che la ammettono la poliginia appartiene ad una scarsa minoranza. Non solo perché richiede ricchezza, ma anche perché l’uomo in tutte le sue manifestazioni tende all’unicità (la convivenza a due prevale già in molti animali superiori).
Può essere che nella richiesta di legalizzare la poliginia vi siano anche dei motivi di interesse (ricongiungimento con le mogli, assistenza mutualistica). Ma non può che stupire il fatto che se ne scandalizzino coloro che hanno chiesto le nozze omosessuali e sono poi ripiegati, all’italiana, sulle «unioni civili», che hanno tutte le caratteristiche delle nozze.
Poliginia e omonozze sono due errori, ma lo scopo principale della prima era la stessa del matrimonio: avere una discendenza («auguri e figli maschi!»). Può essere considerata come un privilegio e anche una sopraffazione da parte del maschio, ma rimane pienamente dentro la finalità del matrimonio, la perpetuazione della vita. La poliginia non è una perversione, ma un inammissibile eccesso.
Diversamente accade con le unioni omosessuali. Che ci sono sempre state in tutte le culture e purtroppo spesso sono state represse con crudeltà. Anche quelle civiltà, in cui l’amore gay era diffuso e nobilitato dall’arte, lo consideravano un vizio e un peccato, tutt’al più un comportamento volgare. Nessuna lo ha mai consentito apertamente o nobilitato e meno ancora legalizzato.
La Chiesa di papa Woytila non usava quei giochi di parole con cui oggi, nella babele teologica, si finisce per giustificarlo. Nel suo Catechismo (1992) lo definisce «un atto intrinsecamente disordinato, contrario alla legge naturale, che preclude all’atto sessuale il dono della vita».
Ma guai se questo giudizio si traducesse in violenza e persecuzione. Tutto il contrario: «Nessuna ingiusta discriminazione: devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza» (par. 2357-8).