varie 9/8/2016, 9 agosto 2016
ARTICOLI SU NICCOLO’ CAMPARINI – MARCO IMARISIO, CORRIERE DELLA SERA 9/8 – Sul prato della Royal Artillery gli operai smontavano le strutture
ARTICOLI SU NICCOLO’ CAMPARINI – MARCO IMARISIO, CORRIERE DELLA SERA 9/8 – Sul prato della Royal Artillery gli operai smontavano le strutture. Ma al posto di quella malinconia che si prova alla fine di ogni Olimpiade, i dirigenti del Coni erano in preda all’euforia. «Quel ragazzo ci farà vincere ori per altri vent’anni». E intanto indicavano Niccolò Campriani, che si era preso un’ultima medaglia e vagava per i prati inglesi con l’aria persa, tenendo per mano la sua fidanzata e collega Petra Zublasich. Quattro anni dopo, nel poligono dell’esercito brasiliano, l’ingegnere di Firenze ma ormai cittadino del mondo ha confermato quella profezia, vincendo una gara dove non si sentiva sicuro, battendo nuovi demoni interiori, perché chi cerca la perfezione assoluta non può adagiarsi sulla serenità. Era dal 2013 che non ne azzeccava più una soprattutto nella carabina 10 metri, specialità che mai ha amato. La Federazione internazionale lo aveva chiamato per riscrivere il regolamento di gara. Lui aveva dato i suoi consigli. Avevano fatto il contrario. Risultati delle batterie eliminatorie azzerati, finali partendo tutti alla pari. L’umiliazione aveva fatto saltare un equilibrio già delicato di suo, oltre a fargli mandare a quel Paese i vertici mondiali del tiro a segno. «Ci ho messo tre anni a fare pace con questo format che continua a non piacermi. Avevo cominciato a odiare il mio sport perché non mi ritrovavo nel fatto che il vincitore non è colui che è andato il più vicino possibile al colpo ideale, ma chi invece ha saputo gestire situazioni difficili. Diciamo che ho scelto il momento migliore per svegliarmi...». L’ultima frase viene pronunciata con un sorriso da ragazzino. È lui il primo a essere sorpreso. Il mistero di Niccolò Campriani è tutto qui. Un predestinato che non sa di esserlo. Ieri mattina, dopo che nelle eliminatorie aveva fatto il record olimpico, una cosuccia, i suoi allenatori indulgevano ancora a un certo pessimismo. Il copione era identico alle altre volte. Un mostro in batteria, e poi ultimo in finale, come era avvenuto nelle ultime 12 gare prima di Rio 2016. Avevano convinto anche noi, profani delle armi sportive come la stragrande maggioranza degli italiani. Ma dopo la prima fase avevamo incrociato Marco De Nicco, atleta azzurro che si era ben battuto nelle eliminatorie. Questa è una Olimpiade, e quindi Niccolò parte con almeno cinque colpi di vantaggio, ci aveva detto. Perché? Semplice, è di un’altra categoria rispetto a tutti noi. «È come Maradona». È andata così. Dopo una partenza lenta, ha riservato il meglio per gli ultimi colpi. Niccolò ha combattuto il demone della finale che si era creato da solo e lo ha sconfitto. Con un aiuto insperato, quello della figura paterna. «In finale la tecnica è saltata: punteggi bassi per tutti, un disastro. Per quanto lo abbia odiato negli ultimi anni, questo sport è stato lo strumento con il quel riuscivo a comunicare con papà. Anche le ore di silenzio, il ritorno in macchina quando andavamo male, erano almeno momenti con lui. Ecco, quello è stato il pensiero che mi ha aiutato a schiacciare il chiodo». Con tutto il rispetto per il signor Campriani, che è vivo e sta bene, la ragione del riscatto è un’altra. «Leggenda, che parolone. Sono una persona che studia, lavora e spara bene. Tutto qui». In questa semplicità non di facciata c’è anche il bivio che prima o poi Niccolò dovrà affrontare. Appartiene alla stessa categoria di Maradona e di Andre Agassi, con il quale condivide il rapporto conflittuale con lo sport di riferimento. Ma non è come loro. Ci sono ancora due gare, tra cui la sua amata carabina 3 posizioni che promette bene. A settembre si trasferirà a San Francisco per lavorare in una start up. Il futuro potrebbe essere sempre d’oro, ma non è ancora scritto. Marco Imarisio *** ROBERTO CONDIO, LA STAMPA 9/8 – Forse era già tutto scritto: Niccolò Campriani ha sparato nella finale della carabina con bersaglio a 10 metri dalla corsia F. Come Firenze e Fiorentina, la sua città e la sua squadra del cuore. Non poteva andargli male. A chi glielo fa notare dopo aver vinto l’oro abbozza un sorriso: «No, proprio non ci avevo pensato. Avevo troppe altre cose su cui puntare il mio focus». Già, perché il tiro a segno è tutta questione di testa, di nervi saldi, di pulsazioni da controllare. Ancora di più dal 2013, quando la Federazione internazionale ha cambiato le regole cercando di spettacolarizzare gare altrimenti a rischio noia: in finale il pubblico può tifare, rumoreggiare, c’è pure la musica di sottofondo e, soprattutto, si riparte da zero, con i punti della qualificazione che non contano più. Contro le nuove regole Tre anni e mezzo fa Campriani fu il più convinto contestatore della svolta. Lanciò una petizione tra gli atleti di tutto il mondo, ma poi si dovette rassegnare. «E quel mio approccio - riconosce - è stato l’ostacolo più grande. Rifiutavo le nuove regole, non le digerivo proprio e non ritrovavo più il Niccolò di prima sulla linea di tiro». Sono stati anni di mal di pancia, delusioni e sconfitte. Finché, due mesi fa, dopo il lungo stage con l’inseparabile fidanzata Petra Zublasing nel centro di preparazione americana di Colorado Springs, è stato proprio l’ingegnere-finanziere a decidere di cambiare tutto: posizione e tecnica. E ieri ha vinto il suo secondo oro olimpico, dopo quello di Londra nei 50 metri. Un’impresa che lo fa entrare tra i mostri sacri del tiro a segno di sempre. «In verità, però, questo lo considero un oro in un altro sport - precisa -. È una cosa completamente diversa, questa. Dove la meritocrazia, purtroppo, non viene premiata come dovrebbe». Tifosi indiani rumorosi Tanto per capirci: l’azzurro aveva dominato le qualifiche della mattina stabilendo il nuovo record olimpico con 630,2 punti su 60 tiri, con una media di oltre 10,5 al colpo. Due ore dopo gli otto più bravi sono ripartiti da capo in una sfida ad eliminazione di livello tecnico molto più basso e Niccolò s’è confermato il numero uno facendo 206,1 in 20 tiri. «È 10,3 al colpo. Poco. Ma in questo tipo di finale tutti giocano in difesa, cercando di limitare i danni». E pure l’incidenza dei fattori esterni. Come, ieri nel poligono di Deodoro, le esultanze chiassosissime dei supporter dell’indiano Bindra. «Mi hanno infastidito - confessa il bicampione a cinque cerchi -. Ma non posso avercela con nessuno. Anzi, l’errore, pure grave, è stato solo mio. Avrei dovuto sparare prima di lui, prima di quel baccano che seguiva ogni suo punteggio. Ma ormai avevo regolato il timing dei miei colpi e ho scelto di non modificarlo». Carabina fatta in casa Ha fatto benissimo, anche se dall’11° al 14° tiro su 20 s’è trovato quarto, e persino a rischio di eliminazione. Poi, mentre agli avversari veniva il «braccino», lui continuava col suo ritmo. È diventato primo dopo il 16° colpo e uno alla volta ha salutato l’indiano fracassone, un russo, un ucraino ed è rimasto solo lui. Campione olimpico per la seconda volta in 4 anni. Composto dopo l’oro di Londra, ha sfogato tutta la sua felicità. Poi, la telefonata di Renzi, i complimenti di Malagò, il tenero bacio con la sua Petra e l’«happy ending» di «tre anni davvero molto duri» con quella posa sul podio con le braccia spalancate, a mo’ di Cristo Redentore che domina Rio. È il flash che passerà alla storia. Come questo trionfo tutto «made in Italy», conquistato con la prima carabina costruita da noi, con l’esecuzione firmata Pardini ma le idee proprio di Niccolò e Petra. Grandi atleti, cervelli finissimi. *** MARCO MENSURATI, LA REPUBBLICA 9/8 – A Londra dopo l’ultimo centro si girò e sorrise alzando le mani al cielo in un gesto di liberazione. Oggi, dopo l’oro, ha quasi scaraventato la sua carabina a terra scaricando di colpo tre anni di rabbia. Un periodo lunghissimo che ha lasciato parecchie ferite sul corpo e nell’anima di Niccolò Campriani, uno dei pochi azzurri capaci di vincere due ori olimpici consecutivi ma anche uno degli atleti più atipici del panorama italiano: internazionale per formazione, riflessivo per indole, tanto “ morbido” - come dice ridendo la sua fidanza Petra - quanto tormentato. Se quella del suo oro del 2012 era una storia di resilienza, un viaggio alla ricerca di se stesso, questa di Rio è invece la cronaca di un conflitto irrisolto tra Campriani e il suo mondo. Un mondo che improvvisamente si è rovesciato contro di lui: «Gli ultimi tre anni - dice oggi Niccolò - sono stati difficili, e ho finito per odiare il mio sport». Ma cosa era successo? La federazione internazionale dopo aver fatto finta di ascoltarlo nell’ambito di un tavolo per riformare lo sport ha fatto tutto il contrario di quello che lui, come portavoce di altri tiratori d’elite, aveva suggerito. E aveva cambiato il formato della finale venti colpi sparati alla disperata, partendo tutti da zero - in maniera tale da penalizzare i più talentuosi a vantaggio, presunto, dello spettacolo. Sin dal 2013, quando ha ripreso l’attività dopo Londra, Niccolò è precipitato al centro di una crisi agonistica e sportiva mostruosa: «Fortuna che con me c’è sempre stata Petra (Zublasing, anche lei tiratrice anche lei qui a Rio, ndr) senza di lei non ce l’avrei mai potuta fare, mi ha sopportato anche se non sono certo stato una persona semplice da avere vicino. Le devo tutto e non vedo l’ora adesso di sostenerla in gara». Insieme i due hanno girato il mondo, un po’ per le gare, un po’ per svago, insieme sono stati in Giappone, in Corea, in Vietnam, insieme sono stati ricevuti da Obama per i meriti sportivi conseguiti presso la West Virginia University. E insieme hanno anche deciso che no, lui non si sarebbe arreso. Così, proprio come nel 2008 dopo la delusione di Pechino, Campriani decise di trasferirsi in America per poter realizzare i suoi sogni, allo stesso modo nel 2013 ha scelto di rilanciare forte, ancora una volta, sulla sua vita extra sportiva. Dapprima ha avviato un progetto con la Pardini per costruire una carabina tutta italiana apposta per Rio poi, non soddisfatto, ha vinto uno stage presso la Ferrari, nei cui laboratori ha progettato una morsa per aiutare i tiratori a scegliere le cartucce migliori.. Con l’avvicinarsi delle Olimpiadi, Niccolò ha intensificato l’attività agonistica. Ma nonostante fossero passati tre anni, qualcosa ancora non andava. Quelle finali da circo proprio non gli andavano giù. La svolta è arrivata poco prima della partenza per Rio quando durante un viaggio a San Francisco, Niccolò ha avuto chiara la visione del proprio futuro, un lavoro da ingegnere in Usa tra start up e tecnologia all’avanguardia. È stato come un clic, come se quell’orizzonte di nuovo aperto gli avesse dato un buon motivo per tornare in pista: «Vabbé dai, alla fine le regole sono queste. Farò il meglio che posso, speriamo che basti». È bastato. Anche se per un attimo si è temuto il peggio. Perché dopo essersi qualificato facendo il record olimpico, i fantasmi di questi ultimi tre anni si sono materializzati tutti insieme: il punteggio azzerato in avvio, il chiasso dei tifosi indiani che urlavano proprio quando lui stava per sparare, i tempi lunghi tra un tiro e un altro. A metà della finale Niccolò era quarto ben distante dal primo. Ma proprio in quel momento è venuto fuori il campione: «Ho pensato a mio padre», racconta. Nicco si è chiuso nel suo muro di concentrazione e, per un istante, è tornato quel bambino felice che sparava “insieme al babbo” al poligono di Bibbiena, con una pistola vecchia, «facendo attenzione a non disturbare un uccellino che aveva fatto il nido proprio sotto il bersaglio a fianco». E quel bambino, ora è un uomo felice.