Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 6/8/2016, 6 agosto 2016
BEARZOT PRENDE A SBERLE I CRITICI (E LA GERMANIA)
L’ultima vittoria, contro il modestissimo Lussemburgo, risaliva addirittura al 1981. Dopo quel successo ottenuto con un gol di Fulvio Collovati, per l’Italia attesa dal Mundialdell’82, erano arrivati mesi difficili fitti di sconfitte e processi popolari. Il principale imputato per l’annunciata disfatta spagnola era Enzo Bearzot da Joannis, frazione di Aiello del Friuli, periferia dell’impero asburgico fino al 1918 e borgo contadino della provincia di Udine per il secolo successivo. Forse per la pipa sempre in bocca o per l’aria stropicciata di chi ragazzo non era mai stato, lo chiamavano il Vècio.
L’allenatore della nazionale, in verità, non era affatto anziano, ma a 55 anni, dopo un lungo settennato da commissario tecnico sembrava comunque aver esaurito il proprio ciclo. Lo volevano fuori dai piedi i tifosi, i colleghi e persino il presidente della Lega Calcio, Antonio Matarrese. Se ne sarebbe andato a fine spedizione, Bearzot ma a modo suo. Con i suoi ragazzi, quasi gli stessi di Argentina 78. Con un portiere di 40 anni di nome Dino Zoff tra i pali come capitano e una banda di fedelissimi su cui nessuno avrebbe puntato cento lire. Le settimane che precedettero la partenza furono tesissime. Se c’era da compiacere, Bearzot si voltava dall’altra parte.
L’intera nazione gli chiedeva di portare a Pontevedra, nel ritiro galiziano, il capocannoniere degli ultimi due campionati di serie A, Roberto Pruzzo e il numero dieci dell’Inter, Evaristo Beccalossi. Bearzot aveva finito per lasciare a casa entrambi attendendo invece, in plateale ostilità al buon senso, il ritorno dalla squalifica per calcioscommesse di Paolo Rossi. Pablito era irriconoscibile.
Dimagrito di cinque chili, da mesi alieno all’agonismo e gravato dal fardello dell’immoralità, Rossi sembrava la carta sbagliata al momento sbagliato. Per imbarcare sul volo il baffuto re di Crocefieschi e il Beck che incantava San Siro, Bearzot subì pressioni enormi. Resistette, con tanto di colluttazione alla vigilia della trasvolata spagnola, quando in un momento di sbandamento, appena sceso dal pullman, credette di sentire un insulto tra “scimmione” e “bastardo” e allungò uno schiaffo a una tifosa che aveva trasceso i limiti della critica. La ragazza sostenne di aver insultato un altro tifoso che l’aveva spinta, Bearzot si rammaricò del proprio gesto e i due con tanto di stretta di mano fecero pace. Ma il danno era fatto, il Vècio però partì in guerra con il resto del Paese e l’inizio del Mondiale compromise definitivamente i rapporti.
Di incendiare il quadro si incaricò la stentata affermazione con il Braga. Matarrese fece sapere alla stampa che i giocatori avrebbero meritato un calcio in culo, Eugenio Fascetti, allenatore operaio che con Antonio Pennacchi aveva diviso l’esperienza alla Fulgorcavi di Latina disse che si vergognava della truppa di Bearzot, il resto lo fecero le infelici insinuazioni sullo stretto rapporto tra Rossi e Cabrini: “Dividono la camera da letto” e le malevoli voci su un premio da 70 milioni di lire che sarebbe toccato a ogni azzurro per la precaria qualificazione agli ottavi di finale conquistata dopo (non) aver spezzato le reni a Polonia, Perù e Camerun.
Tre pareggi stentati l’ultimo dei quali, con gli africani del portiere N’Kono, conquistato con l’ombra di un accordo sottobanco. Ce n’era abbastanza per interrompere i rapporti con i giornalisti al seguito della squadra. Rossi, per scelta personale, non parlava già da qualche giorno. I suoi ventuno compagni ne seguirono l’esempio comunicandolo ai cronisti sul volo da Vigo a Barcellona dove l’Italia era attesa dallo scontro apparentemente già perso con l’Argentina. Quel giorno l’Italia invece vinse e i calciatori, proprio da quella vittoria sorprendente, decisero che la bocca sarebbe rimasta chiusa fino al ritorno in Italia anche in funzione scaramantica. “Il silenzio stampa porta bene” disse Tardelli.
Gli altri annuirono. Il più saggio della truppa, Dino Zoff, restò l’unico tramite con la stampa e l’Italia stretta al Vècio rinserrò le fila, spazzò via il Brasile, eliminò la Polonia e nella notte dell’11 luglio 1982 piegò la Germania e riempì le piazze per una festa durata fino all’alba. Come insegnò poi Johan Cruyff, non c’era trionfo che non nascesse proprio dal conflitto.
L’Italia di Bearzot aveva dovuto far leva sui nemici interni (nient’affatto immaginari) e dall’inimicizia e dallo scetticismo collettivo aveva tratto la forza per spingersi al di là dei propri limiti. Dopo la notte del Santiago Bernabeu, i reietti di poche settimane prima, scortati da un’altra pipa, quella del Presidente Sandro Pertini, divennero eroi legando volti, espressioni e gesti alla memoria eterna e alle immagini senza tempo.
L’urlo di Tardelli dopo la rete del due a zero, il vecchio Dino in maglia grigia con la Coppa al cielo, i poliziotti spagnoli che tentano di impedire la festa, Ivano Bordon che corre in campo scattando dalla panchina, Re Juan Carlos in tribuna, felice in fondo anche lui perché per una volta- “beato chi è sovrano”- sul trono si era seduto un sovrano inatteso, Pertini e i calciatori che giocano a Scopone, il bagno di folla al ritorno in luogo dei pomodori che dopo la Corea dei dentisti erano toccati a Mondino Fabbri e ai disgraziati interpreti del fallimento inglese del 1966. Da falliti a salvatori della patria il passo fu brevissimo.
Il trionfo spagnolo impose la conferma di Bearzot (ma il ciclo era finito davvero proprio nel suo momento più alto come si incaricarono di dimostrare la naufragata qualificazione all’Europeo del 1984 e la sgangherata spedizione messicana di due anni più tardi) e vide la santificazione dei 22 che a Madrid vestirono d’azzurro. Uomini verticali, così verticali da toccare il paradiso senza la presunzione di farlo attendere.
di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 6/8/2016