Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  agosto 06 Sabato calendario

LA LIBIA CHIEDE A RENZI I 5 MILIARDI DELL’AMICIZIA

C’è una guerra parallela in Libia. Un’altra guerra, che non si combatte dai cieli di Sirte. Quella tra l’Italia e il nuovo governo di Fayez Serraj che vale 5 miliardi di euro. “Siamo interessati a rinnovare l’accordo di cooperazione italo-libico, firmato il 30 agosto del 2008, che aiuterà i nostri programmi di riforma economica e il ritorno delle aziende e degli investimenti italiani in Libia”. Le parole del premier Serraj, nella sua visita a Roma del dicembre 2015, erano sembrate un generico auspicio per ripristinare la normalità, dopo il caos seguito alla guerra del 2011 e alla caduta di Gheddafi. Invece erano l’inizio di un contenzioso che ora rischia di degenerare: per consolidare il suo vacillante potere, Serraj ha chiesto agli americani i raid contro le milizie dell’Isis e all’Italia i soldi. Tanti: 5 miliardi in vent’anni, almeno un miliardo subito. Peccato che quei soldi non ci siano più.
Torniamo al 30 agosto 2008: a Bengasi l’allora premier Silvio Berlusconi firma con il dittatore Gheddafi il “trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione”. Ufficialmente deve chiudere vecchi contenziosi post-coloniali, prevede investimenti in Libia, lavori pubblici pagati dall’Italia e affidati a imprese italiane. In cambio Gheddafi si impegnava a fermare, con i suoi metodi, il flusso di disperati che si imbarcavano dalle coste libiche diretti verso l’Italia. Era una fase in cui perfino l’Onu cercava di dare una patina di rispettabilità al regime di Gheddafi, cruciale per gli equilibri in Nord Africa.
La parte più concreta del trattato prevedeva un impegno finanziario da parte di Roma di 250 milioni l’anno dal 2008 al 2028, senza trasferimenti diretti da un Paese all’altro, ma con progetti infrastrutturali consegnati a imprese italiane e pagati dallo Stato italiano. La Libia doveva guadagnare autostrade e ponti, l’Italia, sosteneva Gheddafi, creava occasioni di lavoro per le proprie imprese. Da dove arrivano le risorse necessarie? Da una nuova tassa, un’addizionale Ires del 4% all’utile ante-imposte che colpiva dal 2009 una sola azienda, parecchio attiva in Libia: l’Eni. La società petrolifera controllata oggi dalla Cassa depositi e prestiti, subito contesta la legge numero 7 del 6 febbraio 2009 che introduce il balzello. La ritiene incostituzionale e incompatibile con il diritto comunitario.
Alla fine di febbraio 2011 l’Italia sospende il trattato con la Libia: è un passo necessario per partecipare all’operazione internazionale e non lasciare l’iniziativa militare – e il controllo del Paese e del suo petrolio dopo la rimozione del dittatore – solo alla Francia. Con il trattato in vigore, le clausole di non aggressione reciproca avrebbero impedito ogni attacco. Anche il Colonnello è piuttosto disinvolto nell’applicazione dell’accordo: secondo quanto hanno riferito in questi anni alcuni diplomatici italiani, gran parte delle risorse fornite dall’Italia non sono state destinate a infrastrutture ma a sostenere la difesa del regime. Dopo la sospensione, tutti si dimenticano del trattato. Tutti tranne l’Eni.
Nel dicembre 2013 l’azienda petrolifera ottiene una sentenza di secondo grado favorevole dalla commissione tributaria di Roma che accoglie il suo ricorso: la tassa per finanziare il raìs è illegittima. Il governo, forse considerando la pratica ormai archiviata visto che i soldi dovevano sostenere Gheddafi e il dittatore ormai era morto, rinuncia a impugnare (o dimentica di farlo) la sentenza che diventa definitiva nel giugno del 2014. “La sentenza di per sé comporta il diritto al rimborso di una quota dell’imposta relativa all’esercizio 2009 per un importo di circa 76 milioni. Eni sta approfondendo gli effetti della sentenza sui versamenti già effettuati e su quelli futuri: a questo scopo ha formulato una richiesta di interpello alle competenti Autorità fiscali”, si legge nel bilancio del gruppo del 2014. Risultato: i 5 miliardi del trattato Italia-Libia non ci sono più, visto che la tassa era studiata per colpire soltanto l’Eni e l’azienda è riuscita a mettersi al riparo dal fisco, quindi l’articolo 3 riferito alla copertura finanziaria della legge di ratifica del trattato non può più produrre alcun effetto. Un problema in meno per l’azienda oggi guidata da Claudio Descalzi. Ma per Renzi non sarà semplice spiegarlo a Serraj.
di Stefano Feltri e Carlo Tecce, il Fatto Quotidiano 6/8/2016