Gianfrancesco Turano, l’Espresso 7/8/2016, 7 agosto 2016
DEI PER UN MINUTO
Se lo ricordano in pochi. Nel 2012 a Londra ha vinto l’oro. Ai Giochi di Rio non si è qualificato ma una medaglia se la merita lo stesso. Si chiama Carlo Molfetta e il 12 luglio scorso ha twittato: «Io vinco le Olimpiadi e sono un pirla. Pellè è un pirla e prenderà 16 milioni di euro l’anno! Ergo nella vita meglio essere un pirla».
Molfetta ha poi chiarito: «Il pirla era anche riferito all’errore dal dischetto agli ultimi Europei e al famoso gesto dello scavetto fatto a Neuer. Sarebbe come se io andassi dal mio avversario prima di un match e gli dicessi: ti faccio un culo così. E poi perdessi l’incontro».
Molfetta, salentino come Pellè, è un campione di taekwondo, arte marziale coreana introdotta nel programma olimpico a Seul nel 1988 come sport dimostrativo. Se non fosse stato eliminato al preolimpico di gennaio, Molfetta avrebbe potuto puntare di nuovo al jackpot dell’oro, quotato dal Coni 150 mila euro (lordi, a differenza dello stipendio di Pellè). Quattro anni di sacrifici non si affrontano nella speranza di vincere 80 mila euro netti contro i più forti del mondo. L’unico movente è la passione sportiva.
In questo, e solo in questo, le Olimpiadi sono rimaste dilettantismo nel senso etimologico del termine. Si compete per diletto o perché si è "amateur", nella lingua del barone de Coubertin.
La passione può abbinarsi alla gloria ma niente dura meno della gloria senza un giro d’affari adeguato. Lo sprinter giamaicano Usain Bolt o la stella della Nba Kevin Durant sono punte di diamante nell’entertainment business quanto Matt Damon o Jennifer Lawrence. La portabandiera Federica Pellegrini fa la pubblicità in tv. Idem il fidanzato Filippo Magnini. Molfetta e quegli azzurri che, a Rio come in ogni altra Olimpiade, contribuiranno in quota maggioritaria al medagliere italiano con la scherma, il tiro a segno, il tiro a volo, il tiro con l’arco, la lotta, sono destinati all’oblio in tempi brevissimi secondo il teorema dell’arciere Marco Galiazzo, due ori (2004, 2012) e un argento (2008). «Il brutto è che ora il nostro sport cadrà nel dimenticatoio per altri quattro anni».
E perché poi non dovrebbe? Il mondo ha ignorato in vita Franz Kafka. Non c’è da meravigliarsi se l’epopea olimpica moderna è ricca di campioni sedotti e abbandonati dalla fama ai piedi del podio.
il doping al tempo della Stasi
I Giochi di Rio sono segnati in partenza dal doping sistematico, che avvenga sotto patrocinio statale (Russia e Cina) o sotto il segno dell’impresa privata (tutti gli altri). I nuovi test stanno consentendo di scoprire nuove positività risalenti ai Giochi del 2008 (Pechino) e del 2012 (Londra). Ma in Germania non si sono ancora spente le polemiche per i trionfi anabolizzati della Ddr, lo squadrone tedesco-orientale capace, con 17 milioni di abitanti, di piazzarsi al secondo posto nel medagliere a Montreal 1976 e a Seul 1988, davanti agli Stati Uniti, oltre che nell’edizione boicottata di Mosca 1980.
I giochi coreani sono stati l’ultimo momento di una gloria truffaldina certificata dalle analisi antidoping che da Messico 1968 a Seul 1988 non hanno mai trovato positivo un solo atleta della Germania est, caso unico fra i paesi del socialismo reale.
La verità è venuta fuori dopo la caduta del muro di Berlino (novembre 1989). Ancora più che in Unione Sovietica la macchina della propaganda imponeva agli sportivi della Ddr l’uso di sostanze dopanti a partire da un’età di 8 anni grazie al programma denominato14.25 in codice. Gli exploit degli araldi del compagno segretario Erich Honecker, erano sostenuti da dosi massicce di Oral-Turinabol, uno steroide prodotto dall’azienda di Stato Jenapharm, poi privatizzata e acquisita dalla Schering.
Dopo la riunificazione della Germania, il doping di Stato è stato denunciato da molti olimpionici e negato da altri. Fra coloro che hanno chiesto un risarcimento all’ex Jenapharm ci sono la nuotatrice Rica Reinisch, la sprinter di atletica Ines Geipel, il martellista Thomas Gotze, oggi procuratore della Repubblica, e un gruppo di circa 200 atleti. Sono nomi che in alcuni casi sono poco conosciuti anche agli esperti.
L’elenco delle nuotatrici tedesche che sono state private a posteriori del titolo simbolico di Nuotatrice dell’anno è lungo: Ulrike Tauber, Ute Geweniger, Petra Schneider, Kristin Otto, Barbara Krause, Silke Hörner e la grande Kornelia Ender, prima donna a vincere quattro ori in un’Olimpiade e prima nuotatrice dell’est a ottenere le copertine del gossip occidentale grazie al suo fidanzamento con il connazionale Roland Matthes che ha sempre negato ogni coinvolgimento nel programma orchestrato dalla Stasi, la polizia di Stato di Honecker.
Il caso di scuola è quello della lanciatrice del peso Heidi Krieger che nella sua carriera ha assunto un totale di 2,6 chilogrammi di Turinabol (1 chilo in più dello sprinter canadese Ben Johnson). Qualche anno fa Krieger ha cambiato sesso. Si chiama Andreas e ha sposato un’altra sportiva del tempo, la nuotatrice Ute Krause.
Sul fronte negazionista si trovano il pesista Ulf Timmermann, mentre il collega Udo Beyer ha confessato l’uso di steroidi. Non ha mai ammesso il doping neanche Marita Koch, detentrice del record mondiale dei 400 piani tolto nel 1985 all’arcirivale cecoslovacca Jarmila Kratochvílová che tuttora ha il miglior tempo di sempre sugli 800 metri, stabilito nel 1983. È il record più longevo dell’atletica all’aperto. Negli 800 a Rio correrà un’altra atleta molto discussa, la sudafricana Caster Semenya.
Altrettanto negazionista è stata la casa farmaceutica Schering che a lungo ha addossato agli ex atleti in maglia blu la responsabilità di avere abusato del Turinabol. Nel 2005 il comitato olimpico tedesco ha versato 9250 euro di risarcimento a ogni atleta. Un anno dopo l’ex Jenapharm ha sborsato la stessa cifra a chiusura del contenzioso. Il martellista Detlef Gerstenberg non è arrivato a questo traguardo. È morto di cirrosi epatica a 35 anni nel 1993.
Vita da pantera nera
Può sembrare strano inserire nella lista degli atleti dimenticati Tommie Smith e John Carlos, oro e bronzo sui 200 metri a Città del Messico nel 1968. Di sicuro, i due statunitensi hanno avuto infinitamente meno fama e riconoscimenti rispetto alla foto che li ritrae durante la cerimonia di premiazione con la testa bassa e il pugno guantato di nero teso verso il cielo in sostegno alle lotte dei neri americani. Erano passati sei mesi dall’assassinio di Martin Luther King e quattro mesi dall’omicidio di Robert Kennedy. Come replica, il vincitore dell’oro dei pesi massimi nella boxe all’Olimpiade messicana, l’afroamericano George Foreman, futuro campione del mondo, si presentò sul ring avvolto dalla bandiera a stelle e strisce dicendo che la protesta di Smith e Carlos era roba da "universitari", pur essendo i due sprinter di origine molto povera e ammessi al college solo per le loro capacità atletiche.
Carlos e Smith vennero immediatamente allontanati dalla squadra Usa e accolti in patria come due pericolosi estremisti vicini al movimento delle Pantere Nere. Con gli Stati Uniti in guerra in Vietnam certi atteggiamenti non erano tollerati.
Nel 1967 era finita in castigo la medaglia d’oro dei pesi massimi leggeri di Roma 1960, Cassius Clay. Il futuro Mohammed Ali aveva rifiutato il servizio militare con la frase "I ain’t got no quarrel with those Vietcong" ("non ho motivi di lite con i Vietcong"). Era stato privato del titolo mondiale e condannato in primo grado a cinque anni, rimanendo fuori dal ring per tre anni e mezzo.
Ai due sprinter andò peggio. Per un lungo periodo Carlos fece il facchino al porto della sua città, New York, e Smith lavò auto a casa sua, nel Texas della segregazione.
"The Jet" Smith oggi ha 72 anni e ha allenato al Santa Monica College. Lo scorso maggio ha partecipato a una manifestazione al Mémorial Acte, il museo dedicato alla tratta degli schiavi alla Guadalupa.
Carlos ha lavorato senza grande costrutto finché ha ricevuto una consulenza al liceo di Palm Springs.
Il più dimenticato dei tre è il terzo della foto, l’australiano Peter Norman, argento di quei 200 metri. In segno di solidarietà si presentò sul podio con uno stemma dell’Olympic project for Human rights ricevuto da un altro atleta Usa. Norman non fu mai più convocato in squadra, pur essendo il più veloce del suo paese, e rimase a lungo disoccupato.
Alla morte di Norman nel 2006, Smith e Carlos presero l’aereo fino a Melbourne per portare il feretro.