Alberto Negri, Limes n. 7 luglio 2016, 7 luglio 2016
LA PAGLIUZZA TURCA E GLI OCCHI DELL’OCCIDENTE
Il colpo di stato o e il contro-golpe in Turchia scoperchiano un altro vaso di Pandora, questa volta non nel solito Medio Oriente ma sul fianco sud-orientale del sistema di sicurezza occidentale, dentro e oltre i confini europei. Dopo il terrorismo jihadista, nella casa europea sempre più disarticolata è arrivato un altro fattore di pericolosa destabilizzazione: ma se il colpo di Stato non era forse prevedibile l’inquietante deriva della Turchia di Erdogan era stata raccontata su queste colonne, e in generale dai media, con largo anticipo.
Perché accettiamo autocrati e dittatori? Perché servono: siamo complici, non partner. Loro lo sanno, si fanno usare e poi sfuggono al controllo e ci ricattano secondo un copione che conosciamo benissimo. Il presidente turco Erdogan è solo l’ultimo della lista, ma forse il più insidioso in quanto non solo appoggiato da una maggioranza elettorale conservatrice ma perché fa parte dell’apparato occidentale, con 24 basi dell’Alleanza Atlantica sul territorio, armi nucleari comprese. Con le leggi speciali e l’epurazione nelle Forze armate, oltre a quella nell’amministrazione, nell’istruzione e nella magistratura, mette sotto torchio i generali laici, probabilmente più fedeli alla Nato che a lui.
Gli ingressi delle caserme di Istanbul sono stati sbarrati da autotreni e camion dell’immondizia, compresa la caserma Nato a Maslak: gli ufficiali sono sotto consegna e seguiti a vista chi polizia e uomini dei servizi. Insieme alle foto delle reclute ribelli ammassate come sardine nelle palestre, seminude con le mani legate dietro la schiena, tutto questo costituisce uno spettacolo umiliante per le Forze armate, come mai era accaduto nella patria di Kemal Atatürk, dove l’esercito è stato per quasi un secolo la pietra angolare della repubblica, il protagonista con tre colpi di Stato della vita politica ma anche di quella economica e sociale. Non solo il guardiano della repubblica secolarista ma anche dell’integrità territoriale della nazione.
2. Gli Stati Uniti e l’Europa non sanno cosa fare: sono a letto con il nemico che è anche un loro amico e alleato. L’imbarazzo è palpabile e sfiora l’autoironia.
Il consolato Usa a Istanbul il 20 luglio celebrava, in ritardo sul 4 luglio, la festa nazionale: sull’invito si leggeva – testuali parole – che il ricevimento «su incoraggiamento delle autorità turche di sicurezza» era dedicato «non» al giorno dell’indipendenza americana ma alla «partnership strategica Usa-Turchia». Ecco servita la politica occidentale: è immaginabile che Washington tenga sotto pressione Erdogan ma solo fino a un certo punto, così come l’Unione Europea, che ha firmato con Ankara un accordo perché si tenga tre milioni di profughi siriani.
C’è un doppio standard della politica internazionale di cui Erdogan prima ha fatto le spese e poi ha approfittato usando proprio le regole europee per far fuori i generali laici con falsi processi. Del resto chi ha mai difeso la Turchia quando con la Mari Marmara si scontrò con Israele per gli aiuti a Gaza, dove oggi il 90% della popolazione vive soltanto grazie alle razioni dell’Onu? E chi ha mai sostenuto il presidente egiziano Mursi - un fratello musulmano appoggiato da Erdogan - sia pure regolarmente eletto? Con il generale al-Sisi, Stati Uniti, Francia e Russia fanno regolarmente affari, finanziati peraltro dai soldi dell’Arabia Saudita. Si è visto un briciolo di concreta solidarietà europea all’Italia sul caso Regeni? Se va avanti così saremo costretti a rimandare al Cairo l’ambasciatore per proteggere gli interessi dell’Eni e quelli delle aziende italiane. E tra un po’ sulle violazioni del governo turco alle libertà minime ci sentiremo rispondere: Erdogan è peggio di al-Sisi? Siamo uomini di mondo, suvvia.
Ci sono lezioni che si impartiscono una volta sola e che qualunque rais, aspirante sultano o califfo della zona manda a memoria. Per questo il presidente turco ha fatto la pace con Israele: quando nella regione sei gradito allo Stato ebraico a casa puoi fare quello che vuoi, questo è lo standard dalle nostre parti ed Erdogan lo conosce perfettamente. La riappacificazione con la Russia di Vladimir Putin chiude un triangolo perfetto: tre paesi che non tengono in gran conto i diritti umani e occupano come Israele territori altrui, da quelli palestinesi al Golan siriano. Ma non è esattamente questo l’incrollabile messaggio che mandiamo da decenni al mondo musulmano?
Non solo. Pensiamo di usare gli autocrati come ci pare: un tempo Saddam per fare la guerra all’Iran, oggi Erdogan per condurre con i jihadisti quella alla Siria di al-Asad perché fa comodo al fronte sunnita anti-Iran, cioè a quelle monarchie del Golfo che ci riempiono le tasche di quattrini in commesse militari e investimenti.
Gli americani la chiamano politica del «doppio contenimento», sia del fronte sunnita sia di quello sciita, dove per altro gli Usa bloccano le banche internazionali che vogliono fare affari con Teheran, senza mai scomporsi nei confronti dei sauditi che tagliano teste a tutto spiano. La pena di morte minacciata da Erdogan è a geometria variabile: si vedono mai dei sit-in davanti all’ambasciata saudita? In compenso vanno davanti a quella della Repubblica Islamica dell’Iran, regime brutale ma certo non peggiore di quello di Riyad.
Ma gli iraniani hanno una colpa, un peccato originale che non è stato lavato neppure dall’accordo sul nucleare, riguardo al quale l’anno scorso quelli che ponevano maggiori ostacoli alla firma, sfiorando quasi il ridicolo, erano i francesi, per compiacere i clienti sauditi che stavano salvando a colpi di miliardi di dollari l’industria atomica Aréva, azienda decotta con i libri già in tribunale. La Repubblica Islamica, con la sua economia delibasse della resistenza», non ha mai ceduto all’Occidente, ha sopportato oltre tre decenni di sanzioni, non è indebitata con le banche internazionali e può fare una politica magari astuta ma discretamente indipendente anche se economicamente tributaria della Cina e della Russia.
Gli americani, con i loro clienti israeliani e sauditi, sono così infastiditi che impediscono alle banche internazionali di fare affari con Teheran.
3. Tutte queste cose Erdogan le conosce bene perché di traffici con l’Iran sa molto, quasi tutto. In aprile a Miami è stato arrestato un cittadino turco-iraniano, Reza Zarrab. Con lui, in una prigione federale americana sono finiti molti dei segreti della tangentopoli del Bosforo, il clamoroso scandalo di corruzione che nel 2013 fece tremare il governo allora guidato proprio da Erdogan.
In Turchia la maxi-inchiesta era finita in una bolla di sapone, archiviata dai magistrati dopo che quelli che l’avevano aperta – arrestando proprio Zarrab – erano stati estromessi dall’indagine. Un colossale insabbiamento. Cacciati dalla magistratura, alcuni dei giudici che avevano aperto il caso sono persino fuggiti dalla Turchia, dove rischiavano il carcere con l’accusa di aver cospirato per rovesciare il governo. Niente di nuovo sotto il sole della Turchia.
Erdogan ha fatto carte false per dimostrare che è tutto un complotto orchestrato dal suo nemico numero uno, Fethullah Gülen, colui che più di tutti negli anni scorsi lo aveva aiutato a consolidare il suo potere. Zarrab è stato fermato con l’accusa di aver riciclato denaro sporco, aggirando le sanzioni americane contro Teheran. Molte delle operazioni sono frutto della sua partnership con Babak Zanjani, tycoon iraniano, tra gli uomini più ricchi del paese, condannato a morte dalla giustizia di Teheran per corruzione.
Il meccanismo per evadere le sanzioni, secondo le accuse, prevedeva il pagamento in oro del petrolio iraniano acquistato in Turchia. Fondi neri poi fatti transitare da Zarrab su banche americane per conto di uomini d’affari. Un business che avrebbe avuto in Turchia il suo cuore pulsante. L’anno scorso Zarrab aveva persino ricevuto dalle mani di alcuni ministri un premio per il suo contributo all’export nazionale. Il destino di Zarrab rischia di incrociare da vicino quello del presidente turco e della sua famiglia. Nel suo insidioso dossier potrebbero spuntare pagine scottanti anche sul figlio di Erdogan. Bilal, che intanto per imprecisati «motivi di sicurezza» ha lasciato Bologna dove viveva ed era indagato per riciclaggio.
Ecco quale potrebbe essere il negoziato con gli Usa. Non il ristabilimento di regole democratiche: la testa di Zarrab contro quella di Gülen, di cui Erdogan chiede l’estradizione. Gli americani potrebbero far cadere le accuse all’uomo d’affari che coinvolge il presidente turco e la sua famiglia, e in cambio si tengono l’imam in esilio in Pennsylvania.
4. Per tutti questi compromessi, abbiamo tollerato che la Turchia si islamizzasse, che Erdogan reprimesse chiunque non la pensasse come lui, facendo fuori oltre al Pkk anche i civili curdi. Ma ci siamo già dimenticati di Kobani, quando bastonava i volontari anti-jihadisti? Entrando dai buchi nei reticolati della frontiera si era inseguiti dalla polizia turca, uscendo la stessa polizia ti inseguiva di nuovo per assestare qualche altra mazzata. I jihadisti dello Stato Islamico godevano invece di assoluta libertà: esportavano petrolio, importavano armi e compivano attentati in territorio turco come a Suruç e Diyarbakir diretti contro l’opposizione, curda e laica, a Erdogan. Il direttore di Cumhuriyet, Can Dündar, lo ha documentato ed è stato persino incarcerato. Ora se ne sta all’estero insieme a molti altri reporter indipendenti, da Yavuz Baydar a Cengiz Çandar.
La società civile turca, dai giornalisti ai professori, agli accademici, cui è impedito ora di andare all’estero, si svuota delle sue teste migliori o viene paralizzata e noi stiamo a guardare: cosa pensiamo di trovare qui tra qualche tempo? Per dodici anni ho assistito al degrado dell’Iraq sotto sanzioni, materiale, morale e culturale: quando gli americani nel 2003 attaccarono Saddam il paese era già da tempo in agonia. Non è così sorprendente che, grazie anche ai marchiani errori politici dell’occupazione Usa, prima abbia attecchito al-Qà’ida e poi il Califfato.
La Turchia non è l’Iraq ma forse è persino peggio pensare che questo accada a un paese con cui si trattava, fino a qualche settimana fa, di liberalizzare i visti discutendo i capitoli per il negoziato di ingresso nell’Unione Europea.
Oggi Erdogan ci sembra spaventoso ma la signora cancelliera Angela Merkel gli ha stretto calorosamente la mano perché si tenesse tre milioni di profughi siriani. Anzi, si è spinta pili in là: durante una visita al confine turco-siriano si è dichiarata favorevole a una safe zone dell’esercito di Ankara in territorio siriano. Questione che persino gli americani hanno escluso. Mandiamo in giro politici che non sanno neppure di che cosa parlano o disposti a vendersi qualunque disastro geopolitico pur di togliersi dai piedi i problemi che loro stessi hanno creato. E la Merkel non è certo la peggiore. Settimane dopo il rapporto britannico sulle responsabilità di Tony Blair riguardo alle menzogne propalate per fare la guerra in Iraq nel 2003. l’ex premier sorrideva nella hall dell’Hotel Colony a Gerusalemme dove occupa ancora un intero piano: chi paga il conto?
Poi. quasi sempre, qualche cosa con gli autocrati non funziona, come la guerra contro al-Asad. E facciamo finta che non sia stata la signora Hillary Clinton, da segretario di Stato, a incoraggiare la Turchia a inviare migliaia di militanti sull’autostrada del jihad che adesso tornano nei loro paesi e a casa nostra a fare i terroristi. Il risultato è il seguente: non abbiamo la democrazia in Siria – dove fa la guardia Putin – e ora neppure in Turchia. Un capolavoro di ipocrisia e forse anche di imbecillità.