Riccardo Romani, il venerdì di Repubblica 5/8/2016, 5 agosto 2016
LA STORIA DI WAHEED ABDULRIDHA. IL PUGILE-SOLDATO IRACHENO CHE VA A RIO
Quando Waheed Abdulridha ha fatto ritorno a Bagdad dopo aver conquistato a Baku la qualificazione all’Olimpiade di Rio, ad accoglierlo ha trovato l’inferno. Una cosa del genere non succedeva da anni, un attacco terroristico portentoso nel cuore della capitale, i 1 quartiere dello shopping a Karrada, 250 morti in poche ore, decine di bambini spazzati via mentre il mondo era distratto dalla strage di Dacca.
A Waheed Abdulridha, 75 chili, 32 anni, soldato inappuntabile e pugile sognatore, non è stato concesso di celebrare.
Più che il racconto di un’impresa sportiva, questa è la storia di una scommessa aperta due anni fa in un sobborgo di Bagdad in cui stavo seguendo a distanza l’avanzata dall’Is. Invece dei soldati del Califfato ho però trovato un gruppo di ragazzi senza neppure una palestra in cui sudare ma non certo privi d’immaginazione. Al posto dei tradizionali sacelli loro usavano una parete di cemento per allenarsi, condannando le proprie nocche a nottate di pene assicurate.
Un tipo gracile e insolente non aveva perso tempo: «Siamo qui perché vogliamo qualificarci per l’Olimpiade». Si chiama Jafaar, ha oggi 20 anni, ed è giunto a un solo match dal riuscirci, che se ripenso alla parete di cemento, è un po’ come se avesse vinto tre medaglie d’oro in un colpo.
Quel giorno ho messo da parte l’Is per seguire da vicino la più sgangherata e passionale squadra di boxe al mondo, composta per metà da ragazzi costretti a dividersi tra il fronte e la palestra (che in seguito è stata rimessa in sesto e addio cemento).
È nata lì l’idea del documentario, il regista Alfonso Cuarón ci ha creduto al punto da diventarne produttore esecutivo, ed io ho cominciato a frequentare l’Iraq per raccontare una storia che, per quasi tutti era solo una clamorosa illusione. La selezione per arrivare ai Giochi nel pugilato è spietata: per un ragazzo iracheno che si allena come può, superare atleti americani, russi, kazaki, inglesi, cubani, è un’impresa insormontabile
Invece il protagonista del film è Waheed Abdulridha, l’uomo capace di battere i pronostici e un po’ anche simbolo di un Paese che ha una voglia disperata di cambiare, nonostante scoppi una bomba ogni giorno e a dispetto delle morti continue ignorate dall’opinione pubblica internazionale.
«Viviamo in uno stato di conflitto perenne ormai da anni, nessuno ricorda quasi più come fosse la vita ai tempi in cui non c’erano guerre. È il nostro status normale, ma questo non significa che ci piaccia. Ho combattuto su diversi fronti, ho rischiato la vita per il mio Paese, poi mi hanno concesso di prepararmi per i vari tornei preolimpici e ho continuato a combattere pensando ai miei compagni che lo fanno al mio posto, armi in braccio, sentendomi anche un po’ in colpa. Credo però che riuscire a far parlare del mio Paese attraverso lo sport sia ugualmente importante. Noi iracheni vogliamo la pace e la convivenza tra diverse etnie, ma da anni sopportiamo di essere dipinti all’estero come un popolo alla stregua dei nostri nemici, i terroristi dell’Is».
Quando Waheed ha cominciato a crederci, le truppe del Califfato erano a meno di 40 chilometri da Bagdad, a ovest occupando Falluja, a nord presidiando Tikrit dall’antico palazzo di Saddam Hussein. Il pessimismo lasciava supporre che presto i terroristi si sarebbero presi anche la capitale indebolita dalle sue divisioni.
Ma bastava ritrovarsi in palestra con i ragazzi della squadra per scoprire che le spaccature settarie, l’odio di quartiere esploso d’improvviso dopo l’occupazione americana sono argomenti da prendere con le dovute cautele.
«Guardati attorno» esorta ancora adesso Jafaar «qui ci sono curdi, sciiti, sunniti, anche cristiani e a nessuno interessa un accidente. Quando possiamo ci vediamo anche fuori dal ring, le nostre famiglie si frequentano. È sempre stato cosi in Iraq, tutto il resto sono storie costruite ad arte e alimentate da pazzi furiosi che vogliono il male di questo Paese».
Saadi invece è troppo giovane per poter ambire all’Olimpiade, ma alle prossime, quelle di Tokio, spera di andarci. È un leader naturale, Waheed gli regala consigli preziosi. Oltre che col montante destro, mi dicono sia abile con il grilletto. Però è un ragazzo schivo e non vuole ostentare il numero di terroristi che avrebbe eliminato in combattimento tra Ramadi e Tikrit. Se i compagni non lo vedono arrivare all’allenamento, sanno già che un dovere più grande lo ha chiamato.
«Quello di difendere il nostro Paese» mi spiega Saadi, «è un obbligo per ciascuno di noi. Dobbiamo aiutare l’esercito, dobbiamo liberarci. Ci sono molti problemi in Iraq, incontro molti giovani che in cambio di denaro ti chiedono di tradire uno dei tuoi amici. Usano la religione e ne distorcono il messaggio. Io voglio essere un buon pugile, è tutto quello che ho. Mio padre era un pugile e anche mio fratello è molto bravo. Ma devo fare in modo che l’Iraq torni indipendente e sicuro».
Saadi è volontario nelle milizie speciali sciite, sono gruppi militari ben organizzati che affiancano l’esercito iracheno. Lo scorso anno, sciiti e sunniti hanno combattuto fianco a fianco per riguadagnare terreno. A tornare in mani irachene per prima è stata Tikrit, con gli aguzzini dell’Is ricacciati a nord. Ci siamo stati nella Tikrit liberata, ci hanno condotto in un sobrio santuario allestito dentro l’antica tenuta di Saddam Hussein. Qualche fiore e molte foto per ricordare i quasi duemila cadetti della scuola militare locale, catturati dagli uomini del Califfato, trucidati uno a uno con un proiettile alla nuca e gettati nel fiume Tigri in poche ore. Il massacro di Speicher, lo considerano una specie di 11 Settembre iracheno. Solo che non se n’è accorto nessuno.
«A volte ci sentiamo molto sol i» ammette Waheed, «ogni volta che qualcosa di temibile accade in Occidente, il mondo intero si mobilita. Anche noi soffriamo per i fratelli morti in Francia, ma qui viviamo la stessa identica situazione, contro lo stesso malvagio nemico. Eppure passiamo inosservati».
Qualificarsi a un’Olimpiade per la boxe richiede di raggiungere almeno le semifinali al Campionato Mondiale, e per accedervi bisogna vincere almeno tre match a livello continentale. Waheed si è guadagnato il diritto al mondiale di Doha, dopo aver vinto il bronzo ai Giochi Asiatici. Ma quando inizia il torneo è fine inverno 2015, l’esercito ha lanciato la controffensiva e il permesso per partecipare non arriva. Gli resterà un’ultima chance, in Azerbaigian, giugno 2016, torneo pre-olimpico con tre posti disponibili e cinquanta tra i migliori pesi medi in circolazione a contenderseli.
Quando a Waheed arriva l’ok per la trasferta, Bagdad è un luogo molto diverso rispetto a 24 mesi prima. Non c’è più quel clima asfissiante da minaccia imminente, il giovedì sera la gente si riversa per strada quasi in segno di sfida, i ristoranti sono sempre pieni, la vita sorpassa con prepotenza le incertezze causate dai continui attentati. Sta nascendo una mobilitazione dal basso, di gente che contesta il Governo corrotto, ne chiede la rimozione.
Quando Jafaar ci scrive un sms per avvisarci di una bomba esplosa ad Al-Sadr City, sobborgo sciita della capitale epicentro degli attacchi, accorriamo. I morti sono più di cento. E qui scopriamo che ormai la polizia non va neppure più sul luogo per fare i rilievi, la gente inferocita scaglia pietre contro le auto dell’esercito o tutto ciò che rappresenta il potere. Partita l’ultima ambulanza, divampa la frenesia di pulire tutto il sangue, di ripartire subito. È rabbia ma è anche energia vitale. Da quasi un anno ogni venerdì le associazioni per i diritti delle minoranze manifestano per le strade di Bagdad al grido di «khubz, hurriyah, dawla medeniyah», pane, libertà e cittadinanza. È un Paese incapace di rassegnarsi, pervaso dal desiderio di tornare alla propria identità.
A Baku, dentro a una spartana stanza di albergo a poche ore dal match che cambierà la sua vita, Waheed mi spiega che la religione è la chiave di tutto. «Chi conosce sul serio i musulmani sa che il nostro credo affonda le sue radici nel rispetto degli altri, nell’amore e nella tolleranza. Uccidere in nome della religione è una distorsione di cui noi, i musulmani, siamo i primi a soffrire. Se riusciamo a diffondere questo messaggio, abbiamo una possibilità di salvezza. Altrimenti siamo condannati a combattere per tutta la vita».
Prima di salire sul ring Waheed Abdulridha bacia sulla fronte il giovane Jafaar in lacrime, appena sconfitto da un ucraino troppo scaltro per le sue ambizioni. Waheed invece è atteso da un dominicano esperto che punta alla vittoria finale. Per arrivare fino a qui il soldato Abdulridha ha eliminato un argentino, un tedesco che aveva a disposizione due fisioterapisti, un allenatore e un nutrizionista, e uno svedese di origini mediorientali. Nessuno di noi glielo dirà mai, ma abbiamo dovuto cambiare per due volte la prenotazione del volo. Che sia arrivato così lontano è una specie di shock.
Nessuno poteva prevedere quello che Waheed ha espresso tra le corde del ring di Baku, perché è qualcosa di sovrannaturale che ha poco a che fare con l’allenamento (esiguo) o la tecnica. Al secondo round ha messo giù l’avversario con un colpo secco, non bello ma risolutorio. Poche ore più tardi l’esercito iracheno annunciava la liberazione di Falluja dall’occupazione dell’Is. Waheed ha pianto. Noi ancora non capiamo come ci sia riuscito.
Poi, per capire almeno in parte, ci è bastato tornare a Bagdad a respirare il fetore irriproducibile che la morte spande tutto attorno, dopo lo scoppio abominevole di un’auto bomba. È un odore netto, impatta sui sensi scatenando enzimi che non sospettavi di avere. Qualcuno potrebbe definirlo spirito di sopravvivenza.
Waheed andrà a Rio e farà parlare del suo Paese, comunque vada. Dicono che dunque potrebbe essere un bel documentario perché ora possiede persino il lieto fine. Se di lieto fine si può parlare.
Riccardo Romani