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 2016  agosto 05 Venerdì calendario

IL GARZONE CHE FECE DELL’OPERA UN BENE DA ESPORTAZIONE

«Media statura, costituzione erculea, petto largo, spalle squadrate, polso di ferro». così lo scrittore francese Alexandre Dumas père descriveva il leggendario impresario teatrale Domenico Barbaja: una testa abbastanza comune; tratti poco regolari, ma occhi che «sprizzavano spirito, intelligenza, malizia».
Figlio di braccianti dell’agro milanese, partito garzone del Caffè dei Virtuosi in piazza Scala, divenne il Napoleone degli impresari ottocenteschi. La sua storia l’ha raccontata un banchiere-cacciatore di teste a Hong Kong e studioso appassionato di canto («strada che poi ha saggiamente abbandonato»), Philip Eisenbeiss.
Domenico Barbaja. Il padrino del belcanto (EDT, pp. 317, euro 26) narra l’intelligenza di un uomo privo di istruzione e semianalfabeta – «le lettere di suo pugno sono zeppe di strafalcioni», «il testo è costellato di “coglioni“, usato indifferentemente come nome, verbo o esclamazione. I suoi appellativi preferiti sono “assassino“, “mariolo“, “ladro“, anche se vengono usati con una prodigalità tale da renderli espressioni d’affetto». Un garzone che inventa una mistura di cioccolata, caffè e panna, la «barbagliata», che a Milano fa furore e capisce che i danee (il denaro in milanese, l’unica lingua che maneggia bene) girano nei ridotti dei teatri, dove anche i francesi, per far cassa, hanno dovuto reintrodurre il gioco d’azzardo. Domenico lascia il caffè e diventa abilissimo croupier, già nel 1811 aveva accumulato una fortuna con la novità del giorno, la roulette. In pochi anni capì che «l’unica capitale d’Italia era Napoli» (Stendhal). Nella terza metropoli più popolosa d’Europa, la passione per il gioco era oggetto di stupore e ironia fra i viaggiatori.
Calato al tempo di Giuseppe Bonaparte re di Napoli (dal 1806 al 1808), Barbaja ottenne la licenza per gestire una sala da gioco sopra il Caffè della Meridionale, nei pressi del Teatro di San Carlo, di cui diverrà dal 1809 impresario, gestendo anche l’altro teatro reale, il Fondo. Non era cosa semplice: ci voleva una somma enorme per ottenere la licenza (100 mila ducati); e poi il governo fissava tutto: numero delle opere nuove e dei balletti, rappresentazioni minime, perfino gli organici dell’orchestra. Barbaja ampliò subito il ridotto del San Carlo trasformandolo in un moderno casinò, cui annesse ristorante e gelateria, disponendo del Fondo come sala per spettacoli di arte varia che andavano «dall’esibizione di un grande virtuoso come Paganini o di un bimbo prodigio, fino ai fenomeni da baraccone come uomini-scimmia, vetriloqui, ginnasti, prestigiatori, maghi o geni della matematica».
Così assurse a uomo più solido della città, capace di ricostruire il San Carlo bruciato in pochi mesi, di finanziare la costruzione della Basilica di San Francesco da Paola, di erigere un palazzo di città, in via Toledo, e due stupende ville a Ischia e a Mergellina (con l’acqua corrente e appartamenti pronti a essere affittati), colmandole di tesori di pittura e scultura (possedeva tele di Caravaggio e Tiziano, Aniello Falcone e Vanvitelli) consigliate dall’amico architetto Antonio Niccolini.
Barbaja rimase in sella durante e dopo le guerre napoleoniche: rinnovò la licenza con Gioacchino Murat, e si consolidò con il ritorno del monarca borbone, Ferdinando I, con il quale si intendeva a meraviglia nonostante parlassero dialetti diversi. Pur non conoscendo la musica, Barbaja aveva una dote fondamentale, l’intuito. Si liberò del nume locale, Paisiello, e portò a Napoli il compositore del futuro, Gioachino Rossini, legandolo al San Carlo non solo per due opere nuove all’anno, ma come socio (percepiva quasi il 21 per cento degli introiti), direttore musicale e saltuariamente incaricato amministrativo («se avesse potuto mi avrebbe affidato anche la cucina», ironizzava il gran gourmand Rossini). Insieme al compositore, Barbaja mise a punto il «sistema» per formare la migliore compagnia stabile del mondo, vincolando con contratti lunghissimi i cantanti di cui aveva intuito le doti, spesso inquilini paganti a via’Ibledo.
Il suo lungo regno si estese da Napoli al Teatro di Porta Carinzia a Vienna (commissionò Euryanthe a Cari Maria von Weber e Fierrabras a Franz Schubert), passando per la Scala, coincidendo con l’età d’oro del belcanto, testimoniata dall’almanacco di Gotha dei suoi scritturati (che chiamava i «miei cani»): il primo Barbiere di Siviglia, Manuel Garcia, i favolosi tenori bergamaschi Rubini, Nozzari e Donzelli, l’asso francese Adolphe Nourrit, che, depresso, si suicidò tragicamente nel suo palazzo, il colossale basso franco-partenopeo Lablache, la sua amante e poi prima moglie di Rossini, Isabella Colbran, le divine Giuditta Pasta a Maria Malibran. Cantanti per i quali scrivevano su misura i maggiori operisti italiani del tempo, Giove Rossini e i suoi successori, Bellini e Donizetti – le tre corone del melodramma, tutti lanciati da Barbaja, il quale si serviva con altrettanta abilità anche della cosiddetta seconda fila: Francesco Saverio Mercadante e Giovanni Pacini. E il tutto avveniva fra guerre e sommosse, quarantene perii colera ed epidemie, assalti di briganti e continue dispute giudiziarie, cabale e insidie di concorrenti.
Quando una ventata moralista chiuse le case da gioco in teatro, Barbaja sfruttò il monopolio dei divi canori, diventando, attraverso una sapiente politica di prestiti e vincoli, l’arbitro d’Europa. Gli artisti che cercavano di liberarsi dal suo giogo finivano davanti al giudice o peggio.
Dumas descrive Barbaja come un sovrano assoluto, circondato da un esercito di spie, commissari, cavalieri, sbirri e gendarmi, «per mandare immediatamente in prigione i cantanti che si permettessero di far capricci e il pubblico che osasse fischiare senza ragione». Solo il re Borbone poteva contestare. In questo caso, Barbaja, abituato ad apostrofare i dissenzienti con epiteti roboanti, usciva dal suo palco bonfonchiando. Quanto ai rari vincitori di dispute giudiziarie, li attendeva la terra bruciata o la fine della carriera.
«Domenico Barbaja l’ha dunque regna to in modo completo e assoluto nello spa zio di quarant’anni» e, cosa rara, morì senza debiti (pagò il declino con la quadre ria), lasciando opere imperiture e di carità. Nell’Italia mosaico di staterelli trasformo una passione nazionale (l’opera) in bene da esportazione. Oggi, dopo la cacciata degli impresari dai «templi», dopo decenni in cui i reggitori dei teatri si sono definiti «operatori culturali», forse sarebbe salutare un ritorno solo all’intuito vero e alle capacità organizzative. In breve: essere Barbaja e non un segnalato dal politico-potente o dal burocrate di turno. Di costoro si vedono i risultati.