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 2016  agosto 05 Venerdì calendario

TAVECCHIO CITY, DOVE È INIZIATA L’AVVENTURA DEL SIGNOR FIGC

Chiamarli cortigiani non sarebbe giusto. Anche perché hanno tutti capelli bianchi, rotondità incipienti e l’unica ambizione di riflettere la luce del capo. Sono i pretoriani di Carlo Tavecchio, presidente del calcio italiano che un paio di uscite micidiali sembravano aver azzoppato prima che entrasse in carica, e il filotto di vittorie agli Europei ha appena riabilitato agli occhi di una nazione di tifosi. Vecchio saggio o gaffeur di successo? Per farci un’idea dell’ultimo Talleyrand del pallone siamo andati alla fonte. Non semplicemente a Ponte Lambro, il paesino comasco dove il nostro è stato sindaco democristiano dal 1976 al 1995, ma direttamente a Tavecchiolandia: «Qui è iniziato tutto» fa Federico Laiso, attuale presidente dell’Associazione sportiva Pontelambrese che Tavecchio fondò nel lontano 1974. Era una piccola società di un piccolo paese. E tale è rimasta. Un comunicato ufficiale recita che sotto la presidenza Tavecchio «arrivò a disputare anche il campionato di Prima Categoria». E non si è mai mossa di lì. Nel prefabbricato a bordo campo che funge da sede sociale c’è una tavola rotonda attorno alla quale prendiamo posto in tanti. Artù è assente, ma i suoi cavalieri si accapigliano per narrarne le gesta: «Taci tu che non c’eri!». «Come non c’ero, siamo praticamente fratelli!». «Vuol dire che di fratelli ne ha parecchi!». In un’ora di chiacchiere, Tavecchio si trasfigura in un’icona di mitica bontà, straordinaria sagacia, infinita energia: «Ti ricordi quando inaugurò la casa di riposo?». «Se me lo ricordo? Ci ho scritto anche una poesia!». Pensiamo a una boutade, ma incredibilmente Sandro Rusconi, già assessore al Bilancio dell’ultima giunta Tavecchio, si mette a recitare un’infilata di versi in stretto dialetto comasco: «E i vecchietti contenti / già ricominciano a parlare», è la povera traduzione della chiusa. Non sappiamo se, prima di rimettere in piedi la Nazionale, Carlo Tavecchio abbia effettivamente restituito la parola agli anziani. Certo è che il suo trono romano ha le gambe piantate molto ma molto a fondo nella più semplice e imprevedibile provincia padana.
Siamo tra i due rami del lago di Como, a ridosso delle Prealpi, in un paesino di 4.300 abitanti che alterna case basse, siepi avvolgenti, rondò con lo sponsor e paurosi vuoti frutto di deindustrializzazione incalzante. A Ponte Lambro i Tavecchio sono presenti anche sulle lapidi della Prima guerra mondiale, e quello che passa per un vetusto presidente federale qui nasce e cresce da enfant prodige multitasking: a trent’anni è già sindaco, direttore di banca, leader della locale Polisportiva. Che siano soldi, delibere o ingaggi ha già accanto il suo drappello di fedelissimi: «Sono stato il suo primo allenatore» dice il ruspante Alessandro Ardemagni, lasciando intendere che Antonio Conte e Giampiero Ventura in fondo non sono che gli ultimi della serie. Accenniamo all’incredibile gaffe di Tavecchio sui giovani neri che si ritroverebbero in serie A dopo una vita a mangiar banane al villaggio. Dal fuoco di sbarramento prende forma l’epopea africana del presidente: «Per anni ho accompagnato Carlo e la moglie in Togo» dice il fido Rusconi. «Ogni gennaio partivamo per portare medicine, penne e quaderni comprati con le collette dei pontelambresi». Siamo nel 1985, la Lega è lontana, Lampedusa ancora un’isola tra le tante: «Chi parla di razzismo dovrebbe sciacquarsi la bocca: noi in Africa andavamo quando chi oggi lo accusa non sapeva nemmeno dove trovarla sulla carta». Ma al di là della polemica, ai pretoriani interessano i dettagli dell’epica: il sindaco Tavecchio che scambia visite di cortesia con il capo villaggio Adoulomé IV, il presidente Tavecchio che «se vede un bimbo di colore vicino al campo da gioco, ci obbliga a metterlo in squadra». Detto, fatto: «Quasi il 40 per cento dei nostri ragazzi è di origine africana». Siamo sicuri? «Diciamo di origine straniera...». Inezie. Per la tavola rotonda quel che conta è la proverbiale bontà dello stupor mundi locale: «Quando vado in giro con lui» assicura l’autista e braccio destro Federico Laiso «devo fermarmi a ogni semaforo per dare qualcosa ai lavavetri».
Carlo Tavecchio è stato sindaco in anni di vacche grasse e politica a tutto tondo: «Avrebbe potuto fare il ministro, ma ha scelto il calcio» assicurano i fedelissimi. L’entusiasmo è tale che, quando passiamo dalla Polisportiva al palazzo comunale, di fronte alla foto canonica del presidente Mattarella ci scappa un: «Come mai non Tavecchio?». L’attuale primo cittadino Ettore Pelucchi, già assessore ragazzino proprio con Tavecchio, se la ride con una punta di fastidio: «Guardi che non è il nostro Mastella! Carlo ha fatto tante cose, ma noi siamo gente che non ha bisogno di nessuno». Ma che sindaco è stato? «Onnipresente». Dopo la mitica bontà, l’infinita energia: «Lo ricordo sul furgone a trasportare le porte del campo di calcio» dice Gianmarco Broggio, vicesindaco e già miglior stopper della sua generazione. «Almeno una notte a settimana salivamo a controllare gli invasi dell’acquedotto» assicura l’assessore-poeta Rusconi. «Controllava che noi ragazzini non calpestassimo l’erba di villa Guaita» aggiunge il sindaco Pelucchi. Non si governa un paesino per vent’anni senza lasciare una lunga scia di ricordi: «L’ultima volta che l’hanno eletto, nel ’90, il partito aveva dato ordine di far sparire lo scudo crociato e mimetizzarsi con qualche lista civica» ricordano gli ex assessori. «Carlo non ne volle sapere, e stravinse lasciando a bocca aperta i comunisti che gli avevano già chiesto l’autorizzazione per i festeggiamenti in piazza». Prima puntavano a papa Giovanni, ora virano verso il cavallo di razza: «È il nostro Andreotti, ha sempre avuto la vista lunga». C’è da chiedersi perché allora la sua ascesa ai vertici del pallone sia stata accompagnata da tanta incredulità e irritazione. A domanda, la tavola rotonda risponderebbe all’unisono, ma a Laiso-Lancillotto basta un sibilo per rintuzzare lo sfogo: «Guai a chi parla male dei torinesi!». Tocca accontentarsi dei soliti, anodini poteri forti: «Non accettano il presidente ragioniere», «È figlio di operai, dà fastidio!», «Per lor signori è come far papa un prete di Valmadrera». E invece, contro gli Agnelli e nonostante se stesso, Carlo Tavecchio da Ponte Lambro ce l’ha fatta: «Quando lo elessero alla testa dei dilettanti glielo dissi: fra dieci anni sei presidente della Figc» precisa il fido Ardemagni. Intanto fuori si fa sera. Si svuotano i campi dell’oratorio, cominciano a riempirsi gli spalti del bocciodromo. Ho chiesto ai pretoriani se in paese c’è chi non lo sopporta. Mi rispondono: «Solo gli juventini!». Sarà un caso ma su via Volta ne incontro un paio, con una gran voglia di sciorinare tutte le magagne politiche, imprenditoriali e giudiziarie di quest’uomo dall’ambizione tanto più grande del paesino che non ha mai abbandonato. Carlo Tavecchio diventa presidente del calcio dilettanti quando Joseph Blatter prende il comando della Fifa: in tre lustri entrambi hanno moltiplicato tesserati, fatturati, e polemiche. Poi Blatter è caduto in disgrazia, mentre delle ombre di Tavecchio si tornerà a parlare alla scadenza elettorale del prossimo dicembre. Sarà il clima estivo e le vittorie della nazionale, ma alla cronaca delle strategie pallonaro e dei conflitti d’interesse per ora preferiamo la leggenda di quando Tavecchio in Togo ricevette lo scettro di ebano e avorio dal gran capo di tutti i villaggi: «Praticamente l’avevano fatto re».Trent’anni prima della Figc.