Francesco Battistini, Sette 5/8/2016, 5 agosto 2016
CHRISTIAN, GIULIO, FRA’, PAPIN, IN SERVIZIO 24 ORE SU 24: ECCO LA SQUADRA OMICIDI CHE OGNI GIORNO DIMOSTRA COME IL DELITTO NON SIA MAI PERFETTO
CHRISTIAN, GIULIO, FRA’, PAPIN, IN SERVIZIO 24 ORE SU 24: ECCO LA SQUADRA OMICIDI CHE OGNI GIORNO DIMOSTRA COME IL DELITTO NON SIA MAI PERFETTO –
Bassa Padana, una sera d’inverno. «Obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire: Padre Nostro, che sei nei cieli...». Bang! Bang! Tutti nella chiesa sentono gli spari. Solo quelli. Due colpi, sul finale della messa delle sei. Il prete interrompe la celebrazione. I fedeli corrono fuori. Sul marciapiede, nella strada buia, c’è un cadavere. Qualcuno chiami il 112… «Quando arriviamo, i testimoni sono già stati sentiti dai colleghi della stazione locale: nessuno ha visto, la dinamica è confusa». Sulle prime, s’oscilla tra l’omicidio e il suicidio. Ma qualcosa non torna: la pistola appartiene alla vittima e ad ammazzare è stato un colpo soltanto. Chi ha sparato l’altro? Come ha fatto il suicida a ferirsi e poi a tirarsi il secondo bang? C’è un automobilista che dà una versione. Chi era in chiesa, ne ha un’altra. Si parla pure d’un assassino scappato tra la gente che prega. I ragazzi della Seconda Sezione ascoltano, comparano, escludono. E si scervellano sulla Time Line, quella lunga linea disegnata su una lavagna magnetica che tengono in ufficio, «l’abbiamo copiata quando siamo stati alla Squadra Omicidi del Bronx», pennarelli colorati e post-it per frammentare le ore, sezionare i minuti, fissare gli attimi, avere una sequenza logica. Niente basta, però: «Alla fine, è chiaro, dobbiamo riascoltare tutti. Uno per uno».
Un lavoro di pazienza: si rintracciano le donnine della messa, si chiede a ciascuna di ricordare chi fosse seduto dietro di lei, chi è entrato e uscito, poi si rifà la stessa domanda a chi stava nella panca dietro, e in quella dietro ancora… «Piano piano, cominciamo a chiarire qualcosa. Ma ci restano ancora i dubbi». Soprattutto, un maledetto buco temporale: i fedeli hanno sentito l’altro sparo appena cominciato il Padre Nostro, d’accordo, ma dopo quanto esattamente? Un secondo? Dieci? Venti? Avere quel dettaglio, è fondamentale. E per capirlo, non c’è che una soluzione: portare le donnine in caserma. E allestire una specie di messa, nella penombra della sala interrogatori. E proprio come quella sera farle inginocchiare tutte quante, a recitare il Pater Noster. Stessa giaculatoria, stesso ritmo. «Fu una scena surreale. Entrò nella saletta il comandante e ci vide così: quelle pie signore a mani giunte, a pregare. E noi tutt’intorno a cronometrare…».
COME UN’OPERA D’ARTE. Perché questo corpo è qui? I ragazzi della Seconda Sezione Squadra Omicidi sanno che la prima domanda è sempre quella. «Siamo gente che deve leggere molto, e studiare di più». Su un foglio A4 si sono stampati un brano da Homicide, di David Simon. Lo tengono in ufficio, tra una riproduzione dei Sette Peccati Capitali di Bosch e una vecchia pubblicità della Molinari col faccione dell’ispettore Kojak. Lo sanno a memoria: «È il riassunto del nostro lavoro: guarda bene il cadavere e ammiralo come fosse un’opera astratta, un quadro. Osservalo da ogni possibile punto di vista, alla ricerca di ogni più piccolo dettaglio…». E poi chiediti: che ci fa qui questo corpo? Che cosa s’è portato via l’artista? E a che cosa pensava? Cos’ha aggiunto? Cosa diavolo c’è di sbagliato in questo quadro? Avvicinati al corpo e cerca di capirne la causa: overdose? Attacco di cuore? Ferita d’arma da fuoco? Da taglio? Gioielli? Portafoglio? Tasche rovesciate? Rigor mortis? Macchie ipostatiche? «Scova i bossoli, gli schizzi di sangue, le anomalie, i contrasti, i peli, le fibre. Chi conosceva la vittima, chi ci lavorava, chi gli affittava la casa, chi ci scopava, chi ci litigava, chi le vendeva droga». Lavora sodo. Senza soste. Riparti da zero se capisci che la pista è sbagliata. Torna sulla scena a cercare i particolari che ti possono essere sfuggiti, «e quando non hai nulla muoviti su quel che hai. Se tutto va per il verso giusto, alla fine, sai che finirai per arrestare qualcuno…».
La Seconda Sezione dei Carabinieri di via Moscova sa arrestare senza sbagliare. Negli ultimi otto anni, quaranta morti e trenta casi fra Milano e provincia: tutti risolti. Cento per cento, quando la media nazionale è del sessanta. La Squadra Omicidi dei record è un gruppo piccolo. Sbirri dai 33 ai 53 anni che nella caserma hanno licenza di fumare, stare senza divisa, muoversi un po’ come pare loro. E di farsi chiamare solo per nome o soprannome: Christian, Giulio, Fra’, Papin, Pasqualino, lo Smilzo, Speedy, Query, Ciccio… Scrivanie da reperibilità h24, vite private provate da ritmi che possono farsi infernali: «T’arriva la chiamata d’emergenza e ti butti nell’inchiesta senza sapere quando riemergerai. Dimenticando tutto per settimane. Una volta piombiamo di corsa su un omicidio ad Affori, lasciamo le nostre auto dove capita: quand’è il momento di recuperarle, giorni dopo, ce le troviamo coperte di multe per divieto di sosta…». Appesi alle pareti ci sono i crest e le facce dei latitanti, di fronte a una finestra un pezzo di fettuccia gialla «Crime Scene Don’t Cross» e l’avviso «se non hai una mentalità criminale, cambia mestiere», scritto a pennarello. «L’ufficio è il nostro pensatoio. Però noi risolviamo la maggior parte dei casi nella pausa caffè. È il momento in cui ci scambiamo le impressioni, escono le intuizioni. Perché tra noi non abbiamo una struttura gerarchica: solo orizzontale. Uno vale uno. Ognuno può avere l’idea. E ogni idea può funzionare per ognuno». Fra la stanza e il bancone del bar, ci s’imbatte in decine d’appunti sparsi, promemoria, punti interrogativi, in nero i casi chiusi e in rosso le indagini aperte: «Controllare le due versioni di Claudio e Martina», oppure «cell spento», «trovato cercapersone scarico», «incrociare orari work-disco-cena»… In un angolo del pensatoio, sotto la scritta “solved”, a guardare da un tabellone è la Spoon River di tutte le vittime vendicate, quaranta volti di belle signore o di vecchi stanchi, albanesi e cinesi, bambini e pregiudicati, distinte cravatte e rimmel da travesta, occhi perbene e smorfie permale. Un cartello che cataloga le macchie sanguigne da schizzo, da spalmatura e da sgocciolamento. E di fianco all’icona di Falcone&Borsellino, il poster ocra del più famoso giallo risolto in questa Milano criminale: la scomparsa di Lea Garofalo. La testimone di giustizia che uscì dai programmi di protezione dello Stato. Fino a essere rapita un pomeriggio di novembre all’Arco della Pace, strangolata in un solaio di piazza Prealpi, fatta a pezzi e bruciata in un capannone del Monzese. Colpevole solo d’aver voluto salvare sua figlia Denise da un destino di ‘ndrangheta. E d’aver fatto i nomi dei mafiosi, a cominciare dal marito: il mandante del suo assassinio.
UNA FRASE CHIAVE. Oggi Denise, che è scampata alla ferocia del padre, vive nascosta. Ed è diventata un’amica affezionata della Squadra di via Moscova: «Neanche noi sappiamo il suo nuovo nome. O dove sia. Ogni tanto ci scriviamo. È una ragazza in gamba. Durante le indagini, avevamo trovato il diario di sua mamma: l’abbiamo ripulito delle pagine più delicate, l’abbiamo fatto rilegare ed è diventato un album di ricordi. Per regalarlo a lei». Il caso Garofalo fu un’indagine unica: «Difficilissima. Perché la criminalità organizzata t’obbliga a lavorare su gente che si copre molto bene». Lea era sparita nel nulla e ce ne volle per trovarne i resti, capire che a perderla erano state proprio le sue testimonianze: «Il nostro lavoro fu dimostrare che non poteva essere andata da nessuna parte». Due anni d’intercettazioni, pedinamenti. «Stavamo addosso a tutto il clan. Ma sembrava un lavoro inutile: tra loro, i mafiosi non parlavano mai della Garofalo. Erano prudentissimi. Un giorno, la svolta: una frase apparentemente casuale. L’avevamo registrata all’inizio dell’indagine e non avevamo prestato molta attenzione. Sembrava insignificante. Fra mille conversazioni si sentiva un tale, Gaetano Crivaro, che chiamava il mafioso Carmine Venturino e gli diceva: “Ci vediamo che mi dai le chiavi?…”». Questo Crivaro era un calabrese di quelli che non parlano: «Lo convochiamo. Il testimone in genere è una figura particolare: non ti dice tutto e subito, lì per lì non ha visto mai niente, poi magari ammette qualcosa, ma non sa bene, alla fine si ricorda solo un particolare… Non basta ascoltarlo una volta sola, devi lavorartelo settimane». Crivaro è un osso duro. Ma fa qualche errore sui dettagli: «Ci sono testimoni che hanno la capacità di mettersi nei guai per delle sciocchezze, magari per nascondere le corna alla moglie. Cose che per noi sono d’interesse zero, ma che a loro preme nascondere. E allora ti danno versioni che poi devi smontare, rimontare. All’inizio, pensiamo sia uno così. Poi capiamo che sta mentendo bene». Come regolarsi? «In questi frangenti, devi stare attento: metterlo in condizioni di dire la balla e successivamente di correggerla. Devi lasciargli una via di fuga. È quel che abbiamo fatto con lui». Pian piano, saltò fuori che questo Crivaro aveva un magazzino fuori Monza. E nei giorni dopo la scomparsa di Lea, chi prima e chi dopo, i cellulari di molti mafiosi erano stranamente passati da lì. Una zona dove la cosca, di solito, non aveva affari: «Il magazzino era enorme. E non bastò una perquisizione a trovare i resti del cadavere. Ma come s’arrivò a processo, e fioccarono gli ergastoli, Venturino cominciò a collaborare. A indicare punti precisi. E da un tombino del magazzino spuntò una catenina: la catenina di Lea...».
Il delitto perfetto non esiste, dicono in via Moscova: «Esiste l’imperfezione dell’indagine. Non ci chiamano sul femminicidio o se le cose sono chiare: ci chiamano quando sono complicate. Si fa il possibile. E vince chi fa meno errori». A volte, la soluzione è davanti agli occhi: «A uno che lavorò nella Squadra prima di noi, Smash, in un periodo di scarso lavoro venne in mente di riaprire un cold case: l’omicidio d’uno della Milano bene, vent’anni fa. Fu sufficiente rileggere meglio le carte: nell’ultima telefonata, il tizio aveva chiesto alla colf di scongelare la carne perché avrebbe cenato a casa, ma a casa non era tornato perché un conoscente l’aveva invitato al ristorante. Al ristorante, però, i due non s’erano mai visti. E l’appuntamento era saltato prima che la vittima chiedesse di scongelare la carne… Chi poteva essere il colpevole, se non il conoscente? Era già tutto scritto».
L’OMINO CURIOSO. C’è una bella differenza tra un omicidio scoperto e un omicidio risolto. Dal primo al secondo, basta un nulla a perdersi. «Prova per prova, noi facciamo l’avvocato del diavolo. Smontiamo maniacalmente le nostre ricostruzioni. Spacchiamo il capello in quattro su ogni microtraccia. Altrimenti, al processo spaccano noi». Non c’è una ricetta. Quel che serve è il metodo: «Ogni anno, vengono qui i magistrati di prima nomina e ci confrontiamo. Abbiamo stilato una nostra lista di tutte le cose da fare, e soprattutto da non fare, quando s’arriva sul crimine. Si chiama Crime Scene Reconstruction, l’abbiamo imparata dagli americani: undici pagine d’orari, meteo, stato del corpo, indumenti, cibi, scassi, perquisizioni, targhe, foto, alterazioni della scena, chi ha toccato cosa, quel che manca o è fuori posto, interviste a vicini e a semplici ficcanaso, perfino la scelta del piantone da lasciare sul luogo… Non è vero che un omicidio lo risolvi nelle prime 48 ore: per l’uccisione di due albanesi ad Abbiategrasso, siamo stati distaccati quasi un anno a tempo pieno. Però è vero che nelle prime 48 ore rischi di rovinare le indagini per sempre. E devi lavorare bene su tutto: microspie, tabulati, testi. Devi scremare le prime ipotesi, che all’80 per cento si rivelano regolarmente false. Devi attivare “la balena”, il finto furgone della lavanderia per gli appostamenti. Devi staccare un uomo soltanto per scrivere la Cnr, la comunicazione della notizia di reato al magistrato, senza la quale non puoi fare le intercettazioni. Devi perfino ricordarti, che so, di bloccare qualche giorno la raccolta dei rifiuti: anche un cestino lontano chilometri può darti un elemento». Le telecamere di sorveglianza servono, ma fino a un certo punto: «Contrariamente a quel che si crede, le usiamo nel 10-15% dei casi. Succede spesso che siano finte, rotte, con l’obbiettivo sporco, con l’orologio sfasato, che registrino e poi cancellino, che riprendano male. O che non si possano utilizzare e poi a processo, due o tre anni dopo, devi ricordarti perché non potevi utilizzarle… Ogni tanto, certo, ti salvano: quelle d’un hotel di mignotte, grazie alla gestrice che conservava tutti i nastri, ci permisero d’evitare l’ergastolo a un poveraccio che continuava a dare versioni contraddittorie… ».
Molto meglio le tecniche empiriche, come quella dell’omino curioso: «L’abbiamo elaborata perché la gente, anche quando non ha niente da nascondere, sgama subito il carabiniere. Ed è sempre un po’ diffidente: se fai domande col taccuino in mano, nessuno parla mai con scioltezza. Come evitare questo filtro? Facendo scendere dall’auto, un isolato prima, uno dei nostri: il suo compito è arrivare sulla scena del delitto come un passante qualsiasi e chiedere che cos’è successo. Magari prendersi pure un cane e per qualche giorno passeggiare in zona, ascoltare. Spesso funziona: all’omino curioso, le persone dicono le cose senza problemi. Non hanno la sensazione d’essere interrogate». Anche il vecchio biglietto da visita aiuta: «Lasciarlo ai testimoni, sembra un’americanata da film. Invece no: se il tizio si ricorda una cosa due giorni dopo, deve avere subito l’interlocutore adatto. Altrimenti finisce che chiama i carabinieri a casaccio e non trova chi sappia di che cosa si sta parlando: un elemento importante rischia di perdersi. Sul delitto al Club 71, un sudamericano che prende un coltello da un chiosco per la porchetta e ammazza un albanese che gli aveva insidiato la fidanzata, i buttafuori tacevano. Ma come chiudemmo il locale, e il personale capì di rischiare il posto di lavoro, cominciarono a bersagliarci d’informazioni sul cellulare…». Un’altra innovazione è l’omino col registro: «È un carabiniere che si piazza all’ingresso della scena del crimine e consegna i calzari, annota chiunque entri ed esca, scrive chi cammina dove. Una banalità, ma prima non esisteva. È fondamentale fare due cerchi concentrici, evitare l’inquinamento delle prove. Sul triplice omicidio di Affori, settembre 2014, ci trovammo una scena enorme: i killer avevano inseguito le vittime, fu necessario bloccare interi quartieri, fronteggiare le proteste della gente. Innovazioni come queste, però, puoi introdurle se hai dei superiori che te le lasciano fare. Alla Seconda Sezione, ci hanno messo nelle condizioni ideali. Ad esempio, ascoltando il nostro parere se si tratta d’acquistare nuovi elementi o di rimpiazzare chi va via. Capendo che il nostro lavoro non si conclude nell’arresto, ma deve proseguire fino al processo. Certo, molti mezzi ce li dobbiamo procurare da noi. E non ci danno indennità per la reperibilità notturna, sette giorni su sette. E a volte ci paghiamo perfino gli hard disk. Ma non c’è altra scelta: è solo così che un omicidio scoperto diventa un omicidio risolto».
In via Moscova s’appoggiano a un loro laboratorio di dattiloscopia, della Settima sezione: «Nelle investigazioni paga la vecchia maniera. L’intervista al vicinato va fatta porta a porta, la signora spaventata va coccolata: non avremmo mai scoperto uno dei killer di Abbiategrasso, se una donna il giorno prima non avesse avuto problemi a posteggiare per colpa d’uno strano motorino Mbk Flipper, lasciato in una strada vicina a quella della sparatoria. Il latitante lo becchi col cherchez la femme o attaccandoti ai familiari. Il delitto lo risolvi con le tracce o con le testimonianze…». Spesso si gioca sull’istante e sulla meticolosità: non c’è tempo d’aspettare troppo i risultati dei Ris, «per tutte le persone che troviamo su un omicidio, abbiamo una sola regola: in Moscova, in Moscova… Il corridoio qui fuori diventa affollatissimo. La rapidità è essenziale quanto la tenacia. Il nostro motto potrebbe essere il vecchio detto napoletano dicette ’o pappecio a noce, damme ‘o tiempo ca te spertuso: dammi il tempo, disse il verme alla noce, che il buco te lo faccio… Nel caso Ceriani, un anziano gay ucciso da un ragazzo conosciuto in chat, la difesa puntava all’omicidio preterintenzionale: siamo riusciti a dimostrare il dolo e la crudeltà, scoprendo che l’asfissia della vittima non era stata provocata dal sangue, una volta colpita, ma c’era stato soffocamento. Anche nella storia d’un venditore di tappeti, ucciso dal suo garzone per una rapina, l’assassino gli aveva spaccato la testa. L’abbiamo beccato grazie a una minima impronta lasciata nella fuga. Se non l’avessimo rilevata subito, se fosse stata rovinata da qualcuno nella concitazione dei soccorsi, cosa che capita spesso, forse non avremmo mai risolto nulla».
CACCIATORI DI BUGIE. Se il loro lavoro fosse una fiction, sarebbe The Closer. Fosse un libro, sarebbe Paul Ekman, lo psicologo delle espressioni facciali: cinesica, semiotica, prossemica. «Anche un altro telefilm, Lie to Me, somiglia abbastanza a quel che facciamo». Sono diventati ottimi Lie Catcher, cacciatori di bugie: tecnica dell’intervista, elementi paraverbali. «Quando siamo tranquilli, ci aggiorniamo studiando ore d’interrogatori registrati. L’omicida ha una posta troppo alta, sta molto attento ed è raro si tradisca col linguaggio del corpo. Ma il testimone, no: dobbiamo valutarne la postura, il suo antagonismo verso l’interlocutore, gli elementi emotivi che inquinano la deposizione. C’è la necessità di mettere a suo agio chi stai torchiando, ridurre a zero il suo stress, dirgli che lo capisci, che certe cose le avresti fatte anche tu. Le ore snervanti in sala d’attesa, le urla, i vecchi sistemi bruschi ormai sono considerati una tecnica sbagliata. Solo nel caso caso Mannisi, un pregiudicato ammazzato nella sua macchina a Lambrate, non abbiamo fatto troppe cerimonie. C’erano le telecamere che avevano individuato un’Audi grigia transitare all’ora del delitto. Apparteneva a un albanese, un bestione armato, che non riuscivamo ad acchiappare. Un giorno scopriamo un annuncio: l’Audi è in vendita. Giulio risponde e fissa l’appuntamento a un autogrill. Il bestione si presenta e non s’aspetta niente. Nel bel mezzo della trattativa sulla macchina, però, esce il Settimo Cavalleggeri con tutte le armi che servono…».
All’ingresso della Seconda Sezione c’è una saletta con una luce rossa sullo stipite, attenzione interrogatorio in corso: l’hanno voluta proprio così, spoglia e asettica, isolata dal mondo, per evitare l’effetto Keyser Söze (ricordate I soliti sospetti e Kevin Spacey che fregava i poliziotti, improvvisando falsi dettagli da una bacheca alle spalle di chi lo interrogava?) e perché «lì dentro ti giochi tantissimo: per rovinare una deposizione basta il collega che entra al momento sbagliato, la telefonata fuori tempo, una distrazione qualunque. I fattori emotivi, se non controllati, possono anche spingerti a puntare su un innocente. Il nostro scopo è ridurre a zero lo stress dell’interrogato. Se lo porti a zero, lui parla». Un piccolo capolavoro è stato il caso Lissi: un tranquillo informatico che non sapeva come uscire da un’infedeltà coniugale e una sera del 2014, rientrato nella sua villetta di Motta Visconti, massacrò la moglie e i due figlioletti, per poi andare con gli amici a guardare in tv la partita dell’Italia. «Che sia stato lui, lo intuiamo subito: la rapina nella villa è artefatta, i cassetti sono stati aperti ad hoc, Lissi dice d’avere acceso una certa luce di casa, ma su quell’interruttore le sue impronte non ci sono… Lo troviamo seduto nell’ambulanza a farsi confortare. Chi di noi ha figli, s’è sentito male a vedere lo scempio fatto su quei bambini. Lui invece è troppo tranquillo. E poi le regole della menzogna sono universali: parli troppo o troppo poco, fissi troppo chi t’interroga o non lo fissi affatto, la tua storia ha troppe falle o è troppo perfetta, gesticoli molto o proprio non gesticoli, sei troppo collaborativo o non collabori in nulla… Per dire: il figlio del venditore di tappeti aveva l’atteggiamento giusto, dopo due ore d’interrogatorio ci mandò a quel paese per tutte quelle domande e ci fu chiaro che non era lui l’assassino. Lissi invece parla di continuo, si muove, è attentissimo a non turbare il nostro lavoro. Ha fatto tutto con scrupolo: il rischio per noi è di precipitare in un altro caso Garlasco, col sospettato difficile da incastrare. Lo ascoltiamo ore, lui non s’innervosisce mai, a una certa ora chiede perfino una pizza. Però una cosa ci colpisce: i suoi abiti puliti. Gli chiediamo di spogliarsi. E lui, invece di dirci “m’hanno sterminato la famiglia, andate a prendere l’assassino e piantatela di tormentarmi!”, no, lui si spoglia. Sulle mutande, ha una macchiolina di sangue: come mai? “Mi sono cambiato, dopo aver abbracciato i corpi disperato…”. Va bene, ci sta. Ma noi le macchie le sappiamo riconoscere. E quella è da schizzo, non da strofinamento…». Lissi crolla dopo 24 ore: «All’improvviso, si volta. Prende la bottiglia d’acqua. Beve un lungo sorso. Si rigira verso l’investigatore. Gli stringe le mani. E con una frase da brivido comincia a confessare: vi prego, voglio il massimo della pena…».
LA SUOCERA INCAPRETTATA. Qual è il momento che frega l’omicida? Dipende. I sudamericani e i cinesi sono i più spregiudicati: «Al privé Parenthesis, nel 2009, entrarono a colpi di machete e in tre minuti fecero sushi d’uno che cercavano». Gli zingari, i più furbi. Gli albanesi, quelli che se ne infischiano delle conseguenze. «Uno che se l’era studiata bene era un albanese del caso Mannisi. Sapeva d’essere intercettato al cellulare e ci stava attento. Ma non sapeva che noi l’ascoltavamo anche se non era in linea. Un giorno gli scappa una frase a telefono spento, “quello non voleva saperne niente di me”, e ci dà il movente su cui lavorare». Spesso, il criminale improvvisato può sconvolgere per la sua imprevedibilità: «Uno come Kabobo, il picconatore dei passanti, uno che nessuno conosce e non lascia né Dna né impronte, lo becchi solo in flagranza». O per la sua leggerezza: «Non ho dormito tutta la notte…», ridacchia allo smartphone il giovane Archinito che ad Abbiategrasso s’è appena vendicato d’un furto, ammazzando a fucilate con la freddezza d’un consumato boss. «Danie’, sei pentita?», chiede Gianni D’Agostino alla compagna Daniela Albano, nell’auto piena di microspie, dopo aver gettato la suocera in un sacco dell’immondizia di Cesano Boscone; no, risponde lei, però non ti nego che sono preoccupata, non possiamo andare in galera per mia mamma…«Per rubarle 30 mila euro, avevano lasciato quella povera pensionata una notte sul balcone, incaprettata con le ginocchia piegate, irrigidita dal freddo e in una posizione così anomala che all’inizio ci aveva fatto pensare a qualcosa di diverso. Li fregammo con un trucchetto facile: parlare d’una telecamera che aveva ripreso un suv. Loro persero subito la testa, andarono in garage e spaccarono un faro del loro suv, pensando che bastasse a depistarci. Più li intercettavamo, più raccoglievamo prove. Dicevano cose pazzesche. A un certo punto, D’Agostino si vantò pure d’essere “il killer dei misteri”. E questo ci spinse a indagare anche su un’altra strana morte nel palazzo…».
Di psicopatici, è piena la memoria: «Un omicidio assurdo fu quello di Mauro Curreri, il regista della Barona. L’assassino era un ufficiale di complemento dell’Esercito che s’era sentito offeso e truffato per un film, mai distribuito, sugl’italiani uccisi in Bosnia: si mise la divisa da maggiore, partì da Padova con una 7,65 e seccò Curreri nel suo studio. Quando lo portammo in caserma, ancora vestito da militare, passò davanti alla targhetta della Squadra Omicidi, sospirò orgoglioso e batté i tacchi: “Squadra Omicidi? Sono nel posto giusto!”…».
IL PEDINATORE PEDINATO. Il criminale professionista è una cosa più complicata. Richiede attenzione massima: «Ce ne sono che fiutano l’aria, capiscono se li controlli. I terroristi, per esempio: sono militari e se devono stare immobili da qualche parte, ci stanno giorni. Prendono perfino le pasticche per evitare d’andare al cesso a pisciare». Un trafficante di droga, sospettato d’avere regolato con un colpo alla nuca i conti per un carico non pagato, si nascose quasi due anni in una casa popolare dell’Aler toccando tutto coi guanti, attento a non lasciare tracce: non appena s’accorse della telecamera piazzata dalla Squadra sul pianerottolo, sistemò con cura lo zerbino rosso, coprì l’obbiettivo col nastro adesivo e sparì in un attimo. «Un bel criminalone: entrammo nell’appartamento e trovammo le sue impronte solo sullo sciacquone. Anche pedinarlo fu un problema. Una volta, lo seguimmo col dispositivo doppio: Fra’ su un’auto e Pasqualino su un’altra. Di colpo, a una rotonda, lui se ne accorse e con una manovra si mise dietro a Fra’, trasformandosi da pedinato in pedinatore. Per mezz’ora sudammo freddo: e se gli spara? Per evitare il peggio, il nostro uomo dovette infilarsi in un posteggio della Decathlon e mischiarsi ai clienti».
Facile che s’invertano i ruoli, nella recita delle guardie e dei ladri: in via Oldofredi, non fu facile spiegare perché un peruviano fosse stato accoltellato mentre scappava da un appartamento con le borse griffate appena rubate. Era successo che da rapinatore fosse diventato rapinato, e ad aspettarlo fuori ci fosse una banda d’egiziani d’accordo col suo complice, pronta a soffiargli il bottino. «Anche questa, tutta gente pronta a fregarti in un attimo. Quando individuiamo uno dei killer, andiamo a casa sua a Sesto San Giovanni. Abita a un quinto piano. Un collega romano fa lo spavaldo: “Da lassù, le possibilità di fuga sono praticamente irrisorie”... Ci apre la moglie e ci dice che il marito non c’è: improbabile, visto che su un tavolo ci sono il cellulare e le chiavi dell’auto. Però guardiamo dappertutto e l’egiziano non si trova. Finché dalla finestra non s’intravvede una sagoma: quel pazzo s’è rifugiato sul cornicione, dieci centimetri di spessore. Abbiamo imparato la lezione: le possibilità di fuga non sono mai irrisorie».
Ai vivi si deve rispetto, ai morti soltanto la verità: la frase di Voltaire è un bel motto incorniciato in via Moscova. I ragazzi della Squadra Omicidi ci passano davanti tutte le mattine, sapendo che le verità dei vivi non sempre rispettano l’urgenza dei morti. «Per noi non ci sono cadaveri più eccellenti di altri. Che sia il balordo sparato o il gioielliere di Brera, il nobile o il pezzente, un’indagine è come ‘A Livella di Totò: non fa differenze». L’anno scorso, quando Claudio Giardiello entrò nel tribunale di Milano e fece tre vittime, la Squadra si mosse subito. In pochi minuti, tutto il teatro del crimine era fettucciato. E l’omino col registro dava i calzari, vietava l’accesso ai curiosi, sterilizzava la scena. In un ufficio, il giudice assassinato era ancora riverso sulla scrivania e i carabinieri facevano i riscontri, raccoglievano tracce, cercavano impronte. Poi si sentì un «fate largo!». Tutti si girarono. E non ci fu America che tenesse. E studio della cinesica. E tecnica dell’interrogatorio. Arrivò un importante politico con la sua scorta. Nel sangue e fra i bossoli, si mise a camminare come se niente fosse. Ci sarebbe voluto Totò, a spiegargli come si stava lavorando lì dentro: «Sti ppagliacciate ‘ffanno sulo ’e vive / nuje simmo serie… appartenimmo a morte!».
Francesco Battistini , Sette 5/8/2016