Fabrizio d’Esposito, il Fatto Quotidiano 4/8/2016, 4 agosto 2016
COSÌ FU CHE ELIO VITTORINI LASCIÒ SOLI TOGLIATTI E IL PCI
Nell’estate del 1951, il mensile Rinascita ha la classica numerazione doppia, tipica del periodo: “N. 8-9 Agosto-Settembre 1951”. La rivista è diretta dal maggiore intellettuale del Pci: il compagno segretario generale Palmiro Togliatti. Intellettuale nel senso pieno dell’elaborazione di Antonio Gramsci: “Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un’affermazione che si può prestare allo scherzo e alla caricatura: pure, se si riflette, niente di più esatto”. Togliatti è un intellettuale “dirigente”, diverso da quello “organico”, altra intuizione gramsciana: “Importa la funzione che è direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale”. Rinascita ha l’ambizione di custodire e coltivare l’ortodossia marxista nel binomio formato da politica e cultura. Nell’indice del numero doppio estivo il compagno segretario firma due articoli. Uno col suo nome, Palmiro Togliatti, sul revisionismo clericale. L’altro con lo pseudonimo da polemista dotato di uno sterminato bagaglio umanista e filosofico, Roderigo di Castiglia. Titolo: Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato. In napoletano, ghiuto significa andato via.
Roderigo-Togliatti parafrasa in senso sarcastico i versi di una canzone napoletana e li dedica allo scrittore Elio Vittorini, autore di Conversazione in Sicilia e Uomini e no. Sull’Unità, organo ufficiale del Pci, Lucio Lombardo Radice così presenta l’articolo: “Pensiamo che proprio per il corsivo di Roderigo l’attuale numero di Rinascita attrarrà lettori non abituali, soprattutto nel mondo della cultura. (…). Un’analisi politica e culturale, fatta da Roderigo di Castiglia, sul caso Vittorini è ricca di vivo interesse per ogni intellettuale italiano”. Scrive dunque il compagno segretario mascherato da Roderigo: “Ora dice (Vittorini, ndr) che non è più comunista, definitivamente. Ma insomma, quando lo è stato? La iscrizione al partito, dice, non l’ha mai voluta fare. Almeno ci spiegasse il perché. La gente comune, quando ritiene di esser comunista, s’iscrive. Non è un eroismo, non è un rito, e non è nemmeno un sacrificio. È l’adesione a una milizia politica e sociale. (…). Era venuto con noi, dice, perché credeva che fossimo liberali: invece siamo comunisti”.
Già fascista di sinistra, quindi fondatore nel 1945 della rivista Il Politecnico, edita da Einaudi poi finanziata dal Pci, Vittorini il 6 settembre 1951 ha scritto Le vie degli ex comunisti sulla terza pagina della Stampa di Torino, il quotidiano della Fiat e degli Agnelli. È questo l’articolo cui Togliatti risponde. Vittorini s’interroga sul modo di essere ex-comunista e individua due strade. La prima è quella praticata da chi ha creduto in modo assoluto in “un Dio terreno capace di svolgere tra gli uomini la stessa funzione unificatrice che aveva la fede nell’antico Dio Celeste”. Per questi comunisti il marxismo è stato un dogma e il Partito una Chiesa. Risultato: chi aveva aderito al comunismo in modo dottrinario da anti-liberale se ne distacca da liberale. La seconda strada, per Vittorini, è autobiografica: “Essi aderiscono al comunismo, voglio dire, unicamente sul piano della storia: valutandolo in base all’aspetto storico che Urss e partiti associati assumono mentre lottano contro il fascismo. (…). Perciò ogni loro delusione riguardo al comunismo non è una delusione che produca in loro un mutamento ideologico, ma una delusione che li riempie di amarezza storica. Essi non pensano: ‘Il comunismo non è quello che credevamo’. Pensano invece: ‘Il comunismo non è diventato quello che la storia lo spingeva a diventare’”.
La polemica finale tra Vittorini e Togliatti è il sigillo a una contrapposizione nata un lustro prima, nel 1946. Il centro di tutto è il rapporto tra politica e cultura e quindi tra intellettuali e Pci. Il Politecnico di Vittorini è uscito alla fine di settembre del 1945 con questa linea: “Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura”. Pochi mesi più tardi, nel 1946, ci sono i primi diverbi politico-culturali con il Pci (prima Alicata, poi Togliatti su Rinascita) e Vittorini chiarisce la sua posizione in un lungo articolo del gennaio 1947 sul Politecnico.
Un testo che ancora oggi risplende d’attualità. Il nodo sono la libertà e la ricerca della verità. Lo scrittore spiega perché è comunista: “Aderii a una lotta e a degli uomini. Io seppi che cosa fosse il nostro Partito da come vidi che erano i comunisti. Erano i migliori tra tutti coloro che avessi mai conosciuto, e migliori anche nella vita di ogni giorno, i più onesti, i più seri, i più sensibili, i più decisi e nello stesso tempo i più allegri e i più vivi”. Premesso questo, Vittorini stronca il sistema “chiuso” del realismo marxista. Nel 1951, il prototipo dell’intellettuale comunista è “l’oscurantismo di Zdanov”, il potente capo della cultura stalinista nell’Unione Sovietica. In nome della ricerca e della libertà, lo scrittore sta dalla parte opposta: “Il diritto di parlare non deriva agli uomini dal fatto di possedere la verità. Deriva piuttosto dal fatto che si cerca la verità”. Ecco perché l’intellettuale non può finire “a suonare il piffero per la rivoluzione”, “per finalità di contingenza politica, attraverso argomenti o mezzi politici, e pressione politica, e intimidazione politica”. Il rischio è che la cultura diventi “ancella della politica”. Sessantacinque anni dopo, il nodo non solo non è stato sciolto, ma il conformismo che paventava Vittorini è diventato deserto, perlopiù.
Fabrizio d’Esposito, il Fatto Quotidiano 4/8/2016