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 2016  agosto 04 Giovedì calendario

SULLA MA– Per un ricercatore che si occupi di scienze del linguaggio ma mantenga un orientamento umano, la parolina «ma» si presenta sotto una luce interessante

SULLA MA– Per un ricercatore che si occupi di scienze del linguaggio ma mantenga un orientamento umano, la parolina «ma» si presenta sotto una luce interessante. Innanzitutto – e qui sarete senz’altro tutti d’accordo con me – la sua funzione è quella di introdurre per trastullo qualche difficoltà nel liscio svolgimento delle cose ed evocare la speranza, con le parole: «Vorrei davvero…», per poi dargli il colpo di grazia con del veleno candito. Infatti – e passerei con questo a un ambito più spirituale – la parola «ma» è il più riprovevole veicolo di una malsana obiettività, specialmente quando si tratta di giudicare le persone. Quante volte pure io ho risposto all’osservazione di un amico che di uno o di un altro diceva che in fondo non era che un affettato scribacchino: «Ma ha studiato filosofia con Georg Simmel», abbandonandomi così nelle braccia di un’obiettività, che complica inutilmente il mondo, rende la vita pesante, abbandona lo spirito ai dilemmi, sottrae ogni impulso all’azione, e che ha inoltre l’orribile effetto di metterci intorno sempre delle persone interessanti. Lo sapete bene, voi pochi veri maestri nell’arte di vivere, quanta voluttà ci sia nel dire chiaro e tondo in faccia a uno che è un asino o un cretino, senza sentirsi intimamente tenuto a chiamare in causa subito dopo la sua famosa abilità di pianista per smentire quanto si è appena detto; dire senza mezzi termini che uno è una linguaccia insopportabile, senza dover poi precisare che, in fondo, è un’anima timorosa e terribilmente insicura. Meglio non essere obiettivi! Mette il cuore in agitazione, rende vacillante e ambivalente il carattere, e inoltre, chi fa smodatamente ricorso all’obiettività, cade prima o poi in uno stato di profonda nevrosi, come se in lui l’emozione fosse stata repressa. Il popolo, il nostro benedetto popolo, l’obiettività non ce l’ha ed è sano come un pesce. Dispone di parole potenti di incisivo valore metaforico, di esortazioni energiche per le persone poco gradite, di giudizi apodittici, che già per loro stessa natura non possono essere seguiti in alcun modo da un «ma». Alla definizione «stupido come l’asino di un mugnaio», anche la persona più obiettiva non potrebbe far seguire l’attenuante che chi è stato definito in questo modo abbia invece una spiccata sensibilità anche per le più piccole nuance di stile. Scaturendo direttamente dall’indole della persona, simili osservazioni sono inafferrabili come gli assiomi matematici, dipendono da concetti a priori, refrattari a ogni spiegazione, a ogni confutazione, sono come montagne di ghiaccio. Come un grazioso inchino, come la posizione della punta del piede verso l’esterno quando si incede con passo leggiadro, anche l’uso dell’obiettività, così nociva alla salute, deriva dal mondo della vita cortese, che attraverso i secoli ha rappresentato un modello per la società civile. L’obiettività era la virtù dei monarchi, era l’amorevole capacità di comprensione del sovrano di fronte alle debolezze e ai punti di forza dei suoi sottoposti, era l’inizio, la cellula originaria di una forma democratica di governo, che anche alla minoranza consentiva di esprimere una parola acuta, e che raggiunse poi il suo periodo aureo verso la fine del XIX secolo con la formula «da un lato… dall’altro…» e «ma è pur sempre…!». Sembra, ma naturalmente è solo un’illusione, che seguendo la tendenza del tempo, che alla cosiddetta democrazia oppone sempre con decisione il principio della dittatura, anche riguardo al punto dell’obiettività personale, stia intervenendo un cambiamento. Insomma che finalmente la si faccia finita con quel querulo tentennare nell’esprimere un giudizio sull’uno o sull’altro, che finalmente si attribuisca a cuor leggero, risolutamente ed energicamente, una validità assoluta alla dittatura del proprio giudizio personale, al metodo che fa ritorno alla natura, all’incontaminato popolo sano, dal quale ha origine ogni potere, e insomma sembra che finalmente si dia dell’idiota all’idiota, sentendosi a posto con la propria coscienza, anche se sa scrivere canzoncine satiriche in modo davvero adorabile. L’inesorabile dittatura del giudizio: di questo voglio fare propaganda. Non dovreste essere e non dovreste volervi più sentire intimamente obbligati a riconoscere le innegabili qualità di un amico, il cui solo comparire in lontananza già vi fa venire la nausea. Pensate alla salute! Torniamo alle inconfutabili parolacce fresche di sorgente, di cui la nostra gente dispone in misura così abbondante. Fuori la parola che vi sta sulla punta della lingua! Meglio non essere obiettivi! A 29 gradi Il termometro segna 29 gradi. E non perché qualcuno tenga un fiammifero acceso sotto la colonnina di mercurio. Ma per ragioni del tutto naturali, perché siamo stati investiti da una certa pressione, alta o bassa, che era attesa da tempo. Ancora ieri si millantava che persino la peggiore arsura desertica, rispetto a questa instabilità freddo umida, sarebbe stata un piacere. Ora il piacere ce l’abbiamo. Ma non è poi una gran cosa. Acqua ghiacciata sulla testa, acqua ghiacciata nello stomaco. Un po’ di mal di testa e po’ di mal di stomaco. Dove ci si può rintanare in un pomeriggio non privo di interesse come questo? Un attacco di delirio tropicale. Abbiamo fatto trenta facciamo trentuno. Visto che ci siamo, andiamo al tè danzante delle cinque. Ed ecco – non si tratta di un miraggio ma di realtà berlinese – ecco che lì ce ne sono già degli altri, colpiti dal delirio tropicale. Un paio di dozzine in un colpo solo, uomini e donne. Siedono fumanti di sudore davanti alla loro limonata ghiacciata. Lasciano che l’estate minacci il peggio e fanno stoicamente il loro dovere. Il sassofono apre l’offensiva jazz. Tutti sono al loro posto. Black bottom. A 29 gradi. Non si può certo parlare di record di velocità, ma con un’energia sorprendente le coppie si muovono oscillando sul lungo Reportage e articoli ispirati alla vita reale 45 ovale della pista. Applausi smorzati. Secondo giro. Di tanto in tanto una gamba si rifiuta di fare il lavoro a cui si era abituata in inverno. La più saggia oscilla cedendo un po’ sul posto. Al posto della stretta di mano della signora, oggi ci accontentiamo di un sorriso di commiato. Il fazzoletto di seta sulla fronte, un sorso dal sifone giallo del seltz e via con il prossimo ballo. Alla finestra l’afa è insopportabile. Dio solo sa come i ballerini facciano a sentirsi così bene. Forse non è poi così assurdo esorcizzare questo caldo del diavolo con il black bottom. E ci si impegna anche. A occhi chiusi. «L’uomo al tamburo ha preso una nota sbagliata con lo strumento». Il vestitino di seta verde chiaro che ho invitato a ballare e che sussulta fantasticamente qui davanti me non degna di alcuna considerazione il mio udito raffinato. Non si svilisce il black bottom parlando, mi rimprovera con lo sguardo. Certo. Ma, provocato ancora una volta, non posso fare a meno di dar di nuovo prova della mia saggezza. «Qualsiasi dilettante sa battere le dita su un tamburo. Bisogna essere del mestiere. Io stesso…». E in quel momento un inaspettato fenomeno luminoso mi fa trasalire. Che umiliante errore. Non era il percussionista a steccare, ma il rimbombo del tuono che via via diventa sempre più forte – ecco un altro lampo – un temporale in piena regola. Anche il mio vestitino di seta inorridendo capisce, sussultando si fa più vicina, diventa addirittura umana. Il cielo nero-azzurro incombe dalle finestre. Inutile tentare di aggirare il problema tenendo le luci accese. I tuoni sono sempre più spaventosi, spettrali le saette dei lampi. L’orchestra fa a gara con i rumori della natura. Ma non può impedire che il black bottom degeneri in un disperato one-step. 46 Billy wilder Accompagno il mio vestitino di seta sgualcito al suo posto. Il suo sguardo fissa silenzioso il maltempo. Per non disturbarla, salutandola ad alta voce, mi siedo sulla sedia vicino a lei. Per pochi lunghissimi minuti null’altro che tuoni e lampi. Appoggio sul tavolo il mio orologio da taschino, certo non molto adatto a essere messo in mostra, e osservo la lancetta dei secondi: «Il suono percorre 340 metri al secondo. Il temporale non deve essere lontano». D’un tratto il mio vestitino di seta cambia aspetto, il viso stravolto dalla paura, che tuttavia resta il viso dolce e tenero di una ragazzina. «Oltretutto, signorina cara, ci troviamo al primo piano e cioè nel sottotetto di questo edificio». Non guardarla, non farti commuovere, mi ordino. «Dal momento che questo edificio è stato costruito da poco, probabilmente non ha ancora un parafulmine». Basta questo. L’ultimo tuono è già superfluo. Con un ultimo grido salta in piedi, cerca di afferrarsi al mio braccio. Le butto addosso il mio impermeabile, un’ancora di salvezza, e porto al sicuro Elli in un bistro al piano terra lì vicino. Ti prego, per favore, domani un altro temporale! Il giorno del destino Di traverso, sotto la data del giorno di oggi, nello spazio riservato alle annotazioni della mia agendina, c’è scritto: giorno del destino. Sottolineato due volte. Una parola inconsueta in un taccuino per gli appunti. Di solito sulla pagina non ci sono che nomi e numeri. Alla data di ieri sono annotate le scadenze di pagamento, per la domenica di Pentecoste treni e hotel. E lì, proprio in mezzo, questa patetica annotazione. Eppure senza dubbio questa nota l’ho scritta io, anche la doppia sottolineatura è opera mia. A poco a poco mi ritorna in mente. Sarà stato tre settimane fa. Dopo tanto tempo, finalmente una rilassante passeggiata pomeridiana per guardare le vetrine della Tauentzienstraße. All’improvviso, sulla Wittenbergplatz si sentono le grida miste a risa della folla ammassata. Al centro un giovane pallido fa dei gesti affannosi, autore o forse vittima dell’accaduto. Dalle labbra cianotiche spalancate nell’atto di emettere un urlo, senza quasi curarsi dei commenti ad alta voce che lo scherniscono, lancia la sua accusa contro «il tempo che è senza cuore». E poi sottovoce, percepibile solo da chi è vicino a lui, conclude: ma il 4 giugno sarà per tutti noi il giorno del destino. In che senso? Non può, non vuole dirlo. Ma, quale presentimento dell’or48 Billy wilder rore che ci aspetta, al solo nominare la data, il suo corpo è percorso da un tremito. Poi inizia la seconda parte della sua ingiuriosa invettiva. Indifferente, il poliziotto sull’angolo osserva quell’oratore sempre più infervorato. «Ha proprio le parole in tasca» spiega. Oggi dunque è il giorno del destino. Per noi tutti. Non prendo tragicamente una profezia di questo tipo, nemmeno quando è riferita a un giorno in particolare. Ma, adesso che mi torna in mente, sento l’obbligo di prestare un po’ di attenzione alla cosa. Non posso fare a meno di pensarci mentre apro la posta e leggo l’ultimo telegramma. Non c’è scritto proprio niente di strano. Catastrofi naturali - cruente collisioni - incidenti - voli transoceanici. Sono senz’altro ineluttabili per molti, ma certo non per tutti. Di eventi decisivi su scala mondiale non c’è alcuna traccia. Tuttavia mi assale un grosso dubbio su questo, sarebbe possibile già oggi fare il bilancio di questa giornata? Anche solo dire qualcosa sul significato o sulla irrilevanza di quanto è accaduto? Tutto può essere legato a una causa indecifrabile, all’orribile destino. Mi accorgo della mia sconsideratezza. A un tratto mi sembra che tutto possa avere importanza e peso. Che cosa accadrebbe se di colpo tutti, anche solo per un giorno, dessero importanza e peso a tutto? Allo svolgimento meccanico della loro vita familiare, al loro schema di lavoro. Al saluto che danno alla moglie al mattino, alla firma dei documenti. Il giorno del destino?