Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 2/8/2016, 2 agosto 2016
ALTRO CHE CONTESTATORI, LA RIVOLTA A VENEZIA È DI PPP
La polizia bussò un paio di volte e alla terza si spinse un passo più in là del postino. Superò l’ingresso della Sala Volpi, prese i cineasti uno a uno, li sollevò e li portò all’aria aperta dove da un pezzo, tra provocatori, fascisti e angoli di Lido trasformati in Bastiglia, le nuvole di fumo avevano coperto il senso stesso della Mostra del cinema Venezia numero 29. L’ultima con i premi, quella del 1968, arrivata a quasi quattro mesi dalle proteste di Cannes e a poco più di due dalla pantomima dell’apertura contestataria della Biennale. Gli artisti a chiudere padiglioni, a devastare i loro stessi quadri con scritte contro il sistema e a opporre ragioni inconfutabili ai critici sconvolti: “L’opera è mia e ci faccio quel che più mi piace”.
In un mondo ribaltato, inclinare l’asse veneziano, la rassegna austera del direttore del festival, il professor Luigi Chiarini, passato in pochi mesi dall’essere considerato progressista a essere dipinto come reazionario, fu relativamente facile. Da un lato resisteva con fatica la liturgia consolidata di un festival più o meno immobile dalla propria fondazione. Dall’altra premeva con forza l’Anac (Associazione nazionale autori di cinema) che all’idea di un festival strappato alla conduzione di Chiarini affiancava il progetto di un’autogestione da parte degli autori. Niente più premi e questioni burocratiche delegate a un’ente esterno, il Comune di Venezia. Le posizioni e i rispettivi eserciti si schierarono nervosi ai confini del fronte fin dall’estate. Chiarini invitò in concorso Bernardo Bertolucci, Nelo Risi, Liliana Cavani, Carmelo Bene e Pier Paolo Pasolini. L’Anac si espresse per non far partecipare i propri autori, ma poi lasciò libertà di scelta. I primi tre incontrarono Chiarini e decisero di partecipare. Bene scelse come sempre con la propria testa. Pasolini – scisso, tormentato, indeciso – sostenne a inizio agosto che contro i “fascismi di sinistra” sarebbe stato in laguna, poi cambiò idea e infine a Venezia – per la rabbia dei produttori di Teorema Franco Rossellini – si recò davvero per manifestare a fianco dell’Anac.
A Venezia, con prestiti dal reparto celere di Padova, il ministero degli Interni spedì centinaia di agenti. Denunciarono Pasolini e i suoi compagni per aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”, liberarono il Palazzo del cinema dipinto all’uopo di rosso acceso, spensero i fuochi e garantirono con le cattive (nonostante Zavattini avesse parlato di atteggiamento tollerante) lo svolgimento di un consesso che gli ululati della stampa etichettarono immediatamente come festival poliziesco. Se Gregoretti, Ferreri, Faenza, Solinas, Samperi, Pirro, Wertmuller e Maselli pretendevano che lo statuto “fascista” del festival fosse cambiato per sempre, Pasolini andava oltre.
Considerava sacrilega la presenza in sala dei giornalisti per la proiezione dei film e impropria quella di Teorema in gara. Era una scelta di campo difficile. Un po’ per il valore di Teorema. Un po’ perché c’era una parte di Pasolini che desiderava vedere il risultato, l’esito e la reazione del pubblico dopo tanta faticosa elaborazione. Pasolini provò a far saltare la proiezione e sconfitto dalle ragioni dei suoi finanziatori tenne una gremitissima conferenza stampa sotto i pini marittimi. Con un giubbotto di pelle marrone e gli occhiali sul naso, il poeta invitò i giornalisti a non presenziare alla proiezione di Teorema per solidarietà con lui. Gli diedero retta in pochissimi e Teorema ebbe un buon esito, nonostante le parole di Gianna Preda sui “capovolti”, quelle di Sergio Leone sul film (“Sono convinto che tanti film sull’omosessualità abbiano fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”) e il sequestro della pellicola “per oscenità e per le diverse scene di amplessi carnali alcune delle quali particolarmente lascive e libidinose e per i rapporti omosessuali tra un ospite e un membro della famiglia che lo ospitava”, un sequestro che costrinse il poeta ad andare ancora una volta in tribunale.
Il successo, però, restituì una Coppa Volpi a Laura Betti e un incredibile premio di stampo cattolico, l’Ocic, in inatteso sovrappiù. Chiarini resistette sul Piave e poi, a fine rassegna, difeso invano da Rossellini, si dimise con grande dignità. Ci sarebbe stato tempo e modo di rimpiangerlo come fece Gillo Pontecorvo (“era il miglior direttore che Venezia potesse avere in quel momento”) perché il lungo decennio post sessantotto, fino all’arrivo di Carlo Lizzani, tra annullamenti improvvisi della rassegna e boicottaggi, fu il più cupo dell’intera storia della mostra. La contestazione, disse Louis Malle, “ammazzò la mostra per undici anni”. A dire il vero era stato poco allegro anche il festival numero 29. Un lungo scambio di accuse tra una parte e l’altra. Un dialogo tra sordi. Chiarini aveva promesso fermezza ben prima che la rassegna venisse inaugurata: “Se i contestatori useranno la forza risponderò con la forza” e fu di parola. Prima dell’inizio della rassegna, il giorno 18, era esploso un ordigno rudimentale di fronte al Palazzo del Cinema e uno studente-militante del Psiup, Nordio, era stato accusato e poi prosciolto dall’accusa mentre i suoi compagni, un anno e qualche mese prima di piazza Fontana, consigliavano di guardare come responsabili della “bombetta” veneziana i veneti “dell’Ordine Nuovo” che in veste di provocatori infiltravano il movimento con relativa semplicità. Forse il ‘68 veneziano, come ricordò un documentario di Antonello Sarno e Steve Della Casa, fu un velleitario affare per pochi, 400 persone al massimo, in una Venezia cinematografica molto distante da quella odierna: “È vero, Pier Paolo andò a parlare agli operai di Porto Marghera – disse Della Casa – ma non credo che a Porto Marghera sia nato il Sessantotto perché Pasolini era andato ad arringare gli operai”.
di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 2/8/2016