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 2016  luglio 31 Domenica calendario

LA VERITÀ DI STROMBOLI

Ho visto qualche giorno fa, per la prima volta, il film Stromboli di Roberto Rossellini. È la storia di Karin all’epoca della Seconda guerra mondiale, una profuga lituana di classe sociale alta che incontra Antonio, prigioniero di guerra appena liberato. Non avendo ottenuto il visto per l’Argentina, Karin decide di sposarlo senza conoscere nulla di lui, nemmeno le sue origini. Lo segue dunque, come moglie, nella sua terra, Stromboli, dove si troverà malissimo. Scoprirà che Antonio è un povero pescatore, ha una casa semidiroccata e senza arredi, l’isola è quasi deserta, abitata da gente rozza e gretta di mentalità antiquata, e la vita è durissima su quegli scogli neri di pietra lavica, con un mare impietoso e il vulcano incombente. Karin si sente diversa, incompresa. È sola e spaventata in un mondo ostile.
A metà film ho fatto il gioco che, credo, facciamo in molti ogni volta che qualcuno ci racconta una storia: ho provato ad anticipare la trama, a immaginare come avrebbe potuto andare a finire. E mi è venuto da pensare che ci sarebbe stata una svolta, che Karin avrebbe capito la bellezza estrema e conturbante del luogo e sarebbe entrata in sintonia con la meravigliosa arretratezza degli abitanti. Forse avrebbe dimostrato coraggio e generosità, salvando qualcuno, prestando aiuto in una situazione drammatica; e finalmente si sarebbe sentita parte di una comunità, riuscendo anche, col tempo, a cambiare la loro mentalità.
Invece no, nessuna svolta. Il film procede meravigliosamente verso il suo abisso: Karin scappa. È incinta, e non ha nessuna intenzione di far vivere lì il suo bambino. Vuole arrivare dall’altra parte dell’isola per trovare un’imbarcazione che la porti via, e una notte intraprende un’epica salita al vulcano dove le sue forze vengono duramente messe alla prova e dove, di fronte al mistero metafisico del luogo sottoposto alle forze incontrollabili della natura, chiederà a Dio di salvarla.
Avevamo più coraggio, un tempo. Eravamo capaci di inventare storie tragiche senza edulcorarle. Anzi, meglio: credevamo che alcune situazioni erano davvero tragiche, e non attuavamo quel nostro, ora consueto, meccanismo di ribaltamento, secondo il quale anche la peggiore disgrazia è un’opportunità da non perdere, un’inestimabile chance che la vita ci offre, per comprendere, migliorare, crescere, eccetera...
Settant’anni fa uscivamo da una guerra. Sapevamo che la povertà è povertà, l’arretratezza è arretratezza, l’ignoranza ignoranza. E di fronte a un vulcano che erutta cercavamo di scappare.
Non avevamo ancora elaborato quel meraviglioso mito del primitivo, delle origini e del selvaggio che illuminò gli anni Settanta e ci mandò a esplorare (nel mondo, ma anche nell’anima) isole remote e scomodi luoghi deserti e incontaminati, dove edificare i nostri paradisi, molto artificiali.
L’esotico e il folcloristico sono arrivati dopo, rispetto ai tempi del film di Rossellini, ed erano il frutto, e il segnale al tempo stesso, di un benessere economico raggiunto, per cui potevamo concederci il lusso di contemplare con ammirazione e desiderio luoghi ostici e desertici, rituali grezzi e superstiziosi. Ci abbandonavamo al fascino irresistibile del poco, perché cominciavamo ad avere molto.
Oggi che abbiamo colonizzato tutte le Stromboli possibili portando ovunque la civiltà (dei consumi!), non ci resta che edulcorare ogni storia, conducendola al solito lieto fine di chi si integra, comprende e viene compreso, aiuta e riceve aiuto. Oggi, chi scrivesse mai un film come Stromboli, racconterebbe che Karin diventa amica delle donne vestite di nero, cresce suo figlio all’ombra protettiva ed energetica del vulcano, aiuta suo marito nella mattanza dei tonni: redimendosi così dal peccato di appartenere alla classe alta, e riconoscendo l’enorme fortuna di accedere a una forma dura e frugale dell’esistenza.
Niente da dire, è bellissimo saper volgere in bene il male. Ma esiste una verità incontrovertibile del male: le tempeste che si scatenano in mare, per esempio, sono davvero tempeste e hanno il potere di travolgere le barche, e i vulcani davvero a volte esplodono e cancellano città. Così come davvero a volte ci può capitare di finire in paesi sgradevoli tra persone sgradevoli, paesi dove ci è difficilissimo vivere e da dove vorremmo andarcene al più presto; paesi che si chiamano violenza, grettezza, povertà, malattia...
Credo che se accettassimo che qualcosa è davvero male, ritroveremmo la speranza di un bene. Sapremmo riconoscere la dimensione del divino e del mistero, di qualcosa che sfugge alla nostra volontà e immediata comprensione. Non tutto è in nostro potere, decidibile e manipolabile. Qualcosa non ci piace, ci tormenta, ci fa paura. E qualche volta vorremmo fuggire.
Abbiamo ancora bisogno di un dio del mare, che ci salvi dalle tempeste.
* * *
Mi è anche capitato, più o meno negli stessi giorni in cui vedevo Stromboli, di ritrovare un’antica edizione delle Lettere di Galileo Galilei, e di leggere la sua lettera del 4 agosto 1597 a Keplero, in cui lo ringrazia del libro che gli ha mandato e gli dice che molto si compiace di «avere un così insigne collaboratore nella ricerca del vero, e che ci siano uomini così appassionati per la pura verità e che non seguono uno stolto metodo di filosofare».
E continua: «Ma poiché non è questo il momento di deplorare le miserie morali del tempo nostro (...), leggerò attentamente il tuo libro, sicuro come sono di trovarvi bellissime cose. E tanto più volentieri ciò farò, in quanto che io da molti anni ho aderito alle idee di Copernico, e partendo da tale principio ho potuto trovare le ragioni di molti fenomeni naturali che resterebbero inesplicabili coll’ipotesi comune. Molte prove e confutazioni di argomenti in contrario ho già preparato, le quali tuttavia fino ad oggi non ho osato pubblicare, atterrito dalla sorte toccata al nostro antesignano, Copernico: il quale se pure ha conseguito fama immortale presso i pochi, per il volgo tuttavia (tanto grande è il numero degli sciocchi) è degno di risa e di fischi».
E così ribadisce, in finale: «Io non esiterei a pubblicare le mie ricerche, se molti ce ne fossero come te; ma non essendoci, voglio soprassedere a questa faccenda».
I molti, i pochi. Gli sciocchi, il volgo, e i compagni di verità. Osare e non osare. Tacere, soprassedere. E le miserie morali dei tempi. Tutto si ripete?
Sappiamo bene che cosa toccò a Galileo. Il processo, la condanna per eresia, l’abiura. Sappiamo che i grandi hanno sempre deplorato le miserie morali del loro tempo, e si sono parlati e compresi soltanto tra di loro, e alla fine hanno vinto, a dispetto di quei molti che li deridevano costringendoli al silenzio.
Non voglio certo tracciare una linea tra Galilei e Rossellini, non arriverei mai a tanto. Ma, pur non volendo nemmeno io deplorare i tempi miei, mi piacerebbe un tempo più rispettoso della conoscenza, in cui gli uomini non mascherino, non manipolino, non nascondano ciò che è vero, per amore del potere. La verità non è politica, lo so. Ma la Terra gira intorno al Sole e ci sono ancora tante verità che ad alcuni possono risultare sgradite. Mi piacerebbe che si potessero dire.
* * *
Non ci è mai stato raccontato che la verità sia un bene. Svelare ciò che è nascosto, portare alla luce, togliere il velo, indagare, dire: tutte azioni dagli esiti nefasti.
Helios, il dio che illumina ogni angolo buio e rivela tutte le cose, ha informato Efesto che Afrodite s’incontrava di nascosto con Ares, e lo ha reso infelice. Efesto ha costruito una rete metallica che ha imprigionato i due amanti, colti sul fatto: tutti gli dei presenti hanno riso di lui.
Quando Fedra s’innamora d’Ippolito, figlio dell’uomo che ha sposato, non vuole dire il suo segreto. Ma la nutrice per aiutarla, per far sì che ci sia speranza al suo folle amore, dice tutto a Ippolito e innesca una tragedia senza fine: Ippolito muore maledetto dal padre, Fedra s’impicca.
Quando Edipo re di Tebe decide di indagare perché una pestilenza s’è abbattuta sulla sua città, prima che arrivi a scoprire che la causa del male è proprio lui, che senza volere ha ucciso il padre e sposato la madre, Giocasta lo scongiura di lasciar perdere, e più volte dice che è meglio non sapere.
Si tratta di accettare l’esistenza del male; riconoscere il limite, il difetto. Senza capovolgere, senza stravolgere.
Conosci te stesso, sta scritto sul tempio di Delfi.
Paola Mastrocola, Il Sole 24 Ore 31/7/2016