(gu.ro.), Il Sole 24 Ore 31/7/2016, 31 luglio 2016
IL PIÙ GRANDE DEPOSITO È LA LUNA
Con un consumo che aumenta stabilmente del 2-3% l’anno e una proiezione al 2020 che dà un consumo aumentato del 30% rispetto al 2010 è facile capire che le aziende del settore OilGas si sono subito dimostrate interessate a investire nel settore, anche in vista dell’annunciata chiusura della National Helium Reserve americana. La recente scoperta dei giacimenti africani della valle di Rukwa probabilmente cambierà gli equilibri nei prossimi anni, ma negli ultimi anni si è innescata una corsa all’elio che va anche oltre i confini del nostro pianeta. Gli Stati Uniti rimangono saldamente in testa con una produzione di 20,6 miliardi di metri cubi all’anno, seguiti dal Qatar (10,1 mld/mc/anno) che alcuni anni fa ha aumentato la sua produzione del 15% grazie agli impianti di Ras Laffan a Qatar City, Algeria (8,2 mld/mc/anno), Russia (6,8 mld/mc/anno), Canada (2 mld/mc/anno) e Cina (1,1 mld/mc/anno).
Le metodologie messe a punto dai ricercatori dell’Università di Durham negli Usa e di Oxford in Gran Bretagna per le prospezioni in Tanzania promettono di portare alla scoperta di altri giacimenti attraverso lo studio delle zone vulcaniche dove le rocce, riscaldate dall’attività sotterranea, hanno più chance di liberare il prezioso gas. I riflettori della ricerca sono però puntati anche verso il cielo dove però si cercano soprattutto i suoi unici due isotopi stabili elio 3 (3He) ed elio 4 (4He). «L’elio 3 è un elemento rarissimo - spiega Luciano Anselmo, ricercatore nel laboratorio di dinamica spaziale Isti-Cnr di Pisa – e ne esistono pochi chilogrammi». Negli anni 70 la British interplanetary society aveva anche sviluppato Daedalus, un concept di navicella spaziale alimentata a elio 3 che purtroppo non ha mai visto la luce per la carenza di propellente. E proprio la scarsità di elio 3 ha scoraggiato lo sviluppo di altre applicazioni industriali, ma per i fisici rimane un elemento fondamentale per lo sviluppo di una nuova generazione di reattori nucleari, non più a fissione, ma a fusione. «Di queste macchine si parla da anni ma esistono solo sulla carta, anche se sarebbero i reattori perfetti – sottolinea Anselmo – perché fondendo un atomo di elio 3 con uno di deuterio (l’isotopo dell’idrogeno) potremmo avere una fusione nucleare senza la creazione di neutroni liberi. Gli unici sottoprodotti sarebbero atomi di elio 4, che non è radioattivo e protoni che possono essere riutilizzati dall’idrogeno o sfruttati per creare una corrente elettrica». Una fusione nucleare pulita, senza scorie nè radioattività è il sogno di tecnologi e ambientalisti, ma è a portata di mano? «È vero sono cinquant’anni che sento dire che la fusione nucleare a base di elio 3 vedrà la luce nei prossimi 20 anni, ma è un tema che la ricerca deve affrontare perché nell’arco del prossimo secolo dobbiamo confrontarci con la fine dei combustibili fossili». In realtà, una riserva di elio 3 è vicinissima a noi perché la superficie della Luna, non protetta da un forte campo magnetico nè da un’atmosfera è stata bombardata per migliaia di anni dalle radiazioni cosmiche e ha inglobato nelle sue rocce moltissimi atomi di elio 3 formando la regolite che compone il suolo lunare. «Le rocce prelevate dalle diverse missioni Apollo ci hanno dato una mappa molto dettagliata della composizione del suolo lunare che ha permesso calcoli accurati - sottolinea Anselmo – e sappiamo che nei primi 10 metri di spessore superficiale di regolite ci sono circa un milione di tonnellate di elio 3. Anche se la superficie lunare è in realtà molto piccola (di fatto meno estesa di tutto il continente africano) questo strato contiene più elio 3 di tutto il mantello del nostro Pianeta ed è infinitamente più facile da raggiungere. Il problema logistico di costruire una base lunare per lo sfruttamento di questa risorsa è ancora enorme e irrisolto, ma da un punto di vista energetico il bilancio è positivo. Estrarre 1000 tonnellate di elio 3 assicurerebbe abbastanza energia per coprire mille volte l’attuale fabbisogno energetico del nostro pianeta». Oltre ai problemi ingegneristici del trasporto del materiale sulla terra (anche se non mancano progetti come quello di acceleratori di massa alimentati a energia solare in grado di lanciare tonnellate di materiali dalla Luna alla Terra), c’è quello giuridico poiché secondo il diritto internazionale nessuno stato può appropriarsi di un corpo celeste. «In realtà ci sono delle scappatoie – osserva Anselmo – perché gli Usa non hanno mai ratificato il trattato Onu sulla Luna che limita l’uso delle risorse del nostro satellite. Al contrario ha dato l’ok allo sfruttamento da parte delle industrie private delle risorse lunari evitando accuratamente ogni richiamo a trattati internazionali». Il provvedimento Usa ha creato, di fatto, un escamotage giuridico. Nessuno può dire che un asteroide è suo, un po’ come nessuno può dirsi proprietario delle acque internazionali. Ma proprio come in mare, se arrivo su un asteroide posso sfruttarne le risorse. Il precedente giuridico potrebbero essere proprio i 384 kg di regolite che la Nasa ha raccolto nelle sue missioni e che fino a oggi sono state scambiate e studiate in tanti laboratori di tutto il mondo, ma che di fatto sono riconosciute come proprietà del governo Usa. «Non sarebbe la prima volta nella storia umana che utilizziamo materiali extraterrestri nella nostra industria – osserva Anselmo – la lama del famoso pugnale di Tuthankamon viene da un meteorite, perché prima di imparare a estrarre il minerale e lo sviluppo dell’Età del ferro, per secoli quella è stata l’unica fonte».
(gu.ro.), Il Sole 24 Ore 31/7/2016