VARIE 1/8/2016, 1 agosto 2016
APPUNTI PER GAZZETTA - GLI AMERICANI BOMBARDANO SIRTE francesco semprini sulla stampa new york «Obiettivo Sirte»
APPUNTI PER GAZZETTA - GLI AMERICANI BOMBARDANO SIRTE francesco semprini sulla stampa new york «Obiettivo Sirte». Il consiglio presidenziale libico rompe gli indugi e chiede ufficialmente al presidente americano Barack Obama interventi chirurgici dall’alto per eliminare le sacche di resistenza dello Stato Islamico a Sirte. La città nel cuore del Golfo che si affaccia sul Mar Mediterraneo è l’ultimo bastione del califfato rimasto in piedi dopo l’avanzate delle milizie di Misurata, impegnate in linea con quanto stabilito dal Governo di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj, per liberare la Libia della forze jihadiste al comando di Abu bakr al-Baghdadi. La richiesta formulata nella serata di domenica ha trovato immediata risposta nel giro di 12 ore con l’intervento dei caccia americani provenienti dalla postazioni mobili sul Mediterraneo. «Oggi in accordo con quanto chiesto dal Gna, forze militari degli Stati Uniti hanno condotto operazioni militari su Sirte per sostenere le operazioni delle forze affiliate al Gna impegnate sul campo a sconfiggere le resistenze dell’Isis in Libia», spiega Peter Cook, portavoce del Pentagono. I raid sono stati autorizzati da Obama su raccomandazione del segretario alla Difesa Ash Carter e dal capo di stato maggiore delle forze armate, il general Joseph Dunford. Secondo fonti militari americane l’operazione a cui si è dato inizio nella prima mattinata di oggi potrebbe durare anche diversi giorni, attraverso un approccio articolato su diverse fasi, la prima delle quali è attraverso l’impiego di droni. CORRIERE.IT LORENZO CREMONESI Alla fine hanno dovuto intervenire gli americani per sferrare la spallata finale ai jihadisti di Isis asserragliati nella loro roccaforte di Sirte. Da Tripoli il premier del governo di unità nazionale sostenuto dall’Onu, Fayez Serraj (ma non riconosciuto dall’intera comunità internazionale e neppure da diverse fazioni libiche), ha annunciato che su sua richiesta l’aviazione americana ha cominciato a bombardare Sirte, chiarendo peraltro che «non sono presenti truppe Usa sul terreno». L’offensiva contro l’Isis È del resto ben noto che corpi speciali americani e inglesi si trovano nella regione che fa capo a Misurata per fornire intelligence e consigli tattici alle milizie libiche legate a Serraj. L’intervento Usa giunge dopo che dal 12 maggio scorso è iniziata l’offensiva contro Isis. Due settimane fa pareva fosse quasi conclusa. Isis è ridotto a controllare circa quattro cinque chilometri quadrati nel cuore della città e attorno al complesso congressi di Ouagadougou, voluto da Gheddafi quale luogo di incontro con gli alleati africani. Pare i suoi guerriglieri siano ora ridotti a meno di 500. Le difficoltà a Sirte Ma negli ultimi tempi le perdite delle milizie di Misurata e Tripoli sono state ingenti, oltre 300 morti e più di 1.500 feriti. Scarseggiano inoltre munizioni e armi pesanti. Il combattimento è davvero all’ultimo sangue. Nessuno prende prigionieri. Isis ha minato strade e palazzi. I suoi uomini sono pronti a lanciarsi come kamikaze esplosivi ogni volta che si vedono circondati. I bombardamenti Usa lunedì pare siano stati leggeri. Alcuni missili sono stati sparati dai droni secondo le nostre fonti sul posto. Da Washington il Pentagono conferma i raid e ribadisce che ne seguiranno altri. REPUBBLICA.IT WASHINGTON - Per la prima volta dalle operazione del 2011 che portarono alla caduta di Muammar Gheddafi, i caccia-bombardieri Usa sono tornati a bombardare la Libia. L’obiettivo: postazioni dell’Is. La conferma dell’intervento americano - autorizzato dal presidente Barack Obama, in seguito a consultazioni con il segretario alla Difesa, Ashton Carter, e con il capo dello Stato maggiore congiunto, Joseph Dunford - arriva dal portavoce del Pentagono, Peter Cook, il quale sottolinea che l’intervento militare punta a negare all’Is ’paradisi sicuri’ in Libia. Altri bombardamenti, ha poi spiegato Cook, continueranno a prendere di mira l’Is a Sirte (città natale di Gheddafi che le milizie jihadiste controllano da giugno 2015), per consentire al governo di unità libico di "compiere un’avanzata decisiva e strategica". L’azione è stata effettuata su richiesta del Consiglio presidenziale del governo di concordia nazionale che ha sede a Tripoli, ed è presieduto dal premier Fayez al-Serraj. A maggio il premier libico aveva chiesto aiuto all’Onu. Sarraj: "Intervento Usa limitato nel tempo". Sarraj ha rivelato che il suo governo aveva chiesto un "sostegno diretto agli Stati Uniti per effettuare raid aerei contro l’Is a Sirte". Ha ribadito poi la sua posizione ufficiale che "rifiuta ogni tipo di ingerenza straniera senza mandato o autorizzazione del governo di intesa nazionale". Nel suo discorso in tv, il premier libico ha precisato che "i caccia americani hanno effettuato raid aerei contro l’Is a Sirte in coordinamento con la Operation Room dell’operazione al Bonyan al Marsous". "L’aviazione Usa - ha spiegato Sarraj - ha colpito alcune postazioni del Califfato, infliggendo pesanti perdite". Questo "aiuto solo aereo - ha sottolineato - sarà limitato ad un lasso di tempo ben determinato, sempre nell’area dove Daesh ha la sua roccaforte libica, Sirte e la sua periferia". Ma, ha precisato, "non ci saranno presenze militari Usa sul terreno". Il retroscena. La caduta di Sirte, 450 chilometri a est della Capitale, sarebbe un duro colpo per l’organizzazione terroristica, che ha inoltre dovuto fronteggiare una serie di pesanti battute d’arresto in Siria e in Iraq. La battaglia per Sirte è costata finora la vita a 280 combattenti filo governativi, i feriti sono stati oltre 1.500. Le forze alleate con il governo di accordo nazionale sono composte principalmente da milizie della libia occidentale create durante la rivolta del 2011 che ha portato alla caduta di Gheddafi. Il governo di accordo nazionale è il frutto di un’intesa per la condivisione del potere mediata dalle Nazioni Unite e raggiunta a dicembre, ma di fatto deve essere ratificata dal parlamento eletto libico nel lontano est del Paese. L’APPELLO DI MAGGIO VIENNA - "Non chiediamo un intervento straniero in Libia, ma chiediamo assistenza con addestramento e la rimozione dell’embargo delle armi al nostro governo: la comunità internazionale ha responsabilità verso la Libia, e quando si tratta di sconfiggere lo Stato islamico ricordo ai nostri amici che questo sarà raggiunto dagli sforzi libici e senza intervento militare straniero". Con un articolo il primo ministro libico Fayez Serraj ha lanciato le sue richieste alla comunità internazionale che si ritrova oggi a Vienna per discutere del futuro dello stato nordafricano. Il premier è stato designato in dicembre dopo un accordo fra le fazioni libiche favorito dall’Onu. Ma a tutt’oggi Serraj non riesce ancora a governare il Paese, per problemi di sicurezza, per la sfida del terrorismo dello Stato Islamico, ma soprattutto per le profonde divisioni che percorrono ancora la società politica libica 5 anni dopo la rivoluzione contro Gheddafi. LEGGI Libia, piano per l’intervento italiano: pronti 250 soldati Nel suo appello Serraj aggiunge che "tutti gli Stati devono lavorare solo con le istituzioni legittime secondo quanto prevede l’Accordo politico libico, ma alcune attività stanno minando i nostri sforzi e intensificheranno solo il conflitto". Libia, sostenitori di Haftar bruciano bandiera italiana a Bengasi Il premier fa un chiaro riferimento al sostegno politico e militare che arriva ad alcuni elementi della Cirenaica, innanzitutto il generale Haftar e il presidente del parlamento di Tobruk Agila Saleh. Un sostegno che invece di convincere Tobruk a convergere sul nuovo governo di Tripoli (come da accordi Onu), ha convinto l’ex generale gheddafiano ad alzare la posta e il livello delle richieste che fa per una pacificazione nazionale. Il segretario di Stato John Kerry e il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni vogliono rispondere proprio alla richiesta di sostegno fatta da Serraj, che dal 30 marzo è arrivato a Tripoli con il suo "consiglio presidenziale", ma che ancora non riesce a vedere in funzione il suo governo visto che i ministri non sono stati ancora votati dal Parlamento di Tobruk. Kerry da parte sua ha assicurato: "Appoggeremo il consiglio di presidenza e cercheremo di revocare l’embargo e fornire gli strumenti necessari per contrattaccare l’Is" in Libia. "E’ importante e urgente risolvere la situazione in Libia il più velocemente possibile, tutti conoscono il prezzo inaccettabile delle rivalità interne che stanno infliggendo al popolo libico, all’economia e alla sicurezza e l’aumento dell’estremismo che sta traendo vantaggio". Kerry ha ribadito che il governo Serraj è "l’unico legittimo della Libia", che "ora deve iniziare a lavorare" ed è un "imperativo per la comunità internazionale sostenerlo". Il segretario di Stato Usa ha ribadito inoltre che "coloro che minacciano la pace e la sicurezza in Libia o che vogliono ostacolare la transizione politica dovranno affrontare la prospettiva delle sanzioni". In conferenza congiunta con Kerry il ministro Gentiloni ha ribadito: "La stabilizzazione della Libia è la chiave per combattere il terrorismo. Senza si rischia un conflitto interno, anche armato. Cercheremo di rafforzare l’accordo politico, per combattere contro l’Is, incluso il generale Haftar, ma serve il riconoscimento pieno" del governo di unità nazionale. "Siamo pronti ad addestrare ed equipaggiare le forze militari libiche come ci chiede il governo Sarraj". La Libia ha più volte ribadito di "non volere un intervento di terra" ma un "sostegno" della comunità internazionale a "formazione e addestramento" ha sottolineato Gentiloni. "Sarraj ha insistito fortemente sulla ownership della sicurezza". In sostanza "il messaggio che arriva oggi da Vienna è che la Libia rimane unita, non si alimentano divisioni, i libici combatteranno il terrorismo e non ci sarà un intervento straniero di terra" ha sottolineato il ministro ai microfoni di SkyTg24. A margine della conferenza Gentiloni ha aggiunto che l’Italia, al pari degli altri paesi europei presenti a Vienna ha declinato l’invito dell’Onu per la protezione degli uffici della missione delle Nazioni Unite a Tripoli, per la quale "serve una forza multinazionale". Per Roma, è prioritaria la difesa della sede diplomatica italiana nella capitale libica, la cui riapertura è prevista nei prossimi mesi. LEGGI La corruzione in Italia e l’Europa spaccata e moritura di E. SCALFARI Pochi giorni dopo l’ultimo summit sulla Libia, che si tenne nel dicembre scorso a Roma, rappresentanti dei due parlamenti rivali (il Congresso dei deputati di Tobruk, riconosciuto a livello internazionale, e il Congresso Nazionale generale, conosciuto come il "parlamento ribelle" di Tripoli) firmarono a Skirat in Marocco l’intesa che ha portato alla formazione del "Governo di Accordo Nazionale" che progressivamente dovrà consolidare la tregua nella guerra civile e riunificare le istituzioni libiche. Libia, Serraj nella moschea, in piazza e nei bar a Tripoli Navigazione per la galleria fotografica Un passo decisivo è il voto del Parlamento di Tobruk, che secondo l’accordo Onu è l’unico ad avere ancora legittimità prima dell’entrata in vigore del nuovo assetto costituzionale. Il presidente della "House of Rapresentatives" Agila Saleh da mesi ha messo in atto un boicottaggio per impedire ai deputati di votare, tanto che è stato sanzionato prima dall’Unione europea e poi anche dall’amministrazione Obama. Agila ha convocato per oggi i suoi vice e alcuni deputati per discutere della possibilità di convocare la seduta parlamentare per il voto di fiducia: la riunione servirà per studiare la possibilità di modificare il cosiddetto "Annuncio costituzionale" (che funge da Costituzione provvisoria), considerato da Saleh un passo necessario per arrivare al voto di fiducia sul nuovo governo. Per sette volte il Parlamento libico si è riunito a Tobruk, in Cirenaica, senza mai riuscire a votare la fiducia ai ministri presentati dal premier Sarraj. REPUBBLICA 18/5/2016 ROMA - Almeno 49 persone decapitate o colpite da un proiettile: le esecuzioni sommarie praticate dall’Is nella città libica di Sirte sono ora documentate in dettaglio, in un rapporto dello Human Rights Watch dal titolo "We feel we are cursed: life under Isis in Sirte, Libia". Nelle 41 pagine, l’osservatorio raccoglie le testimonianze della popolazione locale e ventila il crimine contro l’umanità. Le esecuzioni. Attraverso i racconti degli abitanti, intervistati via mail o telefono, e grazie anche alle testimonianze dei parenti delle vittime, l’organizzazione è riuscita a ricostruire l’uccisione di almeno una cinquantina di persone. Accusate di "offendere Dio", di spiare o persino di "stregoneria", oppure in quanto oppositori politici, le vittime non hanno potuto neppure difendersi con un processo minimamente regolare. L’Is ha praticato esecuzioni sommarie, un massacro che si aggiunge alla lista di orrori denunciata nel dossier. Decapitazioni in pubblico, simulazioni di crocifissioni, minacce, fustigazioni praticate anche solo per la colpa di fumare o di ascoltare musica: è una Sirte spettrale quella che si trova nelle 41 pagine, così come nella testimonianza dei suoi abitanti. Ad esempio, quella di Ahlam, 30 anni, che racconta: "Qui la vita è insostenibile. Uccidono innocenti, e poi non ci sono né ospedali né dottori, tantomeno medicine. Ci sono spie in ogni angolo della strada. Molti sono scappati, ma altri sono intrappolati. E non abbiamo soldi per fuggire". La trappola. La presa di Sirte da parte dell’Is comincia a febbraio di un anno fa, mentre nell’agosto 2015 i miliziani assumono il controllo della città portuale: ne controllano le infrastrutture chiave - porto, basi aeree - così come i posti chiave politici ed economici, predispongoni le prigioni, impongono il proprio sistema educativo vietando lo studio del diritto e della storia e interrogando invece gli studenti sulla legge islamica. Sirte diventa così la roccaforte del gruppo estremista fuori da Siria e Iraq: i civili che non riescono a fuggire, descrivono uno scenario inquietante. Case distrutte, punizioni, esecuzioni, oltre a un severo controllo dei beni essenziali come il cibo, le medicine, il carburante. "Se gli attori internazionali non puniscono questi crimini - è la conclusione dello Human Rights Watch - il rischio è che ancora più civili rimangano vittime" della trappola dell’Is. ROCCO SOLARI 25/5/2016 Il tour era diviso in quattro tappe: Tripoli-al Khums (120 km), al-Khums-Misurata (100 km), Misurata-Zlinten (95 km), Zlinten-Tripoli (125 km). Dal primo al 4 maggio, ciclisti di club di tutta la Libia - Tripoli, Bengasi, Zwara, Zawiyya, Gheriane… - hanno partecipato ad al-Muttaheda Cycling Tour, in arabo il Tour dell’Unità. Il fascicolo patinato della gara è ancora sui tavoli polverosi del comune di Misurata, tra le città protagoniste della competizione. Racconta un’altra Libia, non quella della frammentazione militare, della spaccatura geografica e politica tra Tripoli, all’Ovest, e Tobruk, all’Est. La città, simbolo della potenza d’armi del Paese, sta nel mezzo, lungo la costa, spartiacque di un conflitto all’interno del quale si inseriscono invadenti e pervasive bolle di combattenti dello Stato islamico. SOTTO ASSEDIO Misurata è il fronte più avanzato di una guerra destinata a definire gli equilibri del Paese, e che si combatte a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste. È una città in stato d’emergenza, anche se non lo fa vedere. «È una guerra globale, non è soltanto per noi», ci dice il generale Mohammed al-Gharsi, che sabato ha annunciato la formazione di un «Comando unificato» per la lotta allo Stato islamico nella regione tra Sirte e Misurata. Seduto in quello che è il quartier generale amministrativo di questo nuovo strumento del Consiglio presidenziale del premier di Tripoli, Fayez al-Sarraj - è da lui che i militari ricevono gli ordini - non nasconde di «temere» che, come accaduto nei giorni scorsi a Est di Misurata, lo Stato islamico possa «mettere mine dietro le nostre linee, circondandoci», o fare attacchi con autobomba in città. Isis giovedì ha conquistato il villaggio di Abu Grein, 120 km a Est di Misurata. «Inshallah», se Dio vuole, risponde quando gli si chiede se i misuratini siano abbastanza forti da affrontare Isis da soli: «Ci sono due vie: o Daesh entra a Misurata, o Misurata entra a Sirte», la roccaforte dello Stato islamico che il generale chiama con il suo acronimo arabo. Il coordinamento con Sarraj e i suoi uomini è continuo, e non mancano le comunicazioni «con i partner internazionali», dice. POSTI DI BLOCCO E MITRA In città, ci sono posti di blocco mobili, soprattutto la notte, racconta il giovane colonnello Mohammed Abu Dabbous, tra i portavoce del Comando. La mobilitazione è discreta, a parte per i pick-up su cui sono montate le mitragliatrici. La via per il fronte è bloccata ai civili. La paura per Misurata, che porta ancora evidenti nei palazzi crivellati di colpi i segni dell’assedio delle forze gheddafiane nel 2011, non manca, ammette Dabbous, che sull’avambraccio ha il simbolo dello Stato maggiore dell’esercito libico. Un altro esercito, quello legato a Tripoli, e non all’Est di Tobruk, dove altre truppe guidate dal generale Khalifa Haftar e sostenute da Emirati ed Egitto utilizzano lo stesso aggettivo, «libico». E minacciano di muovere su Sirte. La corsa contro Isis - mossa che potrebbe dare a qualsiasi vincitore un potere negoziale maggiore in casa e all’estero - spacca una nazione già frammentata. Haftar, fermo 400 km a Sud di Sirte, è stato accusato dalle Guardie petrolifere di Ibrahim Jadhran, nella Cirenaica, di puntare non agli estremisti ma ai pozzi di petrolio e ieri ha rifiutato un incontro «chiesto» dall’inviato Onu Martin Kobler. Il comando unificato non è affare soltanto di Misurata. Il suo leader, il generale Bashir al-Qadi, un omone di poche parole, è della città. Il numero due, Salam Jaha, è uomo di Bengasi trapiantato a Misurata. Il numero tre è di Khums, a pochi chilometri dalla città; il numero tre di Zlintan, sulla strada per Tripoli; il numero quattro di Jufra, nel Sud. È questo ufficiale ad assistere il fronte. «Non siamo ancora pronti ad attaccare», dice il generale al-Gharsi, benché le sue truppe soltanto pochi giorni fa abbiano subito uno scacco importante da parte dello Stato islamico, con la perdita di Abu Grein e altri sei villaggi della zona, così vicini alle porte della città: «Ci prepariamo perché questo è un nemico feroce». Ed è mobile. DENTRO LE CARCERI La base dell’Accademia dell’Aviazione di Misurata si estende su 90 ettari, dove tra gli eucalipti sorgono brutte palazzine scrostate, di quell’architettura libica che il regime di Gheddafi ha sparpagliato nel Paese tra gli Anni 70 e 80. Per entrare nella prigione dell’Accademia, dove sono detenuti alcuni sospetti membri dello Stato islamico, si attraversano due cancelli di metallo, le mura spesse color della sabbia sono interrotte da 16 torrette di guardia. Spiega il capitano della polizia Kamal Zubi, un 24enne a capo della direzione del carcere, che nei mesi scorsi sono stati arrestati libici e stranieri - siriani, sudanesi, tunisini… - sospettati di appartenere a Isis: alcuni in città, altri al fronte, altri in arrivo dal mare. La maggior parte sono spediti alla prigione di un altro aeroporto, quello di Mitiga, a Tripoli, attaccata pochi mesi fa proprio da un commando degli estremisti, intenzionati a liberare i propri compagni d’armi. Tra le basse palazzine quadrate, alcuni detenuti in tuta azzurra pregano in un container-moschea. Non quelli sospettati o accusati d’essere dello Stato islamico: loro sono rinchiusi in un’ala speciale, dietro pesanti porte di metallo grigio.