Silvia Nucini, Vanity Fair 27/7/2016, 27 luglio 2016
VI AUGURO L’ONESTÀ – [Intervista a Daniele Silvestri] – In principio fu E la chiamano estate, poi venne Azzurro e poi, con un salto temporale e non solo, Rapput (la Grecia, Giovanna, gli scampoli d’assenza)
VI AUGURO L’ONESTÀ – [Intervista a Daniele Silvestri] – In principio fu E la chiamano estate, poi venne Azzurro e poi, con un salto temporale e non solo, Rapput (la Grecia, Giovanna, gli scampoli d’assenza). Ora il nuovo capitolo della saga dell’uomo solo nella città assolata e vuota l’ha scritto Daniele Silvestri con Pochi giorni, canzone che, come quelle che l’hanno preceduta, è già tormentone. «Forse perché è una questione che tocca tutti i maschi innamorati, dai 13 anni in poi. Quando si è soli, il tempo diventa un momento lunghissimo, si perde l’equilibrio». Non a caso l’album di Pochi giorni si chiama Acrobati, settanta minuti di musica che Silvestri sta portando in tour in tutta Italia. Tra una data e l’altra torna a Fregene dove vive da molti anni, prima con Simona Cavallari e i loro figli Pablo e Santiago, ora con Lisa Lelli e Oliver, due anni, un biondino in pannolino che ha giustamente colonizzato mezzo soggiorno coi suoi giochi. La solitudine del maschio estivo non sembra essere un suo problema. «Non lo è mai stato. I miei genitori mi hanno dato in dote una grande fortuna: quella di stare bene anche solo con me stesso, un equilibrio che ha bisogno di poco e niente per funzionare». Altri doni avuti in eredità? «Da mia madre l’amore per le note: cantava jazz prima che io nascessi. Lo faceva a livello amatoriale, ma accanto a grandi musicisti come Pupi Avati, Lucio Dalla, Franco Cerri. Da mio padre il piacere di giocare con le parole: ci parlavamo in rima, inventavamo filastrocche. L’amore per le parole erano anche i ventimila libri che aveva in studio. Il suo studio era anche la mia stanza e ogni sera, prima di addormentarmi, leggevo i titoli e immaginavo le storie che c’erano dentro». Quindi, a un certo punto ha messo tutto insieme. «Sì, ma ho capito tardi che poteva essere un vero lavoro. Non ho mai pensato di poter stare solo su un palcoscenico e ancora adesso, quando posso fare il musicista e non il frontman, come è accaduto a tratti durante il tour coi miei colleghi capelloni – Niccolò Fabi e Max Gazzè –, mi godo il concerto in un modo speciale». Usa le parole solo in musica? «Ho i cassetti pieni di racconti, abbozzi di romanzi, qualcosa di buono forse c’è, ma me ne occuperò dopo l’uscita del prossimo disco, che è già praticamente pronto. Le canzoni che non ho messo in Acrobati urlano da qualche parte: facci uscire!». Chi sono gli acrobati del suo disco? «Tutti noi. Viviamo un mondo che non ci dà le istruzioni per stare in equilibrio, ci costringe a fare i funamboli. Perché ora tutto si esaurisce nel presente: dalla tecnologia in cui tutto è fruizione immediata alle istituzioni dove mancano i discorsi di grande respiro. Ognuno di noi ha smesso di ragionare sul futuro, di sentirsi parte di un progetto. E se non ti senti parte di un progetto sei meno disposto a fare sacrifici per la collettività». Ha nostalgia del passato? «Sto invecchiando, è normale. Mi sembra che ci sia stato un tempo in cui esisteva un’idea di società, buona o cattiva che fosse». Anche ai tempi di Berlusconi? Lei, a un concertone del Primo Maggio, cantò Il mio nemico mostrando una maglietta con la sua faccia. «Sì, e poi me ne sono dispiaciuto, perché quello non era un mio concerto, ma uno spazio per tanti e in diretta Tv, e io ho sentito di aver commesso un’appropriazione indebita. Però no, certo non penso che a quei tempi ci fosse un’idea di società, la disgregazione era già iniziata prima». Il Movimento 5 Stelle offre un’alternativa? «Io sono felice che sia nato questo movimento, chi lo liquida come “antipolitica” è vigliacco, però la loro idea di democrazia partecipativa si porta dietro mille tranelli. Forse le grandi decisioni non vanno prese con la pancia, ma con la testa ed è per questo che, messi al confronto coi fatti, la maggior parte delle volte falliscono». Lei ha tre figli, Pablo, Santiago e Oliver. Volevo farle una domanda sul loro futuro ma ne ho una più urgente: li sceglie lei questi nomi strani? «Premesso che hanno avuto i loro nomi solo dopo essere nati, perché bisognava vedere se gli stavano bene, no, non è colpa mia, sono tutte un po’ coincidenze. Oliver si chiamava Mattia di primo nome, un nome normale, ma è rimasto Mattia solo per una settimana». Che mondo si augura per loro? «Mi vengono in mente solo cose del tempo che ho vissuto io, sarà successo anche a mio padre, e al padre di mio padre. Ma l’augurio che gli faccio è di vivere essendo capaci dell’onestà. Onestà è una parola grossissima in cui ci sta dentro tutto: i rapporti, come lavori, il tuo impegno per gli altri. Più invecchio e il presente diventa per me poco interpretabile, più mi rendo conto che quello che posso fare, anche come artista, è di ricordare il passato e immaginare il futuro. Mettendoci un po’ di poesia dentro». Com’è stato tornare a essere papà dopo tanti anni? «Non ti ricordi di un sacco di cose, ma le ossa te le sei già fatte. Ogni figlio ti emoziona come se fosse la prima volta». Silvia Nucini, Vanity Fair 27/7/2016