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 2016  luglio 27 Mercoledì calendario

E IL SENATORE MI HA DETTO: «ALEX, FACCIAMOCI UN SELFIE»

Cleveland, 21 luglio
Il West Side è dei bianchi e l’East Side dei neri: è una città profondamente divisa, come tutta l’America. Obama ha provato a cambiare le cose, ma ha trovato troppe resistenze. D’altra parte questo è un Paese nato e cresciuto sulla schiavitù, non sull’uguaglianza».
Bentornati alla realtà. Nel tragitto di ritorno all’hotel, le parole che mi rivolge Jackie – distinto sessantenne di colore che la sera arrotonda facendo l’autista Uber sulla sua Lexus – valgono più di mille analisi sul discorso con cui Donald Trump ha appena accettato, nella Quicken Loans Arena, i galloni di candidato repubblicano. Perché, ben più degli slogan ascoltati in una Convention Repubblicana mai così povera di contenuti politici, spiegano questa America, anzi queste Americhe.
Dimenticate le manifestazioni oceaniche di un tempo. Cleveland – tranquilla cittadina dell’Ohio svuotata della sua identità, trasformata per quattro giorni in un «nonluogo» – è il paradigma della mutazione che, nell’era dei social media, scava un solco sempre più profondo tra apparenza e sostanza. Un tempo, con meno spazio e più tempo a disposizione, i giornalisti selezionavano, e a malapena si sarebbero occupati del nulla che è successo qui. Ma ormai tutto è «twitterizzato», premasticato per riempire all’istante un articolo, una foto, un servizio televisivo. Se ciascuno di noi è potenzialmente un media, le masse non servono più. Bastano gruppi minuscoli di manifestanti, due cartelli scritti a mano con un pennarello: gli operatori dell’informazione calati sulla città – 20 mila – sono pronti a dare a chiunque i suoi 15 minuti di celebrità. E Donald Trump ha vinto cavalcando appunto questo processo di «twitterizzazione»: comunicando non con proposte concrete ma su semplici (e spesso banali) slogan. Dietro al tweet niente.
Solo in un contesto come questo un italiano come il sottoscritto Alessandro Nardone avrebbe potuto tenere in piedi per diversi mesi – con il «nome d’arte» Alex Anderson – una campagna da candidato «fake» alla nomination repubblicana, senza suscitare sospetti né tra le mie decine di migliaia di follower su Twitter né tra gli addetti ai lavori, che continuavano a chiedermi interviste e a invitarmi alle loro trasmissioni. Anzi, la mia strategia di comunicazione orizzontale – rispondere di persona a ogni messaggio, all’opposto di tutti gli altri che demandano la gestione dei profili social a team nutriti e ben pagati – mi faceva percepire più reale dei candidati veri.
Solo a marzo, in corrispondenza del Super Tuesday, ho fatto coming out sulla Bbc, e la notizia del finto candidato è finita sui media di mezzo mondo. Ma a catapultare per la prima volta Alex Anderson nel mondo delle interazioni in carne e ossa è stato Vanity Fair, che mi ha mandato qui, a Cleveland, a scrivere il reportage che state leggendo.
Ma ricominciamo dall’inizio.
17 luglio
Atterrato, mi concedo poche ore di riposo. Poi subito infilo la T-shirt di Alex e raggiungo la zona della Quicken Loans Arena, dove tutto è pronto per la Convention dell’indomani. Seduto sulla gradinata della Public Square guardo il sole sorgere dietro al Cuyahoga County Soldiers’ and Sailors’ Monument. Sorpresa: un gruppo di delegati mi riconosce, mi ferma e chiede un selfie di gruppo. Il primo di una lunga serie di selfie, con giovani militanti, ma anche con Rappresentanti del Congresso e Senatori. Politici veri che vogliono farsi una foto con il candidato fake.
Intorno all’Arena sta prendendo forma un mercato le cui bancarelle vendono ogni sorta di gadget legato a Trump: magliette, cappelli, spille, pupazzi con la testa ondeggiante, confezioni di corn flakes, persino preservativi di celodurista memoria. Capannelli di gente, un numero impressionante di agenti di polizia a presidiare la zona. Tutti hanno impresse negli occhi le immagini dei tragici attentati in Europa, e poi qui si attendono contestazioni feroci delle opposte fazioni, per di più libere di manifestare armate.
18 luglio
Galen, il cameraman, mi viene a prendere. C’è molta tensione nell’aria. Ovunque poliziotti: a piedi, a cavallo, sulle mountain bike appositamente acquistate dall’amministrazione locale. Si parla di 5.500 agenti, di cui 3 mila federali e 2 mila «importati» da altri Stati.
Sgomitando nella folla – dove abbondano i giornalisti – raggiungiamo la testa di un corteo del movimento Black Lives Matter: «I bianchi ci ammazzano come cani e nessuno fa nulla», urla un ragazzo nel mio microfono.
Poco lontano sfila una decina di Pro-Guns, con kalashnikov in spalla, caricatori e giubbotti antiproiettile. Uno di loro porta tatuata sull’avambraccio la scritta «We the People» (noi il popolo), prime tre parole del Preambolo della Costituzione Americana di cui fa parte anche il Secondo Emendamento, quello che garantisce il diritto di possedere armi che, assieme all’odio per le tasse e per l’invasività del governo, rappresenta il paradigma repubblicano per antonomasia. «Se la Cina avesse avuto il Secondo Emendamento, il regime comunista non avrebbe mai preso il potere», mi dice convinto uno di loro. «Le armi, oltre che servire alla difesa personale, sono una garanzia democratica».
19-20-21 luglio
A Convention iniziata, le proteste diventano ogni giorno meno rumorose, anche grazie al saggio atteggiamento della polizia, che controlla e contiene senza mai lasciarsi andare al nervosismo.
La rete televisiva Cbs e il prestigioso mensile di politica The
Atlantic mi invitano ai loro dibattiti di approfondimento tra giornalisti ed esponenti del partito. A Chris Wilson, responsabile della campagna dell’ex favorito Ted Cruz, chiedo se gli altri ex rivali alla nomination – Romney, McCain, Bush, Rubio – non abbiano sbagliato a disertare la Convention, lasciando spazio a un Trump sempre più «berlusconizzato» nella sua campagna di personalizzazione del partito. «Il paragone con Berlusconi è azzeccatissimo. E certo, loro hanno sbagliato. Invece di starsene a casa, sarebbero dovuti venire qui a contestarlo».
Divisi non solo il Paese e la città, ma anche un partito che, pur di autoconvincersi della bontà di una candidatura, tira fuori il paragone con Reagan. Paragone zoppo, perché Ronald fondò la propria vittoria sull’ottimismo. Invece sono le paure, agitate come fantasmi, ad aver dato la nomination a Donald Trump, pronto a fare della Casa Bianca il set del suo nuovo, personalissimo reality show. God Bless America.
Alex Anderson (Alessandro Nardone), Vanity Fair 27/7/2016