Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  luglio 29 Venerdì calendario

ALLENARE CAMPIONI

Quando la nazionale maschile statunitense di basket scenderà in campo, il 6 agosto, ai giochi olimpici di Rio de Janeiro, il suo asso nella manica sarà un veterano ingrigito con al suo attivo una sfilza di vittorie senza pari: l’allenatore, Mike Krzyzewsky, che ha già condotto la squadra degli Stati Uniti alla medaglia d’oro nel 2008 e nel 2012. Delle 76 partite giocate sotto gli occhi vigili di «Coach K» la nazionale degli Stati Uniti ne ha vinte 75. Nei suoi 36 anni da direttore tecnico dei Blue Devii della Duke University, ha ottenuto più vittorie – oltre 1040 – di qualunque altro allenatore di basket della prima divisione in tutta la storia della National Collegiate Athletic Association. Ed è al secondo posto di sempre per i campionati nazionali, con cinque vittorie.
Che ci vuole, a parte una grande resistenza, per mettere insieme una simile messe di risultati? Gli psicologi dello sport esaminano da tempo la questione. Molti studi si sono concentrati su che cosa significhi essere un grande leader, ma anche se in materia c’è un industria editoriale e un circuito formativo da parecchi milioni di dollari all’anno il concetto di leadership rimane, secondo molti psicologi, ancora nebuloso. «Adesso ci è chiaro che non c’è nessun insieme fisso di caratteristiche che si ritrovi in tutti i grandi leader», spiega Daniel R. Gould, docente di psicologia dello sport applicata alla Michigan State University. Ciò che sembra contare di più, invece, è il tipo di rapporto che il coach costruisce con i suoi atleti, e la capacità di incoraggiarne l’autonomia e alimentarne le motivazioni.
Il coach K. non avrebbe nulla da ridire. Attribuisce il suo successo, almeno in parte, a un’illuminazione che ebbe osservando la sua famiglia a pranzo. Tanti anni fa restò colpito dal modo in cui sua moglie Mickie e le sue figlie si rapportavano l’una con l’altra: come ognuna di loro mostrava interesse per la giornata delle altre, la sintonia di ciascuna con i sentimenti dell’altra, e degli altri. Per gradi, Krzyzewsky ha sviluppato una filosofia e uno stile, come allenatore, basato sul rafforzamento dei suoi rapporti con i giocatori e sull’ascolto.
Malgrado la classica tradizione dell’allenatore come sergente maggiore, lo stile basato su severità e disciplina sta gradualmente cedendo il passo a un approccio psicologicamente più ricco e sottile, sostenuto da una grande mole di ricerche. Questo non vuol dire che non ci sia più posto per la buona vecchia sfuriata da spogliatoio, con tanto di grida e turpiloquio; ma i coach che lavorano a livello professionistico e olimpico sanno che funziona meglio attingere alle dinamiche psicologiche delle interazioni sociali, sia che lavorino per una squadra sia che seguano atleti di sport individuali.
Le basi del bravo allenatore
Un buon coach è, prima di tutto, un esperto di motivazione, un aspetto che gli psicologi studiano da decenni. Le fondamenta risalgono al 1985, quando Edward L. Deci e Richard M. Ryan, entrambi all’Università di Rochester, pubblicarono un classico lavoro in cui esponevano quella che chiamarono la teoria dell’autodeterminazione, un modello psicologico secondo il quale gran parte del nostro comportamento è guidata da motivazioni interiori e non da spinte esterne. Sulla base di ricerche proprie e altrui, gli autori identificavano tre requisiti – competenza, relazione e autonomia – che portano all’autodeterminazione e sono essenziali per il benessere psicologico. Le loro idee sono oggi accettate quasi come un dogma e sono state in larga parte adottate dagli psicologi sportivi: molti di loro ritengono che indirizzare il proprio lavoro in queste tre direzioni sia la chiave per essere un bravo coach.
La competenza è l’obiettivo più ovvio dell’allenamento di un atleta: chiaramente, per vincere è necessario dedicarsi al proprio sport fino a padroneggiarlo. Recenti ricerche mostrano che quando allenatori e insegnanti aiutano atleti e studenti ad accrescere le proprie competenze, questi ultimi progrediscono anche in altri aspetti dei propri atteggiamenti mentali. Far crescere la competenza alimenta le motivazioni e migliora la condizione mentale, concludeva uno studio del 2007 dello psicologo Roch Chouinard e dei suoi colleghi all’Università di Montreal, che riferivano come gli studenti impegnati a padroneggiare un particolare campo della matematica – una disposizione mentale che può essere incoraggiata dai docenti – si impegnavano nell’apprendimento significativamente di più. Un lavoro pubblicato da un gruppo spagnolo nel 2015 su «Journal of Human Kinetics» ha trovato che la percezione degli atleti su quanto il proprio coach li ritiene bravi è più importante, per la loro immagine di sé, di quanto si ritengano competenti essi stessi.
«La capacità di far acquisire maggior abilità ai suoi atleti e di dar loro informazioni nuove o utili è un aspetto davvero importante del lavoro di un coach», dice Sean McCann, un esperto psicologo dello sport del Comitato olimpico nazionale degli Stati Uniti. Gli atleti, in altre parole, desiderano sentire che la propria competenza migliora costantemente grazie all’esperienza e alle capacità dell’allenatore. «L’ho visto anche a livello della nazionale: se l’atleta non ha la sensazione di imparare qualcosa dal coach, la relazione tra lui e il coach non funziona».
Quel che conta è il rapporto
Ci vuole qualcosa di più della competenza tecnica, però, per coltivare la relazione. Jonathan Fader, psicologo dello sport, è un maestro. Se uno lo va a trovare nel suo studio di Manhattan, lui ascolta con attenzione quel che ha da dire, risponde dopo aver riflettuto e riconosce il suo valore: ma non prima di averlo invitato entusiasticamente a fare una partita a ping pong sul tavolo allungabile che ha in studio, da cui appare uno scomparto per racchette e palline. Tagliente come una lama, irriverente e carismatico, Fader incarna proprio la voglia e la facilità di stabilire rapporti che raccomanda nel suo lavoro con i migliori atleti e allenatori.
Una lunga linea di ricerca, in ambito psicologico, evoluzionistico e antropologico, appoggia l’enfasi di Fader sull’importanza delle relazioni, e mostra che il desiderio di stringere rapporti significativi influisce fortemente sulle nostre motivazioni. Un lavoro degli anni settanta degli psicologi Rosemarie Anderson, Sam Manoogian e J. Steven Reznick ha trovato che i bambini cui si dà un compito interessante in presenza di un adulto che si disinteressa di loro presentano motivazioni interiori assai più deboli di quando sono in presenza di un adulto che dà loro retta: il buon vecchio «Guarda, mamma!», in versione un po’ più accademica e rigorosa.
Analogamente, nel 1986 Ryan e la psicologa Wendy S. Grolnick, oggi alla Clark University, hanno pubblicato uno studio che mostra come gli studenti che percepiscono i propri insegnanti come freddi e poco coinvolti sono significativamente meno motivati dei loro coetanei verso l’apprendimento e l’esplorazione.
Più di recente, le ricerche dedicate all’allenamento sportivo hanno rivelato dinamiche simili. Uno studio di Tucker Readdy, psicologo sportivo dell’Università del Wyoming, pubblicato quest’anno in «Research Quarterly for Exercise and Sport», si è avvalso di semplici interviste periodiche per valutare le influenze motivazionali in un ridotto campione di cheerleader. A quanto ne risulta, competenza e qualità delle relazioni con compagne di squadra e coach agiscono sinergicamente nel potenziare le motivazioni.
«Il lavoro dell’allenatore consiste in gran parte nello sviluppo dei rapporti e nel potenziamento delle motivazioni intrinseche», dice Fader. «Sappiamo che le persone che forniscono informazioni in modo interattivo e basato su una relazione hanno i maggiori successi. Se riesco a passarti le informazioni in un modo che ti consente di partecipare al processo – per esempio con domande socratiche, o tirandoti fuori ciò che hai dentro, invece di dirti semplicemente che cosa devi fare – probabilmente poi tu sarai più efficace».
Eppure, ritiene Fader, un sorprendente numero di allenatori non ci arriva. «Tendo a vedere soprattutto gente che urla, quando lavoro nello sport universitario», dice. «Probabilmente se fai il coach in questo modo nelle serie maggiori non ci resti a lungo. Se sei arrivato a livello professionistico e non hai ancora capito che è importante costruire rapporti e concentrarsi sugli aspetti positivi, di possibilità di successo ne hai molte ma molte di meno».
McCann concorda: «Curare la relazione è davvero essenziale se atleta e coach devono avere a che fare l’uno con l’altro per più di un paio d’anni. Un certo livello di genuino rispetto reciproco è necessario».
Entrambi gli psicologi sottolineano che del saper costruire relazioni fa parte il concentrarsi sugli aspetti positivi; McCann cita i lavori degli anni novanta di Ronald Smith e Frank Smoll, psicologi dell’Università di Washington. I loro risultati confermano il cosiddetto metodo «a sandwich», in cui si inserisce una critica costruttiva fra due lodi. «Se un ragazzino nel baseball sbaglia una presa gli puoi dire: “Bravo, sei andato a prenderti la palla; però ricordati, sempre l’occhio sulla
palla. Comunque mi sei piaciuto, bello scatto”», spiega, notando che questo approccio «migliora le motivazioni e lo sviluppo delle abilità specifiche, e riduce l’ansia».
Anche Fader dice che questo approccio riduce la vergogna e l’imbarazzo che possono derivare da critiche eccessivamente aspre. «Se vado a parlare con un quarterback o con un lanciatore e parto subito con ciò che deve cambiare, non può funzionare», avverte. «Un bravo coach parte dicendo qualcosa di positivo. La gente ha bisogno di sentire che stai dalla sua parte, prima di accettare quello che hai da dire».
Autorità o autonomia?
L’ultima componente della teoria dell’autodeterminazione – ossia l’autonomia – è forse la più studiata, almeno per quel che riguarda la valutazione delle differenze tra i vari stili di allenamento. Negli anni sessanta lo psicologo statunitense Richard DeCharms ha introdotto l’idea che la competenza, da sola, non basta a far crescere la motivazione interiore, e che debba invece essere unita alla percezione della propria autonomia. L’idea è stata poi ripresa in un gran numero di ricerche che mettono a confronto ambienti caratterizzati da «sostegno all’autonomia» – in cui le persone, o i giocatori, percepiscono di avere un certo controllo sulle proprie decisioni e i propri comportamenti – con approcci più «centrati sul controllo» in cui le persone da allenare si limitano a eseguire gli ordini.
Buona parte dei primi lavori sull’argomento riguardavano l’apprendimento negli studenti. Vari studi pubblicati negli anni ottanta, fra cui alcuni condotti dai promotori stessi della teoria dell’autodeterminazione, Deci e Ryan, hanno mostrato che le motivazioni interiori e la curiosità intellettuale degli studenti sono più forti quando gli insegnanti appoggiano i loro sforzi autonomi. Quelli tenuti dai docenti sotto controllo più stretto, invece, perdono iniziativa e non imparano altrettanto bene. Questo lavoro ha mostrato anche che i bambini di genitori che li controllano molto strettamente hanno meno probabilità di esplorare nuove abilità e di cercare autonomamente di impadronirsene.
La filosofia di «supporto all’autonomia» risulta in genere migliore anche nell’allenamento degli atleti. Una rassegna del 2003 di Geneviève A. Mageau e Robert J. Vallerand, entrambi allora all’Università del Québec a Montreal, pubblicata su «Journal of Sports Sciences», ha osservato l’impatto sulle prestazioni atletiche di vari comportamenti di incoraggiamento allo sviluppo dell’autonomia da parte dei coach, come riconoscere il punto di vista dei giocatori, evitare forme di controllo eccessive e dare agli atleti possibilità di scelta e di iniziativa indipendente. Queste qualità risultavano associate con più forti motivazioni interiori nei giocatori, rilevate mediante l’osservazione del loro comportamento e i loro stessi resoconti; e dunque con maggiori probabilità di successo sul campo.
Uno studio pubblicato nel 2015 da Lindsay E. Kipp, docente alla Texas State University, in «Sport, Exercise, and Performance Psychology» ha valutato il benessere mentale di 174 ginnaste adolescenti con questionari sui tre aspetti della teoria dell’autodeterminazione, trovando che un ambiente orientato all’autonomia faceva prevedere una maggiore percezione della propria competenza da parte delle atlete. Inoltre la più alta competenza percepita era associata a maggiore autostima e minore frequenza di sintomi di disturbi dell’alimentazione, cui le giovani ginnaste sono particolarmente vulnerabili.
Dal 2012 al 2013 Ken Hodge, professore di psicologia dello sport e dell’allenamento all’Università di Otago, in Nuova Zelanda, ha lavorato accanto agli All Blacks, campioni del mondo di rugby nel 2011, per studiare l’efficacia di diverse strategie di coaching. Ha osservato che un ambiente improntato al controllo può in qualche caso migliorare le prestazioni a breve termine, e contribuire a far vincere una partita ogni tanto. Però la sua conclusione è che lo stile autoritario – e le manipolazioni, il senso di vergogna e la trasmissione di osservazioni negative ai giocatori che spesso lo accompagnano – può da ultimo rendere più difficile vincere, e danneggiare i giocatori.
«Le mie ricerche mostrano che a lungo termine adottare uno stile di direzione che promuove l’autonomia degli atleti non compromette la vittoria e le prestazioni e dà maggiori benefici in termini di sviluppo personale dei giocatori», dice Hodge, paragonando questo stile a quello del suo preferito tra i coach più quotati: Pete Carroll, dei Seattle Seahawks. Quest’ultimo, risultato il più popolare dei coach della National Football League in un sondaggio condotto tra i giocatori nel 2014, ha condotto la sua squadra alla vittoria del Super Bowl nel 2014 e alla finale anche l’anno dopo; ed è noto nell’ambiente per essere insolitamente disponibile verso le opinioni e la personalità dei singoli giocatori. È a favore della musica ad alto volume negli spogliatoi, e le sue riunioni di squadra spesso comprendono anche una partitella di basket. Quando riesamina le registrazioni video delle partite con i giocatori, Carroll tende a concentrarsi sulle vittorie, non sulle sconfitte. «A me pare proprio uno stile di direzione orientato al supporto dell’autonomia», dice Hodge.
Un nuovo corso
Intenzionalmente o meno, molti coach di successo adottano qualche aspetto della teoria dell’autodeterminazione. Man mano che continuano ad accumularsi le prove a sostegno di questa filosofia – e a discredito degli approcci autoritari – è probabile che il loro numero crescerà.
«Penso che questa teoria abbia dato davvero un grosso contributo alla psicologia dello sport», dice Gould, della Michigan State University. «Io cerco di far sì che i coach riescano a trovare le proprie specifiche modalità con cui curare autonomia, competenza e relazione con l’atleta. Nella mia esperienza, i grandi leader sono capaci di costruire relazioni forti tra coach e atleta, e questa è la chiave dell’efficacia della leadership».
Tutto questo ovviamente non significa che i coach devono rammollirsi. Ognuno di loro deve trovare il suo approccio, dice Gould, e adattarlo alla rosa degli atleti a sua disposizione. Alle Olimpiadi di Rio vedremo senz’altro una vasta gamma di stili di leadership; compresi probabilmente comportamenti burberi e sfuriate ben calcolate. Anche «Coach K», con tutte le sue sottigliezze relazionali, ogni tanto perde la calma.