Rachel Nuwer, Mente&Cervello 8/2016, 29 luglio 2016
L’UOMO CHE NON SAPEVA PI§ LEGGERE
Una ventina d’anni fa ho incontrato due pazienti che hanno avuto un impatto decisivo nel mio interesse per i meccanismi cerebrali coinvolti nella capacità di leggere. Leggere, ovvero far nascere nella nostra mente storie, emozioni, ricordi di mondi passati, semplicemente posando gli occhi sui segni neri tratteggiati su uno sfondo bianco. Questi due pazienti, un diplomatico in pensione e un idraulico, avevano in comune un disturbo: in seguito a un ictus cerebrale non riuscivano più a leggere neanche una parola, nonostante la vista fosse rimasta intatta. Il fenomeno, seppure raro, è noto ai neurologi fin dalla nascita della disciplina nella seconda metà del XIX secolo. Risaliamo dunque alle origini di questa lunga avventura.
Un disturbo improvviso
Nel 1887, alla fine di ottobre, il signor C., ex commerciante di tessuti, cominciò ad accusare sensazioni d’intorpidimento nella parte destra del corpo. Aveva sempre goduto di ottima salute, e non se ne preoccupò. Alcuni giorni dopo sopraggiunse improvvisamente un disturbo diverso. Jules Joseph Dejerine, il neurologo che qualche anno più tardi avrebbe pubblicato la sua storia, così descriveva in breve la situazione: «Il malato si accorse bruscamente che, pur scrivendo e parlando con chiarezza e distinguendo correttamente oggetti e persone circostanti, non riusciva più a leggere una sola parola». Insomma, tutte le funzioni mentali e fisiche del signor C. erano intatte a eccezione della capacità di lettura, improvvisamente compromessa.
Proseguiva Dejerine: «Due settimane dopo la comparsa dei primi sintomi il paziente, convinto di essere afflitto da problemi di vista risolvibili con l’uso di lenti appropriate, consultò il dottor Landolt». Landolt, illustre oftalmologo, fornisce di questo curioso fenomeno una descrizione più dettagliata. Il signor C. non è in grado di nominare nessuna delle lettere che gli vengono presentate, «ma afferma di vederle perfettamente. [...] Paragona la A a un cavalletto, la Z a un serpente, la P a un anello». La vista del signor C. è acuta come sempre e Landolt capisce che non si tratta di un problema oftalmico, ovvero di un disturbo relativo agli occhi. Riconosce una sindrome rara, ma già descritta da altri medici e nota con il nome di «cecità verbale», e così semplificabile: «È cieco, ma soltanto per lettere e parole». Dal punto di vista medico significa che l’insorgenza dei sintomi rimanda al fenomeno quasi sempre improvviso dell’attacco ischemico, ovvero all’occlusione o rottura di un vaso cerebrale.
Alessia pura
Da Dejerine in poi, molti termini sono stati usati per descrivere questa situazione, che chiameremo «alessia pura» anziché «cecità verbale». I neurologi hanno inventato una quantità di nomi – generalmente formati dal prefisso «a» seguito da qualche opportuna radice greca – per designare i blocchi che possono colpire il cervello: afasia quando non funziona il linguaggio, aprassia quando è impossibile controllare i gesti, anosmia quando si perde l’olfatto, acalculia se va perduta la capacità di calcolo e così via. Sullo stesso modello, l’alessia designa una perdita parziale o totale della capacità di leggere, per via di una lesione cerebrale. Ma perché l’alessia del signor C. può essere qualificata come «pura»? Per tre buone ragioni. La prima è che tutti gli altri canali di comprensione e produzione del linguaggio sono intatti: parlare, comprendere le parole e scrivere non sono funzioni coinvolte. Il signor C. è in grado di scrivere, ma non di rileggere ciò che ha scritto.
Il secondo significato di questa «purezza» è che il paziente può riconoscere senza difficoltà ogni oggetto e ogni forma, a condizione che non si tratti di lettere e parole scritte. È chiaro che non era per la loro particolare complessità che il signor C. non riusciva a riconoscere le forme. Per lui, individuare una semplice A tra le 26 lettere dell’alfabeto sarebbe dovuto essere più facile che riconoscere un viso tra migliaia di altri volti familiari. E invece, mentre il riconoscimento dei volti era perfetto, una A non rappresentava, per lui, che una sorta di insignificante cavalletto.
Infine, l’alessia è detta pura perché si manifesta unicamente attraverso la vista. Ma la lettura, direte voi, passa per definizione attraverso la vista; come potrebbe passare per l’udito o il tatto? È semplice. Restituiamo la parola a Dejerine: «Con l’aiuto di un artificio il paziente può leggere alcune lettere, persino alcune parole. Delineando con il gesto i contorni delle lettere riesce, come già aveva constatato Landolt, a riconoscerle». Seguendo il contorno di una lettera con il dito, il signor C. fornisce al proprio cervello un’informazione sulla forma della lettera che passa attraverso il sistema del tatto, aggirando il sistema visivo che si è apparentemente bloccato. Riassumendo, il signor C. aveva perso del tutto la facoltà di leggere, ma aveva perso solo questa.
Scrivere sì, leggere no
Vediamo l’interpretazione di Dejerine della questione. Sono stati i neurologi della seconda metà del XIX secolo a fondare il nostro modo di affrontare questi temi: il modo in cui ragioniamo oggi non è lontano dal loro, anche se abbiamo dalla nostra oltre un secolo di progressi, dall’imaging cerebrale alla linguistica. Si trattava – e si tratta – d’individuare le regioni cerebrali coinvolte in una determinata attività, ma anche le funzioni svolte da queste aree, il tipo d’informazione che gestiscono, e i canali che usano per comunicare Ita loro.
Nel caso del signor C., Dejerine poteva contare su informazioni dirette riguardanti i meccanismi dell’alessia pura. Che ne fu del paziente dopo la comparsa del disturbo? Egli proseguì la propria vita, ma senza poter leggere, passatempo che era sempre stato il suo preferito. Dejerine ci racconta così la sua quotidianità: «C. trascorre le giornate facendo lunghe passeggiate con la moglie. Ama camminare, e tutti i giorni percorre a piedi il tragitto dal Boulevard Montmartre fino all’Arco di Trionfo e ritorno. Si interessa a quanto accade intorno a lui, si ferma davanti alle vetrine, ai quadri; solo i manifesti, le insegne dei negozi restano per lui lettera morta».
Quattro anni dopo, nel 1892, il signor C. non ha recuperato nessuna capacità di lettura. E viene colpito da un secondo ictus: «La sera del 5 gennaio, durante una partita a carte, lamenta formicolìi e intorpidimento alla gamba e al braccio destro, [...] difficoltà nell’articolazione delle parole. Balbetta, e si sente debole in tutta la parte destra del corpo.» Afasico ed emiplegico, muore dieci giorni dopo. Durante gli ultimi giorni di vita non solo non poteva leggere, ma neppure scrivere: all’alessia si era aggiunta un’agrafia.
Una lesione dagli effetti singolari
Dejerine, che non smise mai di seguirlo, prelevò il suo cervello per studiarlo usando le tecniche anatomiche dell’epoca. Che cosa rivelò l’autopsia del cervello del signor C.? Limitiamoci alle tracce dell’ictus del 1887 che aveva causato la famosa alessia pura. Sul disegno del cervello visto da sotto, tracciato da Dejerine, si può individuare una regione tratteggiata in nero e situata proprio dietro il prospetto inferiore dell’emisfero destro (che si trova a destra perché il cervello è visto dal basso). Più precisamente, questa cicatrice si trova sotto il lobo occipitale e temporale destri (figura a sinistra). Dejerine, forse il migliore neuroanatomista del tempo, seziona poi il cervello in strisce sottili e fornisce una descrizione minuziosa (che vi risparmiamo) delle lesioni cerebrali.
Indicativamente, la spiegazione di Dejerine riguarda due regioni del cervello: la corteccia visiva, situata nella parte posteriore del cervello, dove arrivano le informazioni provenienti dagli occhi, e una regione situata sul lato dell’emisfero destro e denominata all’epoca di Dejerine «piega curva», invisibile nel disegno del cervello dal basso. Dejerine era convinto che la famosa piega curva contenesse la nostra conoscenza della forma delle lettere. La conseguenza, nel signor C., della lesione del 1887 sarebbe stata di separare le due regioni e disconnetterle Luna dall’altra. La logica è che le lettere vengono «viste», essendo la corteccia visiva più o meno intatta, ma non «riconosciute», perché la corteccia visiva non comunica con la «piega curva» dove sono immagazzinati i ricordi delle forme delle lettere. In compenso, siccome questi ricordi sono intatti, il paziente può servirsene per tracciare le lettere, ossia per scrivere: l’alessia è pura, non vi è associato un disturbo di scrittura. Quanto al fatale incidente del 1892, distruggendo anche la piega curva cancella ogni nozione relativa alla forma delle lettere e rende il paziente agrafico, oltre che alessico.
Descrizioni esemplari
Sono passati 125 anni dalla pubblicazione dell’articolo di Dejerine, e centinaia di articoli scientifici sono stati scritti su questa sindrome e sulle sue varianti. Come aggiornare l’interpretazione che aveva proposto Dejerine? Oggi, rispetto alla fine del XIX secolo, la conoscenza dell’organizzazione della corteccia visiva è molto più ricca. In sintesi l’informazione visiva arriva (indirettamente) dagli occhi alla corteccia occipitale, da dove viene distribuita in decine di regioni situate tutte nella parte posteriore del cervello, che assicurano ognuna un aspetto particolare della visione: un’area presiede al colore degli oggetti che ci circondano, un’altra al movimento o al contorno, un’altra alla posizione e così via.
Altre zone sono specializzate nell’identificazione di oggetti appartenenti a categorie particolari. Una regione permette d’identificare i volti, un’altra le case e altri luoghi, un’altra ancora le mani, le gambe e altre parti del corpo, e una permette d’identificare le lettere scritte. Queste regioni formano una sorta di mosaico situato sotto i lobi occipitali e temporali. Ma non si tratta di una vista della mente. Non è difficile sottoporre un soggetto sano a risonanza magnetica per immagini e presentargli sullo schermo immagini di volti, case, parole scritte, misurando la sua attività cerebrale mentre le osserva. È possibile così individuare l’attivazione di queste zone specializzate, posizionate esattamente nello stesso punto in ciascuno di noi.
Quando questo mosaico subisce una lesione, ne conseguono disturbi visivi molto vari, dalla acromatopsia o perdita della visione dei colori, all’achinetopsia o incapacità di vedere gli oggetti in movimento, fino alla prosopagnosia o incapacità di riconoscere i volti, e fino alla alessia pura. In effetti, se la parte occipito-temporale del mosaico preposta al riconoscimento delle lettere viene distrutta o disconnessa dal resto del cervello, ne risulta esattamente ciò di cui soffriva il signor C., una perdita selettiva della lettura, mentre tutte le altre funzioni visive possono rimanere intatte. L’interpretazione di Dejerine non è quindi sopravvissuta alla prova del tempo, anche se le descrizioni cliniche e anatomiche restano esemplari. Contrariamente a ciò che lui pensava, la conoscenza della forma delle lettere non è circoscritta alla piega curva, ma risiede in una specifica area della corteccia cerebrale.