Rachel Nuwer, Mente&Cervello 8/2016, 29 luglio 2016
LA STOFFA GIUSTA
Ogni Olimpiade ci presenta un gran numero di personaggi sovrumani del calibro di Usain Bolt, Michael Phelps, Gabby Douglas; e Rio non farà eccezione. I massimi atleti dei giochi del 2016 si affronteranno in un intenso calendario di fatica e sfide. Affascineranno le folle, infrangeranno i record e, con ogni probabilità, lasceranno Rio con un impressionante bottino di medaglie d’oro.
Ma che cosa, dì preciso, distingue questi superatleti da tutti gli altri? A lungo esperti e appassionati hanno creduto che i principali responsabili di tanti risultati eccezionali siano i geni: semplicemente i migliori atleti nascono con caratteristiche fisiche speciali, che consentono loro prestazioni superiori a quelle di tutti gli altri. Nelle ultime tre edizioni delle Olimpiadi, per esempio, molti analisti hanno attribuito gli stupefacenti successi in vasca di Michael Phelps – che ha conquistato in totale 22 medaglie – ai suoi 2 metri di «apertura alare» e ai suoi piedi super flessibili taglia 48, quasi un paio di pinne.
A partire dagli anni novanta, però, ha preso piede un’altra scuola di pensiero, secondo cui le doti innate non sono di per sé sufficienti per raggiungere i massimi livelli sportivi. Per quanto si possa essere forti per natura, la vera eccellenza richiede anche determinati tratti psicologici, nonché anni di impegno e fatica, e allenatori e tecnici con grandi capacità. Gli psicologi hanno notato, per esempio, che superare grosse difficoltà emotive può dare ad alcuni giovani atleti una maggiore resilienza, e alimentarne l’eccezionale spinta a eccellere. I geni, d’altra parte, contano anche nel determinare le differenze nella risposta all’allenamento, oltre che le doti naturali di base.
La pratica deliberata
«Per molto tempo si è creduto che certe doti innate si abbiano oppure no», dice K. Anders Ericsson, psicologo della Florida State University che ha coniato il termine «pratica deliberata» per indicare un approccio che combina fissazione degli obiettivi, ripetizione delle singole abilità componenti, programmazione mentale del gesto e correzione immediata – e che oggi è considerato essenziale per gli atleti. Il suo lavoro, presentato nel volume Peak: Secrets from The New Science of Expertise, smonta il mito dei «talenti naturali» che sembrano spuntar fuori dal nulla ma che spesso, invece, vengono da qualche altro sport. «Ho sempre trovato plausibili resoconti alternativi che parlano di precedente pratica deliberata», dice Ericsson.
In verità per puntare all’oro ci vuole un enorme potenziale genetico innato, e in più solidità mentale e ottima preparazione – e anche parecchia fortuna, per sfuggire agli infortuni, trovare l’allenatore giusto e procurarsi le migliori risorse e il miglior sostegno.
Veloci, sempre più veloci
Jerry Baltes, a capo degli allenatori delle squadre di corsa di fondo e corsa campestre della Grand Valley State University, spesso dice ai nuovi arrivati: «Ti posso far andare più veloce, ma non posso farti andare veloce». In realtà, anche tra coloro che sono già veloci per conto loro la cosiddetta alienabilità varia. I livelli di condizione atletica intrinseca e di condizione atletica acquisita – quella cui si può arrivare allenandosi – si valutano in base a tratti come la forza muscolare e la capacità cardiorespiratoria, a sua volta misurata dal volume di ossigeno consumato dal corpo in un minuto. L’una e l’altra possono variare molto da una persona all’altra. Per esempio un giovane atleta olimpionico può avere un consumo massimo di ossigeno pari al triplo di quello di una persona anziana, e al doppio di quello di una persona della sua stessa età ma in cattiva forma.
Per alcuni è difficile superare certi livelli di forma acquisita, a prescindere da quanto si allenano; e in questo caso, anzi, «spingere» troppo può condurre al sovrallenamento anziché a migliorarsi. Quando Nir Eynon, studioso di scienze motorie dello Sport, Excercise and Active Living Institute (ISAEL) della Victoria University, in Australia, ha sottoposto con i suoi colleghi alcune persone sedentarie agli stessi programmi di esercizi attentamente controllati, ha notato che qualcuno non ne traeva quasi alcun beneficio, mentre per altri la capacità cardiorespiratoria cresceva del 50-80 per cento. «Se due persone partono dallo stesso livello e fanno gli stessi allenamenti, seguendo la stessa dieta, guadagneranno capacità aerobica o massa muscolare o qualunque altra cosa in misura molto diversa», dice Eynon.
Gli atleti di punta fanno probabilmente parte di un sottogruppo di persone che trae il massimo beneficio dall’allenamento, partendo da una condizione fisica di base di alto livello. Nel 1998 il genetista Claude Bouchard, del Pennington Biomedical Research Center del sistema delle università statali della Louisiana, e i suoi colleghi, hanno trovato che i livelli di fitness, sia intrinseca sia acquisita, tendono ad aggregarsi a livello familiare. I ricercatori hanno esaminato 99 famiglie, e fra di esse l’ereditabilità rendeva conto, tra le altre cose, del 50 per cento del cambiamento nel massimo consumo di ossigeno. Bouchard però non ha trovato alcuna correlazione tra condizione fisica innata e alienabilità.
Tutto parte, ovviamente, dalle doti innate – come ha sottolineato uno studio del 2014. Michael Lombardo, genetista alla Grand Valley State University, e i suoi colleghi, hanno passato in rassegna 15 campioni olimpici, maschi e femmine, di corsa veloce, e i 20 americani maschi più veloci della storia, trovando che, fra quelli per cui erano disponibili i relativi dati biografici, tutti erano stati eccezionalmente veloci già prima di sottoporsi ad allenamenti formali. Similmente, nello stesso studio, 64 atleti universitari nelle discipline della corsa veloce e dei lanci si ricordavano tutti di essere stati da bambini rispettivamente più veloci o più forti e più bravi nel lanciare oggetti rispetto ai coetanei. Significativo è anche il fatto che negli sprinter migliori c’era stato un netto salto di qualità una volta iniziato l’allenamento formale. «Forza, agilità, velocità e altri tratti atletici sono tutti fenotipi che vengono dall’interazione del genotipo con l’ambiente», dice Lombardo. «Negare che ci sia una variazione genetica tra gli individui che si esprime in differenze di capacità atletiche sarebbe in realtà negare quel che sappiamo della biologia».
Eppure questi aspetti genetici si sono rivelati elusivi. Nel 2016 Bouchard e colleghi hanno confrontato la frequenza di alcuni alidi piuttosto diffusi – varianti di un determinato gene – in 1.520 atleti di sport di resistenza e in 2.760 corrispondenti soggetti di controllo di quattro continenti, e ne sono usciti a mani vuote. «Pensavamo di essere in buona posizione per identificare qualche allele, ma non era così», dice. Il gruppo «ha fallito miseramente», e non ha scoperto «neppure un solo allele che arrivi alla significatività statistica». La conclusione? Probabilmente la capacità atletica viene da molteplici varianti geniche, ognuna delle quali, da sola, ha effetti minimi. Una di queste varianti, però, potrebbe essere ACTN3, responsabile della produzione di una proteina usata dalle fibre muscolari rapide, che si contraggono velocemente e forniscono brevi impulsi di potenza esplosiva.
In più di un decennio di lavoro, Kathryn North, genetista dell’Università di Melbourne, in Australia, e i suoi colleghi hanno trovato che i topi con ACTN3 hanno maggior resistenza. Oggi Eynon e il suo gruppo all’lSEAL stanno cercando di provare lo stesso rapporto negli esseri umani.
Per dirlo con le sue parole: «Pensiamo che ci sia bisogno di questa proteina per essere molto veloci sullo scatto». Circa il 16 per cento delle persone ne mancano naturalmente. Di contro, Eynon e colleghi hanno trovato che tra 300 sprinter di livello mondiale la carenza è quasi nulla, pur rendendo conto solo dell’ 1-1,5 per cento della varianza nella capacità di scatto complessiva. «La sola cosa che possiamo dire con un alto livello di certezza su questo gene è che se qualcuno ne manca è difficile che sia un grande sprinter», dice Eynon.
Fallo succedere!
Oltre ai livelli di condizione fisica, gli scienziati hanno trovato alcuni tratti mentali indicativi che differenziano gli atleti dai dilettanti. In primo luogo, chi gareggia a livello nazionale o internazionale sembra aver provato più spesso la cosiddetta «trance agonistica» o «flusso» (flow), uno stato in cui si è profondamente assorbiti in un’attività e durante il quale la prestazione sembra arrivare senza sforzo e automaticamente. Ed è più frequente, anche, che abbiano la sensazione, come dicono certi allenatori, di «farlo succedere», il che comporta intensa concentrazione e sforzo sotto pressione. I ricercatori sospettano che non solo gli atleti siano più bravi, per natura, a incanalare questi stati mentali; ma che poi li affinino grazie all’ampia possibilità di fame esperienza.
«Ci sono senz’altro occasioni in cui un atleta può vincere senza trance agonistica e senza “farla succedere”», dice Christian Swan, ricercatore in psicologia dello sport dell’Università di Wollogong, in Australia. «Ma quando fanno qualcosa di eccellente, quando sentono di essere vicini al proprio massimo, tipicamente sarà presente uno di questi due stati, a volte entrambi». Swan e colleghi stanno mettendo per iscritto un lavoro su nuovi dati secondo cui certi specifici tratti di personalità – fra cui sicurezza di sé, competitività, perfezionismo «adattivo» (quello che tiene al successo ma tollera gli errori e non si perde nell’autocritica), ottimismo e solidità mentale – sembrano predisporre al raggiungimento degli stati di flusso.
Gli atleti, inoltre, eccellono in particolari compiti percettivi e cognitivi. Nel 2013 Heloisa Alves, studiosa dei processi cognitivi all’Università dll’Illinois a Urbana-Champaign, e i suoi colleghi hanno reclutato 87 pallavolisti brasiliani e 67 soggetti di controllo e li hanno sottoposti a test di controllo esecutivo, memoria e attenzione visiva spaziale. Rispetto ai non atleti, i giocatori avevano reazioni più rapide in due compiti di controllo esecutivo e in un compito di elaborazione dell’attenzione visiva spaziale, accanto a un maggiore controllo mentale.
«La nostra interpretazione di base è che un lungo allenamento fisico, in particolare nello sport, comporta anche un certo addestramento cognitivo, che coinvolge l’attenzione e il controllo esecutivo», dice Alves. «Quindi, nel diventare un campione in qualche modo si acquisisce anche un alto livello di determinate abilità cognitive».
Il valore del trauma
Negli atleti ai massimi livelli possono esistere anche altre differenze psicologiche, stando ai ricercatori che hanno condotto alcuni studi per UK Sport, un ente statale britannico che promuove lo sport d’élite e lo sviluppo atletico. In particolare, UK Sport aveva chiesto ai ricercatori di fare luce sulle differenze tra gli atleti d’élite – professionisti che gareggiano alle Olimpiadi o in altri importanti campionati ma in genere non ottengono le massime medaglie – e i cosiddetti supercampioni, che vincono regolarmente. UK Sport sperava di usare i risultati per allevare un maggior numero di supercampioni e migliorare le prestazioni olimpiche del paese.
A rispondere sono stati Tim Woodman, psicologo sportivo della Bangor University nel Galles, e i suoi colleghi, che in collaborazione con altre università e con UK Sport hanno reclutato 32 atleti britannici di entrambi i sessi: 16 supercampioni, vincitori di medaglie nei principali campionati mondiali, e 16 atleti d’élite, di caratteristiche paragonabili, che non avevano mai vinto una medaglia ma avevano gareggiato agli stessi livelli. I ricercatori hanno intervistato gli atleti, i loro allenatori e i loro genitori, producendo oltre 8400 pagine di dati, e si sono avvalsi di un nuovo programma di riconoscimento automatico di schemi per identificare le differenze tra i due gruppi.
Ciò che hanno trovato è stata una sorpresa. «Da tempo si ritiene che la felicità spinga le persone a ottenere buoni risultati, ma questo studio spazza via completamente questo assunto», dice Woodman. «Essere felici non solo non è essenziale, ma non compare da nessuna parte». I ricercatori, al contrario, hanno scoperto che tutti i supercampioni avevano vissuto un evento negativo critico – il divorzio dei genitori, un lutto, una malattia o un altro evento vissuto come una perdita – in giovane età. E poco dopo avevano scoperto lo sport, che tutti ricordano come una svolta fortemente positiva che ha cambiato quasi immediatamente il corso della loro vita. «Di colpo, forse per la prima volta, si sono sentiti apprezzati, importanti e ispirati», dice Matthew Barlow, ricercatore post-doc in psicologia dello sport a Bangor, che ha collaborato con Woodman.
Uomini e donne d’acciaio
Traumi precoci e ripresa attraverso lo sport non sono Tunica cosa riscontrata da Woodman e colleghi nell’esaminare i resoconti della vita dei supercampioni. Spesso, infatti, essi avevano conosciuto un altro critico punto di svolta in un momento successivo della loro camera sportiva. Che fosse positivo, come il passaggio a un allenatore più motivante, o negativo, come la morte di una persona cara, l’evento aveva spinto l’atleta a raddoppiare i propri sforzi. «Questo significativo evento a metà carriera ricorda loro la perdita originaria, e li motiva a un livello molto profondo», teorizza Barlow.
Questa storia comune – da una perdita alla scoperta dello sport e poi a una più profonda motivazione – sembra formare la personalità e le prospettive dei supercampioni in direzioni prevedibili. Per cominciare, dice Woodman, «l’esigenza di non perdere è molto acuta». Spesso i supercampioni esprimono un ossessivo bisogno di vincere, di contro ai desideri di fama, felicità o denaro che motivano molti dei loro avversari di minor successo.
Sono inoltre «di gran lunga più spietati ed egoisti nel loro approccio allo sport», spiega Woodman: non esitano, per esempio, a rompere con un coniuge o un partner se ritengono che il rapporto comprometta il raggiungimento dei propri obiettivi. E mentre gli atleti di minor successo tendono a concentrarsi sull’obiettivo di battere gli avversari, i grandi campioni danno altrettanta importanza al superare se stessi. Come dice Woodman: «Per quanto bene siano andati, pensano sempre che potrebbero fare meglio».
Woodman e il suo gruppo hanno presentato le proprie osservazioni alla World Class Performance Conference annuale di UK Sport, e hanno in programma di pubblicare i risultati delle loro ricerche entro quest’anno. Nel complesso, spiegano, i loro studi implicano che coloro che non vivono un evento traumatico precoce nella loro vita «hanno meno probabilità di avere la spinta necessaria per arrivare così ossessivamente a grandi risultati». Nessuno propone che gli allenatori debbano traumatizzare i propri atleti nella speranza di tirar fuori un supercampione, ma qualche conclusione pratica si può trarre, nota Woodman. Per esempio i talent scout in cerca di atleti da portare a livello olimpionico potrebbero tenere d’occhio, fra i candidati promettenti, quelli che «in passato hanno vissuto momenti difficili».
Enyon sottolinea che per quanto possa progredire il lavoro sulla genetica e sugli altri determinanti delle prestazioni di eccellenza, i risultati non dovranno mai essere sfruttati per escludere le persone, con gli allenatori che selezionano solo chi risulta più promettente per costituzione biologica. E se questo sembra un rischio lontano ci sono già aziende che vendono test genetici direttamente ai consumatori, sostenendo di poter identificare capacità aerobica e propensione allo scatto dal DNA contenuto in campioni di saliva. Tutti però, commenta Enyon, hanno basi scientifiche deboli. E nota inoltre che non tutti i veri atleti sono grandi campioni, soprattutto negli sport di squadra; quindi, anche se mai dovesse essere disponibile un test che riveli i potenziali campioni, non sarebbe bene usarlo per scoraggiare qualcuno dal praticare sport ad alti livelli.
«Ci sono gli atleti che brillano di luce propria – conclude Eynon – e quelli che aiutano. Mai smettere di fare sport sulla base di un test genetico». Se non altro, praticare uno sport che ci piace ci farà apprezzare più a fondo gli atleti che sono in grado di competere con i migliori del mondo.