Andrea Greco, Oggi 27/7/2016, 27 luglio 2016
L’IMPORTANTE È PARTECIPARE
Milano, luglio
Citius!, Altius!, Fortius! Tanti atleti si sono guadagnati la fama incarnando il motto olimpionico. Altri, quelli di cui vogliamo parlarvi, l’esortazione “Più veloce! più in alto! con più forza!” l’hanno presa come un amichevole consiglio. A volte addirittura come una domanda, alla quale rispondere risoluti: «Be’, calma, farò quel che posso». E facendo quello che potevano, questi eroi dell’andamento lento si sono guadagnati l’affetto del pubblico. Ognuno per un motivo diverso, perché, come è vero che c’è un solo modo per vincere, è altrettanto vero che ce ne sono mille per perdere.
La slittinista venezuelana Ighina Boccalandra, 91 chili per 170 cm, è venerata su Youtube per la sua discesa alle Olimpiadi invernali di Salt Lake City. Parte in stile classico: lei sopra e lo slittino sotto. A metà percorso le posizioni si invertono: lo slittino sopra e lei sotto. In vista del traguardo cambia tattica: lo slittino davanti e lei che lo tallona, scivolando sul ghiaccio come un tricheco. Il suo incidente spinse il Comitato olimpico, con poco senso dell’umorismo, a stringere le maglie delle ammissioni alle gare degli atleti dei Paesi caldi.
IL MARATONETA DISPERSO
Il pubblico ha dimostrato spesso di dimenticare i secondi arrivati, ma di amare gli ultimissimi.
In Svezia, ad esempio, dopo un secolo ancora si parla del mitico podista giapponese Shizo Kanakuri. Partì dal Giappone alla volta della Scandinavia in treno, per partecipare alla maratona delle Olimpiadi del 1912, a Stoccolma. Shizo era uno dei favoriti e grazie a una munifica colletta si ritrovò ai blocchi di partenza della gara più olimpica che c’è. Quel 14 luglio il sole picchiava fortissimo, e all’epoca il regolamento non prevedeva posti di ristoro lungo il percorso. Un’assurdità che proprio in quella gara ebbe come conseguenza la morte, per disidratazione, del povero portoghese Francisco Lazaro. Ma torniamo al nostro Shizo: intorno al trentesimo chilometro, mentre era nelle posizioni di testa, sfinito dalla fatica e dal caldo si sentì offrire un bicchiere di fresco succo di lampone da uno spettatore che seguiva la gara dal giardino della sua villetta. Lo sventurato rispose. Accettò anche di riposarsi un istante su una poltrona all’ombra, piombando subito in un sonno profondissimo. Si svegliò a corsa finita: da ore. Mentre i giudici di gara e la Polizia lo cercavano senza successo, lui di nascosto, con l’anima in tumulto per la vergogna, quatto quatto salì su una nave e sparì. Fu così che la maratona di Stoccolma finì col bilancio ufficiale di un morto e di un disperso.
Mezzo secolo dopo la tv svedese decide di capire che fine avesse fatto Shizo, diventato nel frattempo una leggenda in Svezia. Un cronista si mette sulle tracce del maratoneta fantasma e lo ritrova là dove era partito, nella città Natale di Tamana. L’epilogo è da film: nel 1967, Shizo, a 76 anni suonati, torna a Stoccolma e riprende la sua corsa esattamente lì dove mezzo secolo prima si era addormentato, tagliando poi il traguardo con il tempo irripetibile di 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti, 20 secondi e 3 decimi. Praticamente una vita, scandita dai rintocchi del rimpianto per quel pisolino che gli levò medaglia e onore.
L’ANGUILLA DELLA GUINEA
Eric Moussambani, della Guinea Equatoriale, invece, sulla lentezza ha costruito una vita migliore. Le Olimpiadi questa volta sono quelle del 2000, a Sydney, e Eric l’Anguilla (come venne poi chiamato dalla stampa) arriva alla prima batteria dei 100 metri stile libero: si gioca la qualificazione con un atleta tagiko e un nigeriano, altrettanto inesperti, che vengono squalificati per falsa partenza. Così al secondo start è solo nella vasca. Pronti, via. La sua panciata rimbomba nello stadio, inizia subito un goffo ma baldanzoso mulinare di gambe e braccia. La vasca di ritorno però è una via crucis: procede lentissimo, sfinito, il pubblico si alza in piedi e lo incita fino all’ovazione quando chiude la gara in 1’52.72, ossia il doppio di quanto impiegano gli altri atleti. All’arrivo, sfinito, confessa col fiatone: «Prima di oggi non avevo mai visto una piscina così grande». Poco importa, la sua lentezza lo rende immediatamente una star: partecipa a programmi tv e documentari. Oggi, nei Paesi anglosassoni, quando si presenta un atleta volenteroso ma scarsissimo, si dice: «Ecco il nuovo Eric l’Anguilla».
BICIPITI E LACRIME
C’è anche chi con la sua sconfitta ha commosso il mondo, come Derek Redmond. Alle Olimpiadi di Barcellona l’atleta britannico è uno dei favoriti per il podio nei 400 metri. Purtroppo durante la semifinale, a metà giro di pista, Redmond si infortuna gravemente: salta il bicipite del femore. Però non si dà per vinto. Mentre gli avversari corrono come il vento e tagliano il traguardo, lo stadio ammutolisce e segue l’arrancare sofferente di Redmond. Il padre supera le barriere di sicurezza, lo raggiunge e lo sostiene: tagliano il traguardo insieme mentre gli spettatori in piedi dedicano all’atleta (squalificato) una lunghissima, sentita, standing ovation.
L’abbiamo scritto all’inizio: le sconfitte hanno mille sfumature. C’è lo sguardo disperato, alle Olimpiadi del 1996, del baffuto ucraino Roman Virastjuk, sorpreso dal gong che segnala la fine del tempo regolamentare, mentre sta ancora lì con il peso in mano, sicuro che con l’ultimo lancio avrebbe conquistato una medaglia alla sua portata.
C’è l’incoscienza dell’ineffabile gallese Eddie Edwards, pronto a buttarsi giù dal trampolino con gli sci, senza esserne capace. Eddie, a parte il dettaglio che era un brocco, incarnava perfettamente lo spirito olimpico. Soprannominato ironicamente The Eagle sia per i suoi “voli”, sia per la forte miopia, autofinanziava la sua passione per lo sci lavorando come muratore. Iniziò ad allenarsi nel salto con un’attrezzatura avuta in prestito e scarponi così grandi da doverli indossare con sei paia di calze. Esordì nelle competizioni di alto livello piazzandosi al 110° posto in Coppa del mondo nel 1986. Nel 1988, a Calgary, arrivò ultimo, anzi ultimissimo in tutte le gare a cui partecipò, ma si guadagnò una tale popolarità che Ronald Reagan interruppe una rinione ufficiale pur di vederlo in tv. A distanza di tanti anni il suo mito è ancora così vivo che l’anno scorso è arrivata nei cinema la commedia Eddie the Eagle, ispirata alla sua odissea.
TRIONFO DELLA LENTEZZA
Ma questa storia di grandi fallimenti ha un lieto fine, perché il re dei perdenti è un vincitore. L’australiano Steven Bradbury era un pattinatore sul ghiaccio promettente, ma la sorte lo aveva preso di mira. In un incidente di gara la lama di un pattino gli recide l’arteria femorale: perde 4 litri di sangue e rischia di lasciarci le penne. 18 mesi di riabilitazione e 111 punti di sutura dopo, riprende ad allenarsi. Appena torna in forma, nuovo incidente, trauma al collo e settimane immobilizzato. Affronta una nuova riabilitazione e arriva alle Olimpiadi di Salt Lake City: ormai è l’ombra dell’atleta che sarebbe potuto essere. Si presenta al via dello short track, distanza 1.000 metri. Batterie, quarti di finale, semifinale: Bradbury è sempre il più lento, ma quelli davanti a lui cadono all’ultima curva, oppure vengono squalificati. Risultato, Steven arriva alla finale. In pista sono in cinque, e un istante dopo lo start è già abbondantemente in coda. Lì rimane fino all’ultima curva, quando i suoi rivali cadono travolgendosi l’un l’altro, lui sfiora un groviglio di lame, gambe e braccia e taglia il traguardo, incredulo, felice, dando una speranza al Fantozzi che c’è in tutti noi. Grazie a lui siamo autorizzati a credere che forse, prima o poi tutti avremo la nostra medaglia, perché almeno ogni tanto la sorte decide di pagare i suoi debiti.
Andrea Greco, Oggi 27/7/2016