Stefano Bartezzaghi, il venerdì di Repubblica 29/7/2016, 29 luglio 2016
BRUTTE PAROLE
Mi piace avere tutte queste parole in testa, / scegliere le meno belle / E fare loro un po’ di festa». Cito, a memoria, i versi del poeta francese Jules Supervielle: a loro mi ha fatto pensare il kit di «Parole orrende magnetiche» che Vincenzo Ostuni ha mandato in libreria, e di cui abbiamo parlato la scorsa settimana. Ricordate? Sono dei tasselli con calamita con cui, plausibilmente sullo sportello del frigorifero (o su qualsiasi altra superficie metallica), si possono comporre frasi di incommensurabile bruttezza: «La situescion del lato B fa la differenza e mette tutti d’accordo, di default». Pezzi di linguaggio prefabbricati, che capita di ascoltare o leggere, ma anche di impiegare magari sbadatamente e che fanno rabbrividire chi ritiene di avere buon gusto linguistico.
«La tua lei marca male. No possibol». Con tutta la sua buona volontà, persino Supervielle farebbe fatica a riscattare questo stile espressivo. Ognuno di noi ha al proposito le proprie bestie nere. Io per esempio faccio molta fatica ad ascoltare l’espressione dilatoria «quello che è», di cui pure il linguista Nunzio La Fauci ha recentemente esplorato le segrete motivazioni. Nel suo corpus c’era però una frase umoristica che suonava così: «Ma vengo rapidamente a quello che è il succo del mio discorso». Rapidamente? Quello che è? Io non lo direi mai.
Ma mi domando, per citare papa Francesco, chi sia io per giudicare il mio prossimo e il suo eloquio.
Ricordo di aver invitato il poeta Edoardo Sanguineti a dirmi quali parole odiasse. Mi rispose: «Le amo tutte». Grande lezione. (Quando però ho insistito domandandogli: «Anche la parola “creatività”?», dovette ammettere: «beh, quella fa veramente un po’ schifo»). Quindi giochiamo e facciamo festa. Muovo le tessere di Ostuni e compongo un ultimo, amabile orrore: «Sfatiamo un mito: un’insalatona all’apericena è una forma di difesa. Implementare la mission: ciaone agli inestetismi».