Daniela Ranieri, il Fatto Quotidiano 29/7/2016, 29 luglio 2016
NIETZSCHE ROMPE COL MITO: «WAGNER MI HA OFFESO»
La sera del 20 dicembre 1882 Friedrich Nietzsche scrive furiosamente una lettera nella sua stanza all’Albergo della posta davanti al mare di Rapallo. “Ho appena preso – per disperazione – un’enorme dose di oppio”, scrive ai due destinatari. Si tratta dell’amico Paul Rée e della giovane russa Lou von Salomé, conosciuta ad aprile dentro la basilica di San Pietro (“Cadendo da quali stelle siamo stati spinti qui, l’uno incontro all’altra?” sono state le prime parole che le ha rivolto). La disperazione è tale che ogni mattina dubita “di arrivare alla fine della giornata”. Non dorme più, il rumore del mare non lo tranquillizza. È ossessionato da un pensiero vergognoso, un sentimento di ingiustizia che crede di aver subìto dai due, a cui pochi mesi prima era legato da un rapporto di (per lui) pericolosa intimità. Colpito dalla spavalda sfrontatezza della ventunenne russa, Nietzsche l’aveva frequentata a Roma a casa dell’amica Malwida. A giugno i tre avevano deciso di costituirsi in una specie di Santa Trinità e di andare a vivere insieme a Vienna, destando le ire della sorella di Nietzsche, Elisabeth, intenzionata a spendere tutte le sue energie per “eliminare la russa”.
A luglio le due donne si erano ritrovate insieme nel salotto di comuni amici a Bayreuth per la prima del Parsifal, durante il festival di cui era mago e sacerdote Richard Wagner e da cui Nietzsche, per aver rotto col compositore, si era autoescluso violentemente. Tra le due c’era stata una lite, seguita poi, ad agosto, sempre a casa di amici e assente Friedrich, da quella che Lou nella biografia di Nietzsche chiama la “catastrofe di Jena”.
Elisabeth era tornata sull’argomento della triplice alleanza, che ai suoi occhi trasudava sesso e disonore (“Lui è follemente infatuato di lei”, scriverà piena di bile all’amica nella cui camera da letto è avvenuta la lite). Lou – secondo la ricostruzione di Elisabeth – avrebbe alluso sarcasticamente alle reali e poco commendevoli intenzioni di Nietzsche suoi confronti, parlando di “concubinaggio”, macchiando la figura del filosofo fuggiasco, che viveva in ascetica solitudine, tormentato dal clima, dai mal di testa e agli occhi. Nietzsche non riesce a crederci, precipita in un’afflizione malvagia: “Tutto mi pare ostile”.
La russa gli era apparsa come “un angelo della speranza e del coraggio”, che “mitigasse tante cose che il dolore e la solitudine avevano indurito in me”, scrive a Rée, che ora vive con Lou. “Io non ho morale”, gli aveva detto lei, e lui aveva “creduto che, come me, avesse una morale più rigida di chiunque altro!”. Invece, scrive al perduto amico, “lei mira solo a divertirsi e a passare il tempo”, “è una vera e propria sciagura, e io ne sono la vittima”, “tutta la dignità della mia missione è stata compromessa da un essere superficiale e immorale, leggero e privo di sentimento”. In un abbozzo di lettera di due giorni prima, aveva scritto a Lou: “Lei ha fatto dei danni, ha procurato dolore – e non solo a me, ma a tutti coloro che mi volevano bene: questa spada pende su di lei”.
All’incrocio tra due fuochi nemici, a dicembre rompe anche con la sorella (“Devi farti venire in mente un altro tono per parlarmi”) e con la madre (“Mi riesce sempre più difficile capire come intendiate rimediare a quello che mi avete fatto quest’estate”). A Natale, nella solitudine della pensione, scrive all’amico Franz Overbeck: “Ho sofferto delle vicende degradanti e tormentose di quest’estate come di una follia. (…). Costei mi ha trattato come uno studente di 20 anni – uno studente che si sia innamorato di lei. Ma i saggi come me amano soltanto i fantasmi – e guai se amassi un essere umano – questo amore ben presto mi distruggerebbe”.
A febbraio muore a Venezia Richard Wagner, che Nietzsche aveva venerato e da cui era fuggito inorridito dopo averlo visto all’opera a Bayreuth: un istrione, un cialtrone che aveva ceduto al cristianesimo, un seduttore malinconico. Del resto, la moglie Cosima scrisse nei diari che i coniugi la sera leggevano con gli amici passi di Umano troppo umano e ridevano di lui. L’evento lo scuote. Scrive a Malwida: “Wagner mi ha offeso a morte – voglio che Lei lo sappia!”. Pare che il compositore avesse mandato una lettera al medico che aveva in cura Nietzsche, attribuendo i suoi misteriosi malanni a una sregolata vita (omo?)sessuale. L’estate del 1883 è quella più dura per Nietzsche. È a Sils-Maria, in Engadina; Elisabeth, non paga della sua angoscia, gli dice che è stato Rée a aizzare la russa. Lui gli scrive: “È stato Lei, naturalmente in mia assenza, a parlare di me come di un volgare e basso egoista, sempre intento a sfruttare gli altri? È stato Lei a sostenere che io, sotto la maschera dell’idealismo, nutrivo le più sporche intenzioni nei confronti della signorina Salomé? È stato lei che ha osato affermare, a proposito del mio intelletto, che io sono un folle, e non so quel che voglio?”. Poi gli riporta l’opinione velenosa di Wagner: “Richard mi mise in guardia da Lei, dicendo: ‘Quello si comporterà male con Lei, quello non ha in serbo niente di buono’” (nei diari di Cosima gli antisemiti Wagner chiamano Rée “l’israelita”). E conclude: “Avrei una gran voglia di darLe una lezione di morale pratica con un paio di pallottole”. Poi straccia la lettera. Scrive invece al fratello di Rée: “(Paul) definì Lou una volta la mia fatalità: quella scimmietta rinsecchita, sporca e puzzolente, coi suoi seni finti, una fatalità! Pardon!”. Poi alla madre di Lou: “Mia sorella e io abbiamo entrambi ottimi motivi per segnare in nero sul calendario l’incontro con la signorina Sua figlia”. Poi a Malwida: “Lou e Rée non sono degni di leccarmi gli stivali – pardon per quest’immagine troppo mascolina!”. Poi alla moglie di Overbeck: “Lei non si rende conto che siamo a un passo dallo spargimento di sangue e dalle più brutali possibilità”. Poi a sua madre, chiamando Elisabeth “stupida oca” e iniettatrice di veleno. Nessuno gli risponde, al di là di qualche parola di circostanza. Quest’anima “fine, delicata, benevola, bisognosa d’amore”, come scrisse Thomas Mann, si spezzò in solitudine, infine.
di Daniela Ranieri, il Fatto Quotidiano 29/7/2016