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 2016  luglio 28 Giovedì calendario

«NON FARO’ COME MIO PADRE». INTERVISTA AD ANDRE AGASSI – Da figlio, non capiva, non poteva capire, ribelle, viziato e molto ignorante della vita qual era

«NON FARO’ COME MIO PADRE». INTERVISTA AD ANDRE AGASSI – Da figlio, non capiva, non poteva capire, ribelle, viziato e molto ignorante della vita qual era. Da papà, ha confessato tutte le proprie colpe di ragazzo, ma non è riuscito ad assolvere il padre: «Non mi ha lasciato scelta, ha deciso lui per me». E, partendo dall’autobiografia, il fortunato Open, ha lanciato la sua missione più importante: «L’educazione». Andre Agassi è abituato a riciclarsi. Da tennista, visse tre volte: cattivo ragazzo, ma prodigio; fallì tre finali dello slam da favorito e poi vinse la più inattesa, a Wimbledon, da numero 1; si smarrì scadendo al numero 141 ma risalì ancora al vertice, diventando addirittura un atleta esemplare. Da uomo comune, a 46 anni, si guarda molto meglio allo specchio, forte di una moglie dolce e forte, che è stata anche più vincente di lui nel tennis, come Steffi Graf, di due figli adolescenti (Jaden Gil dell’ottobre 2001 e Jaz Elle dell’ottobre 2003) e di tanta beneficienza che gli riempie la giornata. Qual è il primo compito di un buon padre? «Capire i figli e spingerli a non aver bisogno di te. Bisogna stare attenti a non dargli quello che non hai avuto tu, dimenticando quello di cui hanno più bisogno loro. Io ho ragionato tanto su quello per cui sono passato per essere sicuro di potergli trasmettere le cose migliori che ho appreso da mio padre e non passargli quelle che non volevo prendere da lui. Quello di genitore-figlio è un rapporto affascinante, l’unica relazione della vita veramente incondizionata. Non insegni solamente, impari anche, e di continuo, come mi diceva il mio preparatore fisico, Gil Reyes, “finisci di insegnare solo quando finisci di imparare” (Un secondo padre: il primogenito di Agassi si chiama Aden Gil, ndr)». C’è una lezione che la vita le ha dato che vorrebbe trasmettere ai suoi figli? «Controlla quello che puoi controllare e non dannarti inutilmente per le cose che sono fuori dal tuo controllo». È più difficile essere genitori che figli? «Il padre è già stato figlio, e quindi ha in più l’esperienza. Ma ogni situazione è diversa dall’altra e i tempi cambiano, come le persone. Essere genitori è una una bella sfida, piena di varianti e di problemi. Sfortunatamente, appena riesci a risolverli, ti ritrovi senza lavoro. Perché i figli, come qualsiasi cucciolo che cresce, imparano a capire quello che vogliono e quel che non vogliono essere». E Andre Agassi è diventato tennista anche se non l’aveva deciso, anzi. «Non ho fatto in tempo a sognare: il tennis era già il mio destino. Papà lo amava, l’aveva giocato, da bambino, in Iran e lo vedeva come la strada più veloce per il sogno americano. Io non ho avuto scelta, ma ho voluto che i miei figli l’avessero». Ci sono tanti campioni di tennis marchiati da genitori-padroni, e non ci sono ad alto livello figli di campioni di tennis grandi come i genitori. «Io e mia moglie Steffi abbiamo pensato che ne avevamo avuto abbastanza di tennis, infatti a casa nostra non c’è un campo del nostro sport, e i nostri ragazzi non sono diventati tennisti. È uno sport strano, abbiamo pensato di crescerli in un modo che potessimo dividere con loro e non preoccuparci per loro. Perciò, Jaden ha provato tanti sport e poi ha sviluppato la sua passione per il baseball: non so quel che potrà fare, cerco solo di aiutarlo più che posso. E Jaz è interessata all’equitazione e alla danza. Non li abbiamo influenzati, ma di certo non abbiamo messo il tennis nelle loro vite. Come genitori, cerchiamo di nutrire i loro interessi. Hanno scelto loro altre cose». Ma il problema vero del tennis qual è? «Ci devi mettere troppo cuore. In quale altro sport vedi gente che parla tanto con se stessa e si risponde pure? Più che uno sport individuale è uno sport solitario. Sei come su un’isola: tu e l’avversario, devi trovare la soluzione, da solo, per un problema tecnico, per un problema tattico, per ogni cosa. E devi lasciare le emozioni negli spogliatoi, altrimenti non puoi portare a termine il lavoro che devi fare sul campo, esaltando le cose che fai meglio e costringendo l’avversario a fare peggio quelle nelle quali eccelle». È anche uno sport che può rendere molto ricchi. «Ma è anche vero che lo sport ad alto livello ti fa passare un terzo della tua esistenza senza prepararti agli altri due terzi. E poi paghi continuamente il conto di quegli sforzi fisici: io personalmente, da quando ho smesso, non sono mai stato più davvero bene e passo da un problema all’altro. Forse perché il mio gioco non era fatto di punti veloci, ma di lunghi e studiati scambi da fondo, e quindi di partite sempre dure». Però lo sport le ha insegnato molto da trasmettere ai figli. «Impegnarsi, rispettare il proprio corpo e l’avversario, accettare le regole… Quel che mi fa più felice è quando Jaden e Jaz si spingono davvero, in qualsiasi attività facciano, cercando il proprio limite. L’educazione all’impegno, per le nuove generazioni, è importante come ogni altra educazione, io ci sono arrivato dalla porta di servizio, ora sono felice di darla ai miei figli e alle persone che cerco di aiutare con la beneficenza». Infatti lei non ha due figli soli reali, ma molti di più virtuali. «Fare beneficenza è un modo per restituire parte del tanto che il tennis mi ha dato. Se cambia la vita di un bambino cambi anche il mondo. E per me vale più che vincere un torneo di tennis. Con la differenza che, sul campo, vedi subito il risultato, in queste mie attività ci vuole più tempo, ma il mio obiettivo, adesso, è superare i risultati che ho avuto nel tennis». Il tennis, comunque, non lascerà mai Agassi. «Mi ha dato la base per fare quel che faccio. Anche se gioco poco, e non faccio tante cose direttamente connesse col tennis, non perderò mai di vista che è stato la maggior parte della mia vita. Oggi non penso alle prime volte che ho vinto uno Slam, le prime volte sono quelle che ricordi di più in ogni cosa che fai, non penso alla soddisfazione di recuperare il numero 1 del mondo o di vincere l’oro olimpico ad Atlanta, il mio successo più bello resta quando ho convinto Steffi a dirmi di sì, e il trofeo più bello è la collana di corda che mi ha fatto mio figlio quando aveva quattro anni, c‘è scritto: “Babbo scatenato”». Una volta un figlio e un matrimonio equivalevano alla fine della carriera. Ora il circuito del tennis è pieno di coppie ufficiali e babysitter. «L’importante è gestire le situazioni, la famiglia può essere una fantastica distrazione dagli stress di allenamento e gara. È un’esperienza che ho vissuto anch’io: era bellissimo sentirli ridere e scherzare, per esempio a colazione. I bambini di Federer, Djokovic e Murray sono ancora piccini, non hanno bisogno d’educazione, è più giusto che stiano assieme ai genitori piuttosto che a scuola». Il tennis ha regole ferree, ci sono regole per i due adolescenti di casa Agassi? «Steffi e io abbiamo i “family moment” ai quali siamo molto attaccati, a cominciare dal pranzo, tutti assieme. Allora spariscono iPad, e cellulari, basta social media ed esiste soltanto la famiglia».