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 2016  luglio 27 Mercoledì calendario

UN ADDIO SENZA RIMPIANTI

Si può votare contro se stessi? Sì, se sei di Sunderland. Nord-Est della Gran Bretagna, proprio sotto la Scozia, 273 mila abitanti, 9% di disoccupazione (record nazionale), zona ex industriale (facevano le navi), poi deindustrializzata e poi reindustrializzata, grazie allo stabilimento Nissan, che qui è una città-stato: conta 6.700 dipendenti (30mila con l’indotto), fu inaugurato da Margaret Thatcher nel 1986 al posto di un vecchio aeroporto militare della Raf, da allora ha prodotto 8 milioni di veicoli, di cui l’80% destinato all’esportazione.
Per il trentesimo compleanno, che corre quest’anno, Sunderland si regala molti record: 50mila Leaf, l’elettrica Nissan, 2 milioni della crossover Qasqhai, 300mila esemplari all’anno, uno al minuto, e, soprattutto, 61,3% di voti per la Brexit, record assoluto nazionale.
Paradossalmente, l’industria dell’auto è quella che per prima potrebbe andarsene: se la Gran Bretagna uscisse dal mercato comune, le macchine qui prodotte potrebbero incappare in una tassa di esportazione del 10%. Il settore dell’auto inglese è una specie d’inconscio della nazione: nessun marchio è più veramente britannico. La regina continua a girare sulle sue Jaguar e Land Rover, storici marchi di proprietà indiana, l’Aston Martin è italiana, la Mini è tedesca. L’amministratore delegato della Nissan-Renault, Carlos Ghosn, è lui stesso un simbolo della globalizzazione: francobrasiliano-libanese, si era espresso timidamente a favore del Remain, poi l’azienda si è chiusa nel silenzio.
Sunderland è una meravigliosa fonte d’interpretazioni giornalistiche: storico feudo rosso, serbatoio di voti del Labour; soffre la vicinanza della più grande Newcastle; durante la rivoluzione inglese, a Newcastle c’erano le truppe fedeli al re, a Sunderland il rivoluzionario Oliver Cromwell. Nel mezzo scorre il fiume Wear. Attorno allo stabilimento gigante, colline e avvallamenti che danno sul mare, ma il mare non si vede. Si vede invece un antico tempio dorico in lontananza, si pensa che sia un monumento romano, da qui passava il Vallo di Adriano, antesignano di tanti muri anti immigrati, quando i Romani dominavano la Britannia e i barbari erano altri. Invece è un falso dell’800 e domina i colossali impianti circondati di filo spinato.

Bocche cucite
Alla Nissan nessuno vuole parlare. Sul piazzalone antistante l’ingresso, appena ci mettiamo a cercare operai da intervistare e a fare foto, una guardia esce subito a placcarci, un addetto della comunicazione viene a dirci che loro assolutamente non hanno niente da dire, prima gentile, poi categorico. Al confinante pub Three Horseshoes (vecchie insegne della Raf alle pareti), Charlie, ragazza castana, che al computer sta inviando dei curriculum su Linkedin, dice: «Certo che ho votato, ma non parlo con i reporter». Accanto, un fatiscente museo dell’aereo militare. In un piazzaletto con l’erba alta, un derelitto cadavere di DC9 giallo muore arrugginito. Un anziano custode, anche lui con il cappelletto della Raf, ex ufficiale: «Certo che ho votato, ma non dico come. Dico solo che, lì dove c’è la Nissan, ci dovevamo essere noi. Qui c’era un aeroporto militare».
La prima sensazione è di rimozione. I media hanno parlato di pentimento, qui non ce n’è traccia. Il giornale locale, il Sunderland Echo, non parla di Brexit, dedica invece molto spazio a Beyoncé, la cantante che proprio qui ha aperto il suo tour europeo. Oltre al Sunderland Calcio, e alle prossime manovre del centrocampista italico Emanuele Giaccherini. Accanto allo stabilimento Nissan c’è un ufficio del Gateshead College, istituto pubblico che offre corsi tecnici per preparare operai specializzati alla fabbrica. Fuori, riusciamo a parlare con Philip, una quarantina d’anni: «Certo che ho votato per la Brexit, come molti qui, penso che sia una cosa positiva», dice chiuso nel suo Barbour stinto sotto la pioggia micidiale. «La fabbrica se ne andrà? Non credo, vedi quell’ala nuova dello stabilimento? Lì costruiranno le Infiniti, i modelli del marchio di lusso della Nissan». Che cosa ne pensa della raccolta di firme per rifare il referendum? Non ne sa nulla? L’hanno scritto i giornali... «Sai che cosa ti dico? I giornali a volte è meglio non leggerli». Banalità varie anti-UE: «Sai quante banane vengono buttate ogni anno perché non hanno la forma giusta?». Immigrazione: «Arrivano i polacchi a rubarti il lavoro». Philip lo dice mentre è con il suo amico Hossein, che è del Sudan, anche lui frequenta il college, ma dice di non essere interessato alla politica: sfoglia, piuttosto, ricette sul suo iPad. Quindi voti contro il tuo amico? «Che cosa c’entra, lui è uno a posto». Sotto una pensilina, altri ragazzi più giovani del college fumano: «Certo che abbiamo votato per la Brexit».

In vacanza fuori dall’Europa
Proviamo a entrare dentro il college, dopo un po’ ci cacciano: «Non siete autorizzati», ci dice una signorina della Nissan, che ci ha visti nel sistema a circuito chiuso, non ci faranno entrare neanche nel vasto complesso di palestre e bar del dopolavoro. «È proprietà privata». Assieme a noi scacciano anche dei fotografi con lunghi zoom che ritraggono gli operai, neanche uscisse lady Diana con Dodi Al-Fayed. All’ingresso del college, una bella targa blu con le stellette dell’Unione Europea: «Questo progetto è finanziato grazie al fondo sociale europeo». Accanto, un monitor manda le immagini del dibattito al Parlamento del premier dimissionario David Cameron.
Usciamo dal fortino della Nissan («abbiamo chiamato la polizia, vi conviene andarvene», ribadiscono). Ci spostiamo nei dintorni, in una zona chiamata Washington, sobborgo attorno alla fabbrica. C’è un centro uffici, una coppia accetta di parlare con noi. avranno una trentina d’anni, Michael e Fiona, hanno una piccola ditta di cartellonistica. Hanno votato Brexit, ne vanno fieri: «Per ora ce ne andiamo, poi magari tra dieci anni rientriamo», dice Michael. Magari poi non ci sarà più l’occasione, come con gli amori della vita che non si ripresentano più, si prova a dirgli. «Ma questo succede quando non si è scelta la persona giusta», ribatte Fiona, e scopriamo che i due sono sposati. Anche la fluttuazione monetaria, oltre a quella amorosa matrimoniale, non li spaventa. Che cosa farete quest’estate? «Andremo a Kos, come sempre». Lo sapete che pagherete di più, con la sterlina indebolita? «Si, ma non è un problema», risponde lei. «La mia famiglia del resto sta in Canada e, ogni volta che andiamo là, il dollaro canadese sale o scende, siamo abituati». «Vorrà dire che in futuro andremo in Turchia», dice lui. Nell’atrio del palazzo, mentre parliamo con Michael e Fiona, spunta un altro cartello, sembra uno scherzo: «Questo centro è stato finanziato con fondi europei».
Il Sunderland Echo ha pubblicato, per rassicurare i suoi lettori, una lista dei cinque posti non-UE dove andare in vacanza dopo la Brexit: al primo posto c’è Gibilterra, al secondo la Turchia, al terzo la Macedonia («certo, la Croazia è meglio, ma è nella UE e anche il Montenegro sta per entrarci»), al quarto l’Islanda, al quinto – e la classifica assume un’aria di crescente surrealtà, oltre che di nostalgia imperiale – le isole Falkland, «anche se è un incubo arrivarci, bisogna fare scalo in Cile e la temperatura massima è di 9 gradi d’estate, ma potrete pescare e avvistare i pinguini reali».
Michael non ha paura che i grandi gruppi stranieri se ne vadano da Sunderland: «Stanno qui perché gli conviene, sono venuti perché hanno trovato condizioni ideali e rimarranno». In realtà, le case automobilistiche sono preoccupate. Oltre l’isterico silenzio della Nissan, il Journal, giornale del Nord-Est, riporta che il 57,5% delle auto prodotte in Inghilterra viene spedito nell’Unione Europea e che il fatturato complessivo del settore, secondo la Society of motor mananufacturers and traders, è cresciuto del 7,3%. Settore nel quale, quest’anno, sono previsti nuovi investimenti per 225 milioni di sterline. «Il nostro successo è dato dall’accesso libero al mercato europeo», rileva il numero uno dell’associazione, Mike Hawes; «nei prossimi giorni ci riuniremo per capire come far fronte al rischio e all’incertezza». Intanto, nel settore auto ci sono 5 mila posti di la voro che non vengono riempiti perché non ci sono professionalità all’altezza. Sempre nel sobborgo di Washington, andiamo al centro del villaggio: una chiesetta tipo Downton Abbey, con le sue lapidi muschiate; villette di mattoni di dignitosa povertà, un barbiere, un concessionario con vecchie Mini e Micra impolverate. Un uomo tutto tatuato e senza denti, di nome Stevenson – «sono stato per 39 anni alla catena di montaggio» –, esce con il suo sacchetto da un take-away cinese. «Ho votato Leave, certo». Pentito? «Per niente».
Da Giancarlo, locale bifronte che è ristorante italiano davanti e pub inglese dietro. Il gestore, Marcello, di Salerno, mentre canta classici napoletani a inglesi pallidi, sul sottofondo di una playlist invidiabile fatta di Toto Cutugno, Celentano ed Eros Ramazzotti: «Ce l’hanno con la Germania. Intanto Sunderland sta morendo di disoccupazione, ci sono troppi ubriachi. E c’è molto degrado, peggiora ogni giorno che passa». Passando dal retro, tre signore sedute attorno alla loro birretta, delle noccioline in un tupperware con il coperchio, forse portate da casa: «Non capisco come si possa affidare le proprie leggi, la propria economia, a un altro Stato», sostiene Jennifer, pensionata, ex segretaria, con battute da lady Violet di Downton Abbey. «Non riesco a pensare a niente di più stupido». È convinta: «Non ce l’abbiamo con gli immigrati, noi abbiamo i nostri indiani che vanno benissimo, sono carinissimi, parlano l’inglese e sono bravissimi. Gli altri, sinceramente, teneteveli voi». E ancora: «Scusate, ma non parlo altre lingue, oltre l’inglese, e certamente sarà un mio difetto, ma non ho bisogno di andare a cercare lavoro in altri Paesi» (dietro, nel pub, tubature rotte e orinatoi arrugginiti e moquette non profumate).

La regina? È tedesca
Lasciamo questa Downton dei poveri (riflettendo che, forse, la serie tv ha contribuito al rincoglionimento inglese recente, generando un effetto-nostalgia canaglia) e andiamo a Sunderland centro: molti cartelli “vendesi”, pub con utenze variopinte come nella miglior tradizione inglese. Al Legacy, a Olive Street, sono tutti già ubriachi alle sei del pomeriggio. John, lo chef, trent’anni, ha votato Leave. Non sa o non vuole dire perché. Tareq, avventore, il suo amico, dopo parecchie birre: «Il problema è la Germania. Tutti tedeschi. Sapete da dove viene la Regina?». Noi, capita l’antifona, si dice timidamente: Windsor. Lui: «No, dalla Germania, è tedesca».
Si entra da Bridges, shopping center mediamente tristanzuolo. Studentini con le uniformi e la cravatta, signore islamiche con veli; non pare la città razzista che è stata descritta, contrapposta allo stereotipo della Londra cosmopolita. L’agenzia di viaggi Thomas Cook ha fuori le mete tradizionali europee dove la classe lavoratrice va a ustionarsi e trasgredire: Corfù, Rodi, Magaluf, Gran Canaria. «Abbiamo registrato un calo di prenotazioni, sì», ammette la signorina, «ma non direi che è per la paura del cambio. È stato un anno orribile per il tempo». Un banchetto offre borse e pelletteria – “Eduardo, made in Italy” –, ci sono due signore simpatiche, Marie e Lisa. Lisa ha dei nonni del Nord Italia, entrambe hanno votato contro l’Europa, senza nessun pentimento: «Avevamo un sistema sanitario meraviglioso, adesso per trovare un dottore devi fare 200 chilometri», dice Marie. Questo del sistema sanitario è un tormentone della campagna del Leave. È sicura che sia proprio così? Non è che sono ricordi un po’ mitici? «No, mi ricordo benissimo». E dove andrà in vacanza? «In Giamaica». Niente Grecia o Europa? «No, a me piacciono i lunghi viaggi».
Sunderland rimane un mistero. Razzismo, nostalgie ottocentesche, rivincite di un’Inghilterra immaginaria, paure del futuro. Di sicuro se ci fossero degli animai spirits un po’ astuti, leghisti o napoletani, in questa città un po’ Downton, un po’ Pontida si potrebbe imbottigliare l’acqua del fiume Wear, sacro come il Po (forse Farage ci sta pensando). Potrebbe essere un business, se la Nissan se ne va. Certo, viene da pensare, forse gli operai di Pomigliano avrebbero votato in maniera un po’ più smart.