Daniela Ranieri, il Fatto Quotidiano 27/7/2016, 27 luglio 2016
NUOVO JIHAD E POKÉMON GO, IL VIDEOGAME DEL NICHILISMO
L’estate ci ha scaraventato in un film distopico ambientato in una metropoli post-atomica, con la Terra sotto scacco di due psicosi: una è il terrorismo in franchising dei derelitti contagiati dal mito dell’eroismo a punti; l’altra è Pokémon Go, l’app di realtà aumentata con cui si catturano mostri nel mondo reale usando lo smartphone come un joypad e la realtà fisica come l’interfaccia per un mondo ulteriore.
Non si vuole sostenere che chi gioca a Pokémon Go sia un potenziale terrorista. Viceversa, è vero che il jihadismo 2.0 è una specie di caccia ai Pokémon sfuggita di mano, in cui l’ideologia religiosa è solo il fondale di una performance, un codice per accedere a un ambiente simbolico. Entrambe, quella jihadista e quella ludica (o ludopatica), sono narrazioni che hanno alla base l’assunto che la realtà non sia quel che sembra. Nel primo caso questa convinzione è psicotica e radicata, nel secondo blanda, rituale, come nei giochi classici basati sul “come se”. Entrambi consistono di sospensione dell’incredulità, riti di passaggio, premi-punizioni e trasformazione da uno status di minorità a uno di prodezza.
I foreign fighters del terrorismo free lance sono nativi digitali. Tutti tra i venti e i trent’anni, si muovono tra social network e videogiochi con più padronanza che nella realtà fisica e sociale, con la quale non sanno allacciare un rapporto evoluto di riconoscimento. Sono quasi tutti drop-out ai margini della società, sia che vengano dalle periferie disagiate che dalle metropoli e da buone scuole (come gli attentatori di Dacca), nelle quali hanno avuto modo di covare un risentimento a cui il jihad ha fornito un linguaggio, una mitologia dell’ingiustizia, del complotto e della vendetta. I due giovanissimi francesi che ieri hanno sgozzato il parroco di Rouen hanno gridato “Daesh”, come un logo, una password, un hashtag. Il diciottenne di Monaco che ha tenuto sotto scacco una città poteva essere indifferentemente un soldato del sedicente Isis o un disagiato psichico, come in effetti era. Il procuratore di Monaco gli ha attribuito una compulsione per i videogame violenti. L’afghano di 17 anni che esce di casa con un’ascia con l’intento di eliminare chiunque gli si pari davanti aveva avviato “un’autoradicalizzazione” via web, come fare un corso di simulazione aerea. Lo stragista di Nizza che ha ucciso 84 persone con un Tir in rete cercava video di incidenti mortali, che ai suoi occhi dovevano apparire talmente artefatti da restituire l’emozione perversa del vero. Il 27enne siriano che si è fatto esplodere a Ansbach, in Baviera, nel primo vero attentato jihadista in Germania, si è confezionato una bomba con le istruzioni prese da Internet pochi giorni dopo che gli era stato rifiutato l’asilo, come se fosse stato messo davanti a un finale alternativo.
C’è un continuo travaso, dal 29 giugno 2014, giorno di auto-proclamazione dell’Is, del codice dei videogiochi dal piano della simulazione a quello religioso-politico; quel codice ha fornito agli affiliati un frame semplicistico e manicheo: da una parte i giusti, i valorosi, dall’altra gli infedeli, meri bersagli da abbattere. Se per il terrorismo delle BR le persone erano simboli, per i terroristi-player dell’Is sono avatar nemici, ostacoli al conseguimento del risultato.
Arma 3 è un videogioco sviluppato da una casa produttrice ceca ma modificato e diffuso dai game designer dell’Isis, in cui guerrieri dello stato islamico devono sterminare pashmerga curdi e ribelli siriani. Il confine tra gioco e addestramento militare è labile, e qualunque adolescente che acquisti il software o lo scarichi da siti pirata può toccare quel confine, al punto non tanto di varcarlo, quanto di assimilarne come plausibili i criteri ideologici. I comunicati dell’Al-Fajr Media Center, una delle agenzie di propaganda dell’Is, fanno esplicito riferimento ai videogame come Call of Duty in cui è prevista una respawn, una rinascita del personaggio, promessa – invece che nella finzione ludica – in Paradiso. La post-produzione vitaminizzata e maniacale fa sembrare le esecuzioni un upgrade di Doom, il gioco per console Nintendo ad alto tasso di violenza.
I video di rivendicazione, costruiti sul mito della viralità, presentano i “martiri” nella luce eroica dei trionfatori titolari di un record, in cui il numero dei morti è il punteggio ottenuto, famosi per aver superato il quadro più difficile, quello che li proietta dal 2D dello schermo al 3D della realtà, in cui non c’è più distinzione tra bravura e crudeltà. Pompati dal consumo bulimico e pornografico di immagini brutali, storditi da una proiezione alterata di sé, prima del “martirio” appaiono in selfie che trasudano un vitalismo disperato, nell’esasperazione del sorriso, nella posa da vincenti, nella forza delle armi ostentate con infantile sbruffoneria. Si lasciano esplodere e ammazzare come se avessero altre vite da giocare. Anche Maometto è un personaggio, un deus ex machina del congegno narrativo pronto a intervenire a sostegno dell’esercito del Bene e a ricompensarlo col Paradiso.
Il captagon, l’anfetamina che assumono prima di compiere attacchi, è un bonus da prendere nel plot del gioco per aumentare la propria forza. Prediligono attaccare in luoghi affollati, dove c’è musica e divertimento, ed è una nostra proiezione che lo facciano per attentare ai “nostri valori” di libertà e emancipazione o “criticare” l’edonismo occidentale con una ideologia potente e barbara. Più probabilmente quel che cercano è il massimo risultato col minimo sforzo e, nell’apoteosi del clamore e della fuga, la massima eco al loro gesto che altrimenti sarebbe squallido, e li piomberebbe, invece che nel quadro deresponsabilizzante e ludico da Mortal Kombat, in uno scenario obitoriale.
La cultura e l’etica del videogame sono basate sulla sterminata possibilità, sull’abilità superomistica. Alla base dello sparatutto jihadista è il nichilismo, l’idea di un “tutto uguale” che può essere distrutto e rinnovato all’infinito: il cinismo uniforma i contesti e le conseguenze delle proprie azioni. Similmente, è nichilista l’indifferenza al luogo dove catturare i Pokémon: che sia un McDonald’s o Auschwitz, l’importante è giocare.
di Daniela Ranieri, il Fatto Quotidiano 27/7/2016