Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  luglio 24 Domenica calendario

QUELL’AMORE TRA LA STAMPA E L’AVVOCATO

Giovanni Agnelli assunse la presidenza dell’Editrice La Stampa il 21 dicembre 1967 e la tenne per 35 anni fino al giorno della morte, il 24 gennaio 2003.
Negli ultimi tempi, dopo avere lasciato ogni incarico in Fiat, l’Avvocato aveva deciso di mantenere solo quello nel giornale per molte ragioni, una delle quali era l’affetto. Diceva che se il destino lo avesse lasciato libero di decidere il suo futuro, probabilmente avrebbe fatto il giornalista: il corrispondente dagli Stati Uniti, o l’inviato nei Paesi più dinamici e innovativi. Aveva certamente in abbondanza le doti essenziali di un buon giornalista, la curiosità e il fiuto che consente di intuire prima degli altri come piccoli eventi possano avere grandi conseguenze.
Il primo degli otto direttori che Agnelli nominò personalmente fu Alberto Ronchey, nel novembre del 1968. Giulio De Benedetti, che aveva ottant’anni ma non pensava proprio di dovere lasciare il timone che reggeva dal 1948, aveva proposto che il suo successore lo affiancasse per un po’ come vicedirettore. Ronchey non cadde nella trappola.
Dopo di lui, l’Avvocato scelse direttori che avevano apparentemente la caratteristica di essere ognuno l’opposto di chi li aveva preceduti: Arrigo Levi (1973), Giorgio Fattori (1978), Gaetano Scardocchia (1986), Paolo Mieli (1990), Ezio Mauro (1992), Carlo Rossella (1996) e Marcello Sorgi (1998). A Umberto Brunetti, che lo interrogava per Prima comunicazione sui criteri con i quali sceglieva i direttori, Agnelli ha risposto: «Lei pensa che questa diversità rispecchi la diversa posizione della Stampa rispetto al mondo politico romano e alle contingenze industriali. Ma non è così. La mia scelta è sempre stata determinata da questa considerazione: sono o no uomini in grado di guidare un quotidiano come La Stampa? Un quotidiano che ha una personalità solida, che non può essere stravolta da chi lo dirige».
È stato proprio il rispetto per questa personalità, per l’«anima» del giornale, a essere presente in tutte le decisioni prese dall’Agnelli editore. Non voleva che La Stampa perdesse soldi, perché solo un bilancio attivo poteva garantirne la libertà. Ripeteva che mai sarebbe andato in un consiglio di amministrazione Fiat a dire che la Punto doveva costare 100 lire in più a causa de La Stampa. Ma non voleva nemmeno, negli anni d’oro, che l’Editrice mettesse a bilancio utili troppo alti: i soldi, quando c’erano, andavano reinvestiti per migliorare il prodotto.
Voleva un giornale di qualità, letto in Italia e conosciuto e rispettato all’estero, grazie a «firme» come quella del suo amico Henry Kissinger e di Michail Gorbaciov, o all’accordo di copyright con Le Monde e alla collaborazione con giornali come The Times, Die Welt, El País. Faceva continue visite a sorpresa al giornale, annunciato all’ultimo momento solo da una segretaria che diceva al telefono: «Sta salendo l’Avvocato». Poneva domande su tutto, dando spesso l’impressione di saperne comunque di più. Se ne andava quando non c’era più niente d’interessante da ascoltare, lasciando a volte senza darlo a vedere un suggerimento sul quale lavorare. Se qualcuno protestava per qualche articolo non gradito, girava la lettera al direttore, perché se la sbrigasse lui. Rispose di no a Gheddafi, che voleva il licenziamento di Arrigo Levi per un articolo sfottente di Fruttero e Lucentini, e aveva bloccato per rappresaglia le forniture di camion alla Libia. «Non sapete quanto mi siete costati», disse ridendo qualche tempo dopo ai due scrittori.
Quando morì e migliaia di persone si misero in fila per rendergli omaggio al Lingotto, il suo giornale pubblicò nelle prime quattro pagine solo le immagini di quella folla dolente, perché non c’era bisogno di dire altro.