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 2016  luglio 07 Giovedì calendario

BLENDLE, L’ITUNES DELLE NEWS

C’è un Davide europeo che lotta per salvare il giornalismo di qualità dal Golia della crisi dei giornali.
Si chiama Blendle, ed è una piattaforma online di news a pagamento creata nel 2013, in Olanda, da due giornalisti diventati imprenditori, Marten Blankesteijn e Alexander Klöpping, non ancora trentenni ma molto affermati nel loro Paese. “Tre anni fa, quando abbiamo iniziato, la situazione delle news in Olanda era molto diversa da oggi, perché lo scenario dei media cambia molto velocemente”, ci spiega Klöpping durante un evento a Londra, dove è venuto a sondare l’interesse di alcuni grossi gruppi editoriali.
«La maggior parte delle testate aveva una politica editoriale diversa per il print e per l’online, e a me capitava di scrivere per diversi giornali e non poter linkare i miei stessi pezzi sulla feed di Facebook, che si riempiva di orribili foto di pdf. Per me era un problema serio, perché il mio pubblico e anche i miei amici, tutti ventenni, sono abituati a informarsi Online e non comprano i giornali. Mi sono reso conto che una intera fetta di lettori era tagliata fuori».
Blankesteijn e Klöpping cominciano a ragionare su una piattaforma che raccolga i contributi delle principali testate olandesi e li metta online, a disposizione di un pubblico più giovane o comunque digitale. La scommessa è, naturalmente, far pagare per questi contenuti. Con la loro idea in testa, i due imprenditori bussano alla porta di ogni singola testata olandese. «Ci hanno detto di no. Tutti». Allora si mettono al lavoro su un prototipo e ricominciano il giro. Stavolta, una testata si fa convincere. Poi un’altra. Ad aprile 2014, sono tutte su Blendle. In Olanda, la piattaforma diventa l’edicola virtuale di riferimento.
La startup (quartier generale a Utrecht) fa il grande salto a ottobre 2014, grazie al finanziamento congiunto di 3 milioni di euro di Axel Springer AG e del New York Times,entrambi in cerca di fonti alternative e aggiuntive di revenues. Grazie alla spinta di Springer e delle testate controllate, l’espansione in Germania è rapida e solida, tanto da favorire lo sbarco nel mercato più popolato e competitivo: gli Stati Uniti. La piattaforma Usa debutta in Beta con un primo campione di 1 Ornila iscritti ma partnership di sicuro richiamo: New York Times, Washington Post, Wall Street Journal, Economist, Financial Times, Huffington Post, Newsweek, Fortune, Time, Foreign Affairs. Le testate più attraenti per un pubblico internazionale e cosmopolita, già interessato a quelle fonti, ma non disponibile ad abbonarsi a tutte.
Definita da più parti «una iTunes per le news», oggi Blendle ha 70 dipendenti. Il 50% developer e designer, il 20% diviso in tre team editoriali (che lavorano in olandese, tedesco e inglese) e il 30% restante di manager, Hr, customer care. Mantengono a regime piattaforma e app, dove i lettori possono comprare articoli singoli pagandoli dai 10 ai 30 centesimi di euro (in Usa, dai 19 ai 39 per i quotidiani e dai 9 ai 49 centesimi di dollari per i periodici). All’atto dell’iscrizione, ogni nuovo utente riceve un credito di 2,50 euro e può, entro una finestra temporale limitata, annullare l’acquisto e ottenere un rimborso. Blendle trattiene il 30% della transazione. Il resto, un ricco 70%, torna all’editore. Non c’è traccia di pubblicità.
I bilanci non sono pubblici, e quello che riusciamo a sapere è limitato: 650mila iscritti, di cui circa la metà sotto i 35 anni – concentrati in Olanda e Germania i l00mila download della app. Secondo Klöpping, il 20% ha associato all’iscrizione una carta di credito e fatto almeno un acquisto dopo aver consumato l’offerta iniziale. Quanto al breakeven, “non è ancora stato raggiunto ma crediamo che Blendle possa andare in attivo sul lungo periodo se investiamo di più sul prodotto ora”, afferma Blankesteijn.
Sono numeri piccoli, in valore assoluto, ma interessanti per i trend che rivelano. E perché dietro Blendle non c’è solo un modello di business spericolato, ma una vera visione alternativa dell’industria dei media, del suo ruolo, della direzione che dovrebbe prendere e delle strategie di engagement per la fascia under 35.
Felpa con cappuccio, scarpe da ginnastica e battuta pronta, il cofondatore ha un quadro lucidissimo della situazione: “Gli editori hanno un grosso problema: i lettori non vogliono più pagare per il loro prodotto, ma cominciano anche a rifiutare la pubblicità tramite gli ad blockers. In più, una fetta maggioritaria degli investimenti pubblicitari va alle tech company come Facebook e Google. E io, da giornalista, non voglio che le tech company, che sono interamente focalizzate
sull’advertising, si prendano anche lo spazio dell’informazione. Penso che il giornalismo debba essere il più possibile svincolato dalla pubblicità, perché la dipendenza dalla pubblicità lo trasforma, modificandone l’essenza. La necessità di fare profitti pubblicitari, in una situazione di calo delle vendite, sta orientando il giornalismo verso contenuti facili”.
Per lui, l’alternativa parte dalla certezza che i giovani siano ancora disposti a pagare per il buon giornalismo, ma che abbiano l’esigenza di un prodotto diverso da quello disponibile. Sono abituati, infatti, a modalità di consumo più sofisticate di quelle offerte: arrivano alle news da Facebook, alla musica da Spotify. Cosa cercano? Interazione social, cura della user experience, selezione. In sintesi, una piattaforma. Che prima di Blendle non c’era.
Non basta il modello paywall o a sottoscrizione? Sì, per il lettore fedele di Le Monde, o del Financial Times, o del Guardian,che si identifica con la loro linea editoriale. No, per un ragazzo abituato a non pagare per le news, che vede l’esperienza di iniziare a leggere un articolo e poi trovarsi di fronte a un obbligo di abbonamento frustrante, macchinosa, controproducente. Perché quel ragazzo dovrebbe voler pagare per Blendle?
Klöpping: «Per due ragioni. La prima è la selezione. Il grande errore di molti editori è l’idea che le persone siano attratte da un accesso magari complicato, ma illimitato all’informazione. Da qui, gli abbonamenti full. Io vedo l’esigenza opposta: un accesso facile a fonti già selezionate. Il buon giornalismo, specie negli Stati Uniti, è così diffuso da risultare introvabile. Una buona storia può essere ovunque, dal New York Times al quotidiano locale, ma è impossibile trovarla a causa del rumore di fondo. Noi selezioniamo, suggeriamo, raccomandiamo. E dando la possibilità di pagare solo quello che davvero interessa, bypassiamo l’effetto paywall. Quello stesso ragazzo sarà disposto a pagare per il singolo articolo, se si tratta di una piccola cifra a portata di un clic».
E la seconda? “Quello che i giovani si aspettano e che i media tradizionali sottovalutano: un’ottima user experience. Con Blendle cerchiamo costantemente di dare ai nostri iscritti il senso di un’esperienza premium. Riproduciamo la grafica dei pezzi che ospitiamo, la qualità delle foto, il carattere tipografico. Puntiamo sulla qualità di contenuti e forma. Facilitiamo la navigazione con la divisione in sezioni, offriamo selezioni scelte dal nostro staff, offriamo la possibilità di iscriversi alla nostra newsletter quotidiana, parliamo il linguaggio di Twitter con la sezione “trending del giorno”». Il sito dell’edizione Usa, che è il modello del Blendle del futuro, ricorda la cura maniacale di Steve Jobs per il prodotto, sia per la cura grafica sia per la facilità di navigazione, l’ampiezza delle selezioni possibili, la piacevolezza dell’esperienza.
Se il 45% degli iscritti a Blendle ha meno di 35 anni, diventa fondamentale capire a cosa questo segmento di pubblico sia interessato. E qui il confronto con la feed di Facebook è illuminante, perché una delle lezioni per gli editori che hanno aderito a Blendle è che gli articoli più venduti qui sono molto diversi da quelli postati sul social. Lo spiega Klöpping: «Non vendiamo molte news, ma approfondimenti, analisi, inchieste. Per me è una conferma del fatto che, quando sono messi nelle condizioni migliori per scegliere, i giovani sono disposti a pagare per il giornalismo di qualità. Questo è molto interessante perché contraddice le aspettative degli editori».
È un trend incoraggiante, ma i numeri sono troppo limitati per parlare di rivoluzione possibile. Klöpping ne è consapevole, ma vede anche esempi virtuosi di testate, specie nella limitata realtà olandese, per le quali Blendle è diventata una fonte di ricavi molto rilevante. E che grazie a questo possono iniziare a fare investimenti editoriali, assumendo giornalisti e finanziando approfondimenti, in controtendenza con un mercato che taglia risorse e rinuncia ai tempi lunghi, sintonizzandosi al contrario sull’algoritmo di Facebook. «È un giornalismo che piace a molti e contro il quale non ho nulla. Ma credo anche sia importante preservare la qualità. Un giornalismo che pensa di sostenersi solo con la pubblicità è destinato a fallire, sia perché la pubblicità finisce per influenzare i contenuti, sia perché gli investimenti pubblicitari saranno sempre più divorati da Facebook e Google. Io non sono contro la pubblicità come fonte di ricavi per l’industria giornalistica, purché ci sia un equilibrio. L’equilibrio non c’è più. E solo riappropriandosi della vendita delle notizie che i giornali possono sperare di sopravvivere. Al momento, gli editori ragionano così: quando hanno molta pubblicità allentano le maglie del paywall, dando accesso a più articoli gratis. Quando le inserzioni calano, fanno il contrario. Ma in questo modo legano il valore dei loro contenuti all’advertising. Io penso che sia necessario fare il contrario, tornare a far pagare per il giornalismo». Tornare a puntare, cioè, su un modello di business in cui la vendita di contenuti di qualità sia una voce fondamentale del bilancio degli editori, perché solo garantendosi l’indipendenza dagli investitori commerciali si può ristabilire un equilibrio sano. La chiave, per Klöpping, è adattarsi alle modalità di consumo del pubblico più giovane, quello che non pagherebbe mai per un giornale come non comprerebbe mai un cd, ma è disposto a pagare per Blendle come fa per Spotify.
Una prospettiva realistica? Klöpping ne è convinto: «Non c’è alcun dubbio che il mercato ci sia e che la gente sia disposta a pagare. Non lo dico perché voglio o devo crederci: lo confermano i milioni di articoli che vendiamo».
Sabrina Provenzani