Sabrina Provenzani, Prima Comunicazione 7/7/2016, 7 luglio 2016
ALL’INIZIO FU JOHNSON
Lo scorso 28 giugno, qualche giorno dopo il referendum con cui gli elettori del Regno Unito hanno deciso di lasciare l’Unione europea, il primo ministro olandese Mark Rutte ha definito il Paese «collassato politicamente, costituzionalmente ed economicamente». Nel momento in cui scriviamo è una valutazione facile da condividere. Cameron ha annunciato le sue dimissioni e l’esecutivo è di fatto paralizzato fino all’autunno. Il suo partito è impegnato in una lotta fratricida per la successione. L’opposizione laburista è implosa, ha sfiduciato il segretario Jeremy Corbyn e, a sua volta, è alla ricerca di un nuovo leader che possa candidarsi a guidare un partito in crisi e forse, in caso di nuove elezioni, un Paese mai così spaccato.
Riecheggiando Rutte possiamo chiederci: c’è stato anche un collasso mediatico, almeno in termini di credibilità? Dipende. Se il successo di un organo di stampa si misura dalla sua capacità di raggiungere il più ampio numero di lettori e informarli correttamente, decisamente sì. Se invece quello che conta è raggiungere gli obiettivi della propria agenda, del proprio editore o della propria lobby di riferimento, Brexit resterà agli atti come un caso di scuola, di successo, per quasi tutti i media britannici.
Dei riflessi del tradizionale euroscetticismo britannico sui media nazionali si erano, prima di Brexit, brillantemente occupati John Lloyd, cofondatore del Reuters institute for the study of journalism dell’università di Oxford, e Cristina Marconi, giornalista italiana con vasta esperienza a Bruxelles e Londra e fellow del Reuters institute. Nel saggio Reporting the Eu: news, media and the european institutions (I.B. Tauris and Co, Londra, 2014), un’analisi approfondita del rapporto fra le istituzioni europee e la loro rappresentazione mediatica, scrivono: «L’euroscetticismo è forte con differenti gradazioni nel Daily Maile nel Mail on Sunday; nel Sun e nel Sun on Sunday, nel Times e nel Sunday Times ,nel Daily Star e nel Daily Star Sunday, nel Daily Express e nel Sunday Express, nel Daily Telegraph e nel Sunday Telegraph. Quelli più o meno a sostegno della Ue sono i giornali del gruppo Mirror (Daily Mirror, Sunday Mirro re Sunday People), l’Independent e il suo domenicale (ora entrambi passati unicamente all’online); il Guardian e L’Observer e il Financial Times. Quanto a circolazione di copie – una misura meno utile nell’era di Internet – i giornali euroscettici rappresentano più dei due terzi della circolazione dei quotidiani».
Boris Johnson e la Ue messa in ridicolo. Ma è stato proprio un giornalista inglese a introdurre un modo particolare di raccontare l’Unione europea e le sue istituzioni, evidenziandone solo manie, idiosincrasie e sprechi: un giovane Boris Johnson. Mandato a Bruxelles come corrispondente del Telegraphnel 1989, Johnson letteralmente inventò un genere: la messa in ridicolo, tramite resoconti sarcastici, esagerati, spesso non accurati o addirittura falsi, delle istituzioni europee. Nei giorni del referendum, Martin Fletcher, ex corrispondente a Bruxelles per il Times, ha scritto sul New York Times: «Per 25 anni la nostra stampa ha nutrito i lettori inglesi con storie distorte, false e metodicamente ostili alla Ue, e il giornalista che ha dato il via a questa tendenza è Boris Johnson». Fletcher racconta come, al momento del suo arrivo a Bruxelles, poco dopo che Johnson l’aveva lasciata, i quotidiani inglesi (e non solo) non volessero altro che storie in stile Johnson. «La maggior parte della stampa inglese era incapace di vedere l’Ue in modo diverso. Era l’unico racconto a cui fossero interessati. Storie che non mettessero in ridicolo, prendessero atto dei molti risultati ottenuti, riconoscessero come il Regno Unito avesse molti alleati in Europa e come spesso avesse la meglio su questioni importanti, venivano immancabilmente cestinate». I quotidiani populisti (il Sun in testa, con i suoi 4 milioni di lettori al giorno) e quelli tradizionalmente legati al partito conservatore hanno perpetuato una narrativa pregiudizialmente ostile all’idea di Europa, vista prima come centro di potere regno degli sprechi e della burocrazia, zavorra per l’economia inglese; poi come capro espiatorio per l’ondata migratoria che ha portato nel Regno Unito un numero crescente di immigrati soprattutto polacchi, che più di altri sono entrati in competizione professionale con gli inglesi della working class. In modo sempre più spregiudicato a mano a mano che si avvicinava il voto, il Sun, il Daily Mail, il Daily Express hanno inanellato copertine apertamente xenofobe, tanto che una petizione online per chiedere le dimissioni del direttore del Daily Mail Paul Dacre, accusato di aver scelto una linea editoriale a base di disinformazione e paura, ha superato in pochi giorni le 50mila firme.
La pancia del Paese. Il Telegraph si è schierato apertamente per Brexit, pur ospitando opinioni pro Remain. Ma il suo ruolo centrale nella formazione di una certa opinione pubblica è apparso chiaro il 23 aprile scorso, un mese esatto prima del voto, quando ha pubblicato la lettera con cui Barack Obama invitava gli inglesi a restare in Europa. Insieme ai sottoproletari delle zone più povere del regno, gli elettori da convincere erano proprio quelli del Telegraph: tradizionalisti, anziani, benestanti, abitanti del countryside, tenacemente legati all’idea anacronistica di una supremazia imperiale del Regno Unito.Come puntualmente riportato dal sito Infacts (testata Online indipendente e auto finanziata che, pur schierata per il Remain, ha condotto una indispensabile e attenta campagna di fact-checking sul referendum), dal giorno dopo il voto le stesse testate che avevano contribuito ad alimentare disinformazione e ostilità contro gli immigrati hanno invertito la rotta, cominciando a pubblicare articoli accurati sulle possibili n conseguenze economiche e 3 politiche di Brexit. In poche ore, i punti chiave della campagna Leave sono stati definitivamente smentiti. Alcuni letlori hanno commentato che se quegli articoli fossero stati pubblicati prima del voto, avrebbero scelto Remain.
Giornalisti e working class, mai così lontani. È indubbio che la campagna per Remain abbia avuto il supporto di una certa élite – i lettori del Guardian, del Mirror, del Financial Times – che però nel Regno Unito ha una audience molto influente ma di nicchia. Perfino del Times, che è stato l’unico quotidiano di proprietà di Rupert Murdoch a schierarsi per il Remain, in questo assecondando l’orientamento dei propri lettori. Nel complesso però la campagna per Remain, costruita sulla razionalità e corroborata da analisi fattuali e previsioni economiche, ha raggiunto una massa critica di lettori molto inferiore a quella dei giornali di destra. Questa valutazione introduce un tema critico: la crescente distanza della categoria dei giornalisti dalla working class, il sottoproletariato che sembra aver rappresentato il grosso dei leaver. Una distanza culturale e sociale denunciata dall’intellettuale, scrittore e attivista Lgbt Owen Jones, studi a Oxford, ma estrazione sociale non privilegiata. Già nel 2011, nel suo saggio Chavs, Jones aveva descritto un processo che nel Regno Unito va avanti da almeno 40 anni: quella che lui ha definito “la demonizzazione della classe proletaria”. L’incapacità di una intera classe politica e dell’intera categoria giornalistica di comprendere e rappresentare quello che resta della working class inglese in termini non pietistici o dispregiativi. Perché? Perché l’ascensore sociale si è bloccato, e ormai solo i figli della classe media o alto borghese possono aspirare a entrare nel mondo sempre più competitivo ed elitario del giornalismo inglese. In sintesi, i giornalisti inglesi non hanno la più pallida idea della realtà sociale del loro Paese. In un sondaggio citato nel libro, la maggioranza dei giornalisti interpellati non sapeva quale fosse il reddito medio in Gran Bretagna.
Quanto alla Bbc, fonti interne ci hanno confermato una tensione spasmodica a una informazione equidistante: e non sembra assurdo speculare che su tanta cautela abbia pesato il fatto che il ministro della Cultura responsabile del nuovo assetto del servizio pubblico John Whittingdale sia un fervente euroscettico. Nei dibattiti televisivi sulle altre reti ha prevalso la ‘pancia’, il messaggio populista ‘Take back control’, più immediato ed efficace del razionale ‘Stronger in Britain’.
Il referendum su Brexit è stato letto come una vittoria dei vecchi sui giovani. Può essere anche visto come una straordinaria affermazione dei vecchi media sui nuovi. Nella sua analisi Winners in Brexit: old people, old media, pubblicata il 27 giugno sulla Columbia Journalism Review, Robert Colvile (ex comment editor del Daily Telegraph e oggi direttore delle news per BuzzFeed Uk) commenta così il risultato: “Durante la campagna si è parlato molto di data driven targeting e lo sforzo informativo sui social media è stato costante. Ma quello che è emerso è che ciò di cui c’era davvero bisogno non erano like e retweet, ma le vecchie bestie: la stampa tradizionale, e in particolare gli esaltati tabloid inglesi”.
’Vote Leave’, secondo Colvile, ha vinto perché ha individuato rapidamente i messaggi più efficaci per i suoi lettori: che la Gran Bretagna mandava 350 milioni di sterline alla settimana all’Europa; che quei soldi avrebbero potuto essere utilizzati per supportare il Sistema sanitario nazionale; che i flussi migratori erano eccessivi, e presto sarebbero state aperte le porte a un milione di turchi. Un esercito di commentatori, fact-checker e giornalisti ha tentato, durante la campagna, di dimostrare la falsità di questi messaggi: il risultato è che si sono fissati ancora più profondamente nella mente degli elettori – o che la battaglia informativa ha portato gli stessi elettori a concludere che non potevano fidarsi di nessuno.
«La lezione, in altre parole, è che qualunque medium si usi, vecchio o nuovo, è sempre più facile articolare la propria versione della realtà, specialmente se gioca sulle paure del tipo di elettori snobbati dalle élite delle grandi città. Può darsi che la stampa tradizionale, cartacea, sia moribonda. Ma in questa campagna ha vinto per l’ennesima volta sui giovani utenti di social media che l’hanno abbandonata».
Sabrina Provenzani