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 2016  luglio 22 Venerdì calendario

IO, LE GARE E I POLLI [INTERVISTA A FREDDIE HUNT] Stirling Moss: «James, sei estremamente veloce: come ci riesci?»

IO, LE GARE E I POLLI [INTERVISTA A FREDDIE HUNT] Stirling Moss: «James, sei estremamente veloce: come ci riesci?». Hunt, di getto: «Big Balls!». Un’altra volta, dopo la vittoria nel Gran Premio di Gran Bretagna 1976, ancora Moss, a bruciapelo: «Cosa significa la vittoria?», e lui: «Nove punti, 20 mila dollari e un sacco di felicità». Poi aggiunse: «Mi offri una sigaretta?» Ancora: nel 1978, sempre in Gran Bretagna, Hunt finì in testacoda in rettilineo, fatto piuttosto singolare. Tornato ai box, spiegò: «Le gomme mi hanno giocato un bello scherzo: erano di dimensioni differenti; stamattina erano tutte perfettamente uguali, ma poi hanno cambiato taglia». James Hunt era così: bello, veloce e incomprensibile. Lo dicevano sex Symbol, ma – come sempre – erano le donne a sceglierlo. Lo dicevano spaccamacchine – Hunt the Shunt, Hunt l’incidente, era il suo soprannome negli anni della Formula 3 –, ma quando in F1 ha avuto un’auto competitiva a disposizione (la McLaren, perché prima correva con la Hesketh), ha fatto realmente bene e sbagliato poco. Lo dicevano acerrimo nemico di Lauda, e invece erano semplicemente colleghi e rivali, con due temperamenti opposti. Certo, con un solo titolo conquistato, nel 1976, in modo rocambolesco – dopo un testa a testa con Niki per l’intera stagione e dopo l’incidente in cui Lauda rischiò la vita – con la fama meritata di sciupafemmine, la faccia da adorabile guascone e quel sorriso affascinante e candido che lo accomunava a due altri miti d’Oltremanica, George Best e Barry Sheene, era difficile sostenere la parte del bravo ragazzo. Lui, in effetti, non l’ha mai fatto. S’è goduto il successo, bevuto la vita (era “larger than life”, come dicono gli inglesi), ha sperperato i guadagni di una Formula 1 in cui gli arabi con le loro quintalate di dollari dovevano ancora arrivare. Ha corso, ha vinto, s’è ritirato, inaspettatamente, dopo il GP di Monaco del 1979, e nel 1993, a 45 anni, è morto, per un attacco cardiaco, proprio quando aveva messo la testa a posto: risparmiava, si teneva in forma - amava la bicicletta da corsa -, con uno stile di vita più consono a una gloria sportiva che si avvicinava ai cinquant’anni. Da quel momento è stato rimpianto: dal mondo della Formula 1, già trasformatosi in un circo meschino, da tutti noi, che in quel ragazzo che portava sulla tuta, al posto degli sponsor, una toppa con su scritto “SEX Breakfast of Champions", vedevamo la gioia di vivere bella e contagiosa. Oltre al rimpianto e alle belle corse, James ci ha lasciato due figli, Tom e Freddie. Quest’ultimo, è pilota a sua volta. E gli assomiglia da morire: stesso fisico – un metro e 78 per 78 chili –, i lunghi capelli biondi, gli occhi azzurri e un’aria gentile e timida, che non è azzardato pensare fosse la stessa di James. Siamo andati a trovarlo a Londra e gli abbiamo chiesto di raccontarsi, e poi raccontarci chi era suo padre. Freddie, non è strano che anche tu sia un pilota professionista? «Strano? Perché?» Perché tuo padre è stato un mito delle corse, e deve essere una bella sfida competere con uno come lui. «Per me era un percorso ovvio da prendere. Ho avuto l’occasione di correre, perché non farlo. Molti uomini vorrebbero correre se potessero, quindi perché no». Perché ami correre? «Per la macchina in sé, la velocità, la potenza, la sensazione che ti dà l’adrenalina. Adoro guidare veloce, è questo». Più di tutto? «Decisamente la velocità». È una sensazione che ti lascia il sangue freddo o te lo scalda? «È adrenalina pura». So che la tua passione è disputare la 24 ore di Le Mans. «Sì, è il mio obiettivo, ma mi mancano i soldi per iscrivermi». Perché preferisci Le Mans rispetto ad altri campionati, come le ruote scoperte, per esempio? «Beh, perché è la più difficile e impegnativa gara che ci sia. Corri per 24 ore di fila. Credo che sia la cosa più bella subito dopo la Formula 1». È una gara molto romantica, in fondo: si corre giorno e notte, i piloti si danno il cambio. «Sì, sì, molto romantica, e una grande sfida». Ma la Formula 1 non è più quella di una volta. «Le auto non sono divertenti, i piloti non sono divertenti, le gare non sono divertenti. Troppe regole, non puoi fare questo, non puoi fare quello. Le gare non sono più interessanti». Le corse cosa sono per te: un sogno, un lavoro? «Sono un lavoro a breve termine. Non credo correrò per tutta la mia vita, è quello che faccio ora». E il sogno? «Guadagnare abbastanza per comprare della terra, forse in Africa, forse in Sud America. Voglio scappare dal mondo». Perché? «Non so bene perché. Non mi piacciono i grandi assembramenti di persone. Amo i posti tranquilli, pacifici, immersi nella natura. Niente folla, spintoni, code, traffico». Ma un circuito è un posto molto trafficato! Le auto, i suoni assordanti... «Questo è un lavoro. Amo le auto da corsa, ma tutto il resto che ha a che fare con questo mondo non mi piace. Ovviamente non è come andare in ufficio. Con le corse guadagno soldi e mi diverto anche parecchio». Qual è il tuo stile di guida, in pista? Sei un pilota preciso? «Preciso non è la parola giusta (ride, ndr). Aggressivo, istintivo, come mio padre, ma meno preciso. Faccio molti più errori. Ci metto molto a capire un circuito, dovrei migliorare in questo. Quando entro, vado subito a cannone, e spesso questo significa finire a muro (ride, ndr)». Quando hai guidato per la prima volta un’auto da corsa? «Nel 2006». E la prima cosa a motore della tua vita? «Una moto, a 9 o 10 anni. Una piccola 80 cc, divertente». Quindi dopo che tuo padre era morto? «Sì. lui se ne andò quando avevo cinque anni. Mi ricordo che correvamo con le moto nel giardino di casa, e quando venivano degli amici organizzavamo delle gare». È stato facile essere il figlio di uno come James Hunt? «Me lo hanno domandato spesso, ma non so rispondere. Per me è semplicemente la mia vita, la normalità. Alcuni dicono che sia difficile essere figli di campioni, ma io non posso dire che sia stato difficile essere figlio di mio padre, ed è una cosa che non mi ha mai preoccupato». Che tipo di pilota era, ai tuoi occhi? «Aggressivo e istintivo. Anche calcolatore, ovviamente tutti lo erano, ma lui era molto istintivo». Aveva quest’immagine pubblica di playboy, ma sulla pista era uno di quelli veri e tosti. «Sì, sì. Era molto appassionato, dedicato al massimo al suo lavoro. E devi esserlo, altrimenti rischi di morire». James è un mito, una leggenda. Sia per il suo stile di vita sia per le sua abilità nella guida. A te piace che le persone lo ricordino anche per il suo stile di vita? «Sì, credo che una delle ragioni sia proprio il modo in cui si comportava, il suo carattere. Alla fine, lui ha vinto solamente dieci gare e un titolo mondiale. Paragonandolo ad altri piloti, è nulla. Ma le persone lo hanno amato e lo amano ancora tantissimo, appunto per il suo stile di vita. E la stagione del 76, quella della rivalità con Niki, è stata una delle più drammatiche e combattute della storia. Ecco perché lo amano». Cosa pensi di quegli anni? «Fu grandioso, e sono molto orgoglioso di ciò che ha fatto. Non lo posso definire il più grande pilota di tutti i tempi, non quanto Senna o Fangio, ma credo che sia stato uno dei più romantici e carismatici, e forse uno di quelli che ricorderemo per sempre. E questo mi rende molto orgoglioso». Dicono che cambiò quando diventò padre. «Si calmò. Cercò di rimettere in carreggiata la sua vita». Uno stile di vita più lento. «Sì, mettere da parte soldi e tornare di nuovo in splendida forma: credo che fossero questi i suoi obiettivi una volta divenuto padre (ride, ndr)». Cosa ricordi di lui? Eri molto piccolo quando se ne andò. «Ricordi di famiglia, di casa. Qualche volta andavo alle corse, ma non così spesso. La maggior parte sono ricordi di vita quotidiana a casa, lo, mio fratello e papà». Ed era un padre divertente? «Sì, molto. Era davvero paziente con me. Magari piangevo la notte e lo svegliavo, ma lui non si arrabbiava mai. È stato un grande papà, assolutamente». Tuo fratello corre? «Ha preso la licenza, ha fatto qualche test, ma non corre. Se vuoi correre devi concentrarti su quello al cento per cento, e lui fa anche dell’altro». Che tipo di guidatore era James, sulla strada? «Non prendeva alcun rischio, era attento, mai spericolato». Cosa pensi del film Rush, che ha raccontato tuo padre e la rivalità con Lauda? «Un film piacevole, non posso lamentarmi: potevano fare di meglio, ma anche molto peggio. Hanno tralasciato qualche dettaglio, ma il problema è che Chris Hemsworth non ha fatto un lavoro eccezionale con il personaggio di mio padre. Al contrario, Daniel Bruhl ha interpretato molto bene Niki». Nel film, James sembra soprattutto un ribelle, ma non era solamente questo. «Ovvio, ma non potevano aggiungere troppi dettagli. Alla fine funziona così con i film. A tutti piace Top Gun, ma penso sia molto distante dalla realtà dei piloti da caccia (ride, ndr)». E tua madre, che ha fatto a tempo a vederlo (prima di morire un anno dopo l’apparizione del film, ndr), che cosa ne pensava? «Anche lei non era molto felice. Il legame tra noi e James era fortissimo, e quando fanno un film su nostro padre e ci sono dettagli sbagliati, non è bello. Ma è un buon lavoro, e ha avvicinato le nuove generazione alle corse degli anni 70». C’è molto interesse nei giovani per quegli anni, per pochi piloti come Peterson, o tuo padre. «Esatto. Mio padre, Niki, Ronnie, Laffite, Clay, questo tipo di piloti (nell’ordine, Lauda, Peterson, Jacques Laffite, Clay Regazzoni, ndr). Molto appassionati. E Gilles, ovviamente». Lauda era un po’ noioso, forse. «Sì, forse (ride, ndr)». Com’è stato crescere con l’esempio di James, che conduceva, o aveva condotto fino a divenirne il simbolo, una vita un po’ pazza. «Non saprei, reputo la mia infanzia normale. Non era un’infanzia comune, ma solo perché mio padre era famoso, lo sapevo che era famoso, che era un pilota, ma ero piccolo e non realizzavo bene cosa volesse dire. Per me era tutto normale». Ti è mai capitato di pensare a lui come a una sorta di angelo che ti protegge. «Sì, credo di si. Credo che dopo la morte, in qualche maniera, lo spirito delle persone non sparisca nel nulla. E prima delle gare, sì, penso a lui». Cosa credi che ti direbbe, tuo padre, a proposito della tua carriera di pilota? «Non saprei, realmente». Tornando a te, perché ti piace la natura? «Sono cresciuto in campagna, a contatto con gli animali e la natura, così ho imparato ad amarli. Mi affascina l’equilibrio fragile degli ecosistemi, qualcosa che ci mette migliaia di anni a svilupparsi, diventando un universo così complesso. L’essere umano è un cancro che distrugge tutto, e questo mi fa arrabbiare molto. Quando sono in una grande città, circondato da migliaia di persone, penso sempre a come stiamo mortificando il nostro pianeta. Nel mio piccolo, cerco di cambiare qualcosa. Ovvio, non posso cambiare il mondo, non sono il Primo Ministro inglese o il presidente degli Stati Uniti. Cerco di comunicare le cose giuste attraverso i social media, e faccio volontariato per la salvaguardia dell’ambiente». Per esempio sei stato ambasciatore della Formula E. «Promuovere una mobilità sostenibile credo sia una buona cosa. Per questo mi piace il campionato in cui si usano F1 con motori elettrici. Tutti dicono che non bisogna più contare sul petrolio, ma continuiamo a farlo. E’ pazzesco. Nessuno, oggi, può fermare il business, ma il petrolio si esaurirà velocemente. Dobbiamo puntare sulle fonti energetiche alternative». Dove vivi? «Nel West Sussex». Usi l’auto? «Sì». Moto? «No». Bici? «Sì, una bicicletta degli anni 70, normalissima». Com’è la tua vita quotidiana? «La mia giornata lavorativa è allenarmi molto e cercare sponsor. Nel tempo libero ho una vita normalissima. Esco con gli amici, gioco a biliardo. E allevo polli, polli speciali». Deve essere rilassante, prendersi cura di questi animali. «Sì. Raccolgo le uova e ne mangio parecchie (ride, ndr)». Leggi libri, guardi film? «Sì, leggo qualche libro, principalmente di viaggio. Guardo documentari, ma non molto, boh, forse una mezz’ora al giorno. Non sono un fanatico delle serie tv». Che cosa significa avere stile? «Non lo so, ho sempre badato a essere semplicemente me stesso. Cerco di essere un gentiluomo, perché mia madre mi ha educato in una certa maniera». Essere se stessi è forse la più sublime forma di eleganza. L’anello che porti al mignolo della mano sinistra era di tuo padre? «No, di mamma». Hai qualcosa di tuo padre che porti con te? «A casa ho tutti i suoi caschi, le sue tute, i trofei». Ma c’è qualcosa a cui tieni maggiormente? «No. Per me sono cose di famiglia, a cui teniamo tutti. C’era però un paio di scarpe di mio padre, che a mio fratello erano grandi, e che invece a me andavano bene: le ho usate molto e le ho distrutte (ride, ndr)». Assomigli molto a tuo padre, mentre tuo fratello no. «Gli assomigliano in maniera differente. Quando aveva 18, 19 anni, mio fratello era identico a papà. Se prendi una sua foto dell’epoca, puoi dire che ci siamo scambiati il ruolo». Sei fidanzato? «No, single». Tu, le gare e i polli. «Esattamente».