Maurizio Serra, Sette 22/7/2016, 22 luglio 2016
ANITA, MOGLIE DEVOTA DELL’”INTOCCABILE” MAESTRO
«Garibaldi amava Anita/ch’era la sua preferita». Non so se la bella canzone di Bruno Lauzi possa servire d’epitaffio ad Anita Gütermann in von Karajan, di cui apprendo soltanto ora la scomparsa quasi centenaria (era nata nel 1917), pochi mesi or sono. Ma ne dubito. Primo, perché lui amava solo se stesso, e semmai le due figlie, che però non aveva avuto da Anita. Secondo, perché lei invece lo amava con tale cieca dedizione che difficilmente avrebbe potuto essere ricambiata anche da un uomo affettivamente meno arido. È una storia di cui conosco qualche riflesso, che merita di essere rievocata.
In vita e all’apice della fama, Herbert von Karajan faceva sorvegliare ogni informazione che lo riguardasse da una batteria di avvocati meno benevoli di un branco di dobermann a digiuno. È il motivo per cui, fino ad anni recenti, le sue cosiddette biografie sono state quasi sempre agiografie su carta patinata, che lo riprendevano in tutte le pose dittatoriali-direttoriali, sportive e marziali, ma tacevano molti fatti della sua vita. Si dirà che non contano, dacché un artista dev’essere giudicato solo sul talento, e lui ne aveva da vendere. Karajan non fu solo uno dei più grandi e influenti direttori d’orchestra di tutti i tempi, ma un fenomeno sociologico di dimensioni planetarie. Quando Adorno, che prevedibilmente lo detestava, scrisse che era il Führer succedaneo di una Germania che si rialzava dalla sconfitta e dalle macerie, per approdare al miracolo economico e ridiventare la prima potenza del continente, esagerava. Ma di poco.
Era nato a Salisburgo nel 1908 in una famiglia di origini greco-macedoni. Il bisnonno, filologo e uomo politico, si era guadagnato un titolo nobiliare del Kaiser tedesco, ragion per cui Herbert poté conservare il “von” a cui teneva moltissimo, anche quando fu abolito in Austria dopo la Grande guerra: lo persero così Robert von Musil e György von Lukács, che invece non ci tenevano affatto. Il padre era uno stimato chirurgo, primario all’ospedale locale e clarinettista dilettante, la madre di origini croate, sorella del direttore scenico dell’Opera di Vienna. Unica ombra nel quadretto familiare era il fratello Wolfgang, maggiore di due anni, musicista dotato anche lui, adorato dai genitori, di cui il minore Ritter Heribert, detto Herbert, fu subito geloso. L’uomo che avrebbe imposto la sua immagine ispirata su centinaia di copertine di dischi, manifesti e riviste di moda, esibiva il volto perfetto che gli anglosassoni chiamano da matinée idol, su di un corpo sgraziato. A parte la statura napoleonica (comune, peraltro, a molti divi del podio) soffriva di lancinanti dolori intercostali, che richiesero numerosi interventi chirurgici fino in tarda età, e rischiarono più volte di paralizzarlo. Era inoltre affetto da una forma di balbuzie che lo isolava: donde il bisogno di emergere in tutto, la musica, lo sport, il successo sociale. Una forza di volontà, che non si può non ammirare, gli permise di piegare il fisico a ciò che voleva farne.
Non solo opportunismo. Intrapreso un duro tirocinio nei teatri di provincia, pensò di consolidare la sua promettente carriera iscrivendosi per ben due volte al partito nazista, in Germania e ancora in Austria, prima dell’Anschluss. Cercherà poi di giustificarsi, quando studiosi del dopoguerra lo inchioderanno a quella scelta, con il bisogno di garantirsi un posto nel Terzo Reich dopo il 1933. La scusa è legittima, in quanto senza la tessera non si poteva sfondare, anche se lo zelo che manifestò allora non era forse dettato solo da opportunismo. Frattanto, si era sposato una prima volta, nel 1938, con una cantante d’operetta che aveva dieci anni più di lui, con la quale l’intesa fu essenzialmente artistica.
L’astro emergente di Karajan gli attrasse l’odio del suo principale rivale nella generazione precedente, Wilhelm Furtwängler, che disprezzava i nazisti, ma aveva scelto di rimanere in patria come guardiano della grande cultura germanica, dissanguata dall’esodo dei musicisti ebrei e democratici. Anche a molti bonzi del regime, Hitler in testa, Karajan non andava a genio, troppo moderno, vibrante, sensuale nella ricerca del suono perfetto, con un nitore interpretativo che richiamava la lezione degli italiani Toscanini e De Sabata più che le pesantezze dei Kapellmeister. E qui intervenne Anita, conosciuta all’inizio del conflitto, che aveva già un primo marito e una figlia, ma perse la testa per lui. I Gütermann, ricca famiglia d’imprenditori nel campo delle macchine da cucire, non erano affatto invisi al regime, nonostante l’origine in parte ebraica. Le benemerenze acquisite con le forniture militari consentirono loro di entrare nella ristretta categoria degli Ehrenarier, o ariani d’onore, come il feldmaresciallo Milch, numero due della Luftwaffe, la nuora di Richard Strauss e pochi altri. Anita, perfetta incarnazione della Valchiria, bella, bionda, alta e burrosa, era molto ammirata da Goebbels, dittatore culturale del Terzo Reich, che non poteva evidentemente negarle alcunché. Da allora l’ascesa di Karajan, con la nuova moglie-agente sempre al suo fianco, non conobbe soste, favorita dalle difficoltà con il regime dell’umorale Furtwängler. La Germania non mancava anche allora di bacchette di prim’ordine: Knappertsbusch, Keilberth, Böhm, Abendroth (che sarebbe passato ad Est dopo il 1945) e altri, bravissimi nel repertorio tedesco, ma non in grado di imporsi, come lui, anche in quello italiano, russo e francese.
Nelle ultime settimane del conflitto, Herbert e Anita si rifugiarono nell’Italia del nord, dove vantavano amicizie autorevoli, fra cui i de Banfield, i Visconti di Modrone e Aga Hruska, il dentista del bel mondo, che ha poi lasciato un interessante libro di memorie. Karajan, tralasciò provvisoriamente il “von” e spacciandosi per... armeno, riuscì a riprendere una certa attività subito dopo la Liberazione, tra Milano e Trieste, prima di essere colpito da una procedura di denazificazione. Ironia della sorte, essa fu più rapida e indolore nel suo caso che in quello di Furtwängler, che pur si era speso per salvare i perseguitati e aveva rifiutato di dirigere nell’Europa occupata dalle truppe del Reich. Ma le case discografiche anglosassoni avevano ormai puntato sul più giovane e ambizioso. Big money, piccoli scrupoli.
Uccellino zoppo. Karajan passò da un trionfo all’altro nei decenni successivi, fino alla morte che lo colpì nell’estate 1989, all’apice del potere, anche se gli ultimi anni furono offuscati da dissidi con la “sua” Filarmonica di Berlino. Nel frattempo, Anita era stata ripudiata con discrezione per lasciare il posto alla terza moglie, la modella francese Eliette Mouret, la cui età anagrafica è più segreta della formula della Coca-Cola, ma che al maestro avrebbe dato le due figlie a lungo attese. La discrezione era garantita, a quanto si diceva, anche da un cospicuo assegno mensile, in cambio del quale Anita si impegnava a tacere con giornalisti e biografi. Nella vita di ogni giorno, era però molto più loquace, e di questo posso fornire una modesta testimonianza. Anita tornava spesso in Italia, ospite da amici. Una volta, mi trovai seduto al suo tavolo, a un matrimonio in Toscana. Fisicamente era rimasta più o meno quella delle fotografie di un tempo, abbronzata e sportiva. Il riso era squillante, la falcata imperiosa, la stretta di mano un po’ mascolina. Le erano stati attribuiti vari flirt tra cui, forse per ripicca, uno con Bernstein. A tennis, l’indomani, stracciò altri ospiti che avevano la metà dei suoi anni. Continuava imperterrita a utilizzare il cognome dell’ex marito, e se qualcuno avesse osato chiamarla diversamente, lo avrebbe trapassato con la spada di Sigfrido. Parlava, come capita negli ambienti cosmopoliti, mescolando le lingue, una delle quali vagamente imparentata con l’italiano. Ma a ogni frase ripeteva Herbert qua ed Herbert là, neanche si accingessero dopo pranzo a ripartire insieme per una prova, un concerto, una crociera. Sembrava una teutonica Cio-Cio-San, in attesa di un fil di fumo sull’estremo confin del mar.
Non potevo fare a meno di pensare alla sensazione così diversa che comunicava lui, a Salisburgo o a Berlino, quando scendeva dalla Mercedes, rattrappito, accigliato, marmoreo, la criniera biancoazzurra al vento, a passetti esitanti da uccellino zoppo, il torace ingabbiato in un busto ortopedico, sovrastato da segretari, autisti, guardie del corpo, aitanti e nerovestiti. Sola presenza femminile nel gruppo, una delle figlie gli dava amorevolmente il braccio. Messa in scena perfetta, sin nell’ammissione del degrado fisico, che preparava la metamorfosi, quando sarebbe riapparso sul podio poco dopo, domatore non solo della musica ma delle umane sofferenze. Gli fui presentato in camerino da quel grande gentiluomo che era il sovrintendente Stresemann, figlio dello statista di Locarno e di Weimar: «Maestro, der italienische Vizekonsul!». Mi gratificò di uno sguardo benevolo, sfiorandomi la mano, e mi congedò con un gutturale «bene, bene», per girarsi verso il bicchier d’acqua che gli porgevano. L’udienza era durata mezzo minuto.
Recentemente, quando non immaginavo che fosse ancora viva, mi è capitato di leggere nel volume che un ricercatore austriaco, Klaus Riehle, ha dedicato ai primi anni postbellici di Karajan, la cronaca laconica del ripudio di Anita. Avvenne nel 1955, allorché i due coniugi erano già estraniati, ma lei credeva di aver piazzato il suo colpo migliore. A quell’epoca, infatti, ultimo ostacolo sulla strada della fama universale, il maestro non aveva ancora ottenuto il permesso di dirigere negli Stati Uniti per l’opposizione degli esuli tedeschi. Anita riuscì a smuovere mezzo mondo, finché, pazza di gioia, corse da lui, con un telegramma in mano, gridando: «Herbert, ce l’abbiamo fatta. Partiamo”». Lui la squadrò gelidamente e rispose: «Io parto. Du nicht».