Vittorio Zincone, Sette 22/7/2016, 22 luglio 2016
«ECCO PERCHÉ LO SCUDO CROCIATO È STATO UN PARTITO PIÙ LAICO DEGLI ALTRI»
C’era una volta la diccì. Lo Scudo Crociato. La Balena Bianca. Il partito Stato, il partito delle correnti, dei dorotei, dei morotei, dei basisti, degli andreottiani…Il partito di cui fanno parte sia Giorgio La Pira, soprannominato “il sindaco santo”, sia Vittorio “Ajo oio Campidoio” Sbardella, detto lo Squalo. Il partito in cui c’è tutto e il contrario di tutto. «Nel ventre della Balena convivevano la reazione e il progresso, l’onestà e la corruzione, la riforma agraria e la speculazione edilizia, il buon governo e il colera, la santità e la mafia, Bachelet e Ruffilli vittime del terrorismo e la P2». Lo scrive Marco Damilano in Democristiani immaginari (2006), che è un catalogo travolgente di democristianerie assortite. Quando nel 1993 la Dc muore spiaggiata, insieme con tutta la Prima Repubblica, Michele Serra su Cuore gli dedica un’orazione funebre, Souvenir Dc: «I caffé dell’Ucciardone, i ministri coi cappucci, i figlioli di Leone, le Carlucci (…). Le uniformi di Cossiga, i notabili in grisaglia, il costume con la riga di Bisaglia». E ancora: «Nonno Alcide in aeroplano, sull’Oceano americano, la Renault senza decoro di Aldo Moro».
«La Renault senza decoro» è quella rossa dove il 9 maggio 1978 viene trovato il corpo accartocciato di Moro, assassinato dalle Br. Nonno Alcide, invece, è Alcide De Gasperi.
C’è De Gasperi a capo del gruppo che si riunisce clandestinamente nell’abitazione milanese dell’industriale Enrico Falck per dare vita alla Democrazia Cristiana nell’ottobre del 1942. «De Gasperi in pochi anni diventa il vero punto di equilibrio della democrazia in Italia». Lo dice Ciriaco De Mita, ex segretario Dc anni Ottanta ed ex presidente del Consiglio, che ci accompagna in questo viaggio scudocrociato. De Mita è democristiano da sempre. Nel 1942, ha solo quattordici anni ma già si occupa di politica: «A metà degli anni Quaranta ero presidente dei giovani di Azione Cattolica. Quando durante una riunione dei comitati antifascisti sentii alcune espressioni forti contro la Chiesa pensai: “Non ci siamo!”». Nel 1946 malgrado non possa votare per motivi d’età, De Mita è attivo nella campagna elettorale che sforna l’Assemblea Costituente e che decide la forma repubblicana del Paese. La Democrazia Cristiana non dà un’indicazione di voto. «La stragrande maggioranza dei diccì campani era a favore della Monarchia – racconta De Mita – Io, che ho sempre avuto la tentazione della guida, costrinsi un gruppo di ragazzi a giurare che avrebbero sostenuto la Repubblica anche se nessuno di noi poteva votare. Mio padre, sarto, che a Nusco era vice segretario cittadino dello Scudo Crociato e che votava Monarchia, si lamentava con mia madre: “Che figura! Che figura!”. La sera delle elezioni cercai di discuterne, ma lui chiuse la conversazione dicendo che a tavola non si parla di politica».
La Dc manda alla Costituente una classe dirigente multicolor: eredi del popolarismo sturziano, ex partigiani, giovani professori, sacerdoti illuminati, intellettuali al sapor d’incenso. Tra gli altri ci sono Alcide De Gasperi, Attilio Piccioni, Paolo Emilio Taviani, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, Amintore Fanfani… Spiega De Mita: «Un partito articolato, ma unito. La pluralità delle opinioni si misurava sull’intelligenza più che sulle ragioni del contrasto. Ho letto tutti gli atti della Costituente. E ho letto anche che oggi per supportare le riforme renziane c’è chi rispolvera le pulsioni monocameraliste del Pci di quegli anni, scordandosi che quelle proposte non puntavano a una democrazia efficiente, ma al modello del Soviet supremo».
La rottura con Pci e Psi. Fino alla primavera del 1947 la Dc collabora dialetticamente con gli altri partiti alla stesura del testo costituzionale e governa con il Pci e con il Psi. Poi De Gasperi rompe. La vulgata a sinistra ritiene che sia il frutto amaro del viaggio a Washington che il leader Dc compie nel gennaio di quell’anno. Pietro Nenni, segretario del Psi, annoterà: «Il viaggio in America ha cambiato De Gasperi più di quanto credessi». De Mita: «In realtà la collaborazione all’epoca non poteva proseguire. I ministri comunisti e socialisti nelle riunioni a Palazzo Chigi erano collaborativi, ma appena scendevano in piazza organizzavano manifestazioni contro i provvedimenti del governo. Diciamo che il loro sforzo non era concentrato verso il consolidamento del sistema della democrazia rappresentativa. De Gasperi stesso propose alla direzione della Dc di interrompere la serie di governi nati intorno al Comitato di liberazione nazionale. La Direzione si disse contraria, perché non avevano idea di quali sarebbero state le conseguenze di questa rottura, ma De Gasperi li convinse. Era lui che guidava». Nel discorso con cui presenta il suo IV governo, il leader trentino per stemperare le polemiche cita il suo buon rapporto con Giacomo Matteotti, martire del regime mussoliniano e il cameratismo anti-fascista con cui hanno collaborato Dc, Pci e Psi fino a quel momento. Ma dice anche che c’è un’emergenza e bisogna evitare la rovina economica e finanziaria del Paese. De Mita: «L’accordo che De Gasperi fa con liberali, repubblicani e socialdemocratici e con cui si presenta alle elezioni del 1948 non è basato sulle opinioni dei partiti, ma su un programma. È una politica. De Gasperi in quel momento inventa una nuova istituzione: la coalizione. Nella coalizione le persone non hanno lo stesso pensiero, ma mettono da parte le ambizioni personali e perseguono uno stesso obiettivo».
18 aprile 1948. Elezioni feroci. Il Fronte Democratico Popolare di cui fanno parte il Pci di Palmiro Togliatti e il Psi di Pietro Nenni usa come simbolo la faccia di Garibaldi. I Comitati civici organizzati da Luigi Gedda e voluti da papa Pio XII preparano dei cartelloni con un volto dell’eroe dei Due Mondi dietro al quale si nasconde quello di Stalin.
Giovannino Guareschi, scrittore e polemista, inventa uno slogan definitivo: «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no». «La Dc però non era ancora un partito organizzato – racconta De Mita – Ci penserà Fanfani negli anni Cinquanta a strutturarlo. Io nel ‘48 feci molti comizi. Mentre i comunisti e i socialisti puntavano tutto sull’attenzione al popolo e sui problemi sociali, la Dc puntava sulla dimensione politica e sulla consapevolezza che in quel momento si doveva fare una scelta di libertà».
Vince la Dc. Sale la tensione. Quando d’estate Antonio Pallante, studente esaltato, attenta alla vita di Palmiro Togliatti con una revolverata, il popolo della sinistra scende in piazza, spuntano i mitra. La leggenda narra che a quel punto De Gasperi chiama Gino Bartali, che è impegnato nel Tour de France e che ha conosciuto anni prima, per spronarlo alla vittoria: «Sarebbe importante, qui c’è un’enorme confusione». Bartali vince. Il Parlamento interrompe i lavori per applaudire il trionfo ciclistico. Per le strade si riduce un po’ la tensione.
Colpi bassi. Cominciano gli anni del cosiddetto centrismo e la Dc consolida il suo potere. Alla segreteria del partito si succedono Attilio Piccioni, Paolo Emilio Taviani e Guido Gonella. Al governo, tetragono, c’è De Gasperi. «Questa storia del partito pigliatutto, del partito Stato, però non è vera – spiega De Mita – La Democrazia Cristiana non ha praticamente mai fatto governi da sola. Si è sempre accordata con le forze laiche, che era un po’ come chiedere a qualcuno che legge solo giornali sportivi di immergersi in un saggio politico». Nel 1953, la Balena Bianca si presenta alle elezioni apparentata con le cosiddette “forze laiche” e con una legge elettorale che assegna il 65% dei seggi a chi conquista il 50% dei voti. La legge Truffa. «Prima che venisse approvata intervenni all’Università per spiegare la mia contrarietà al fatto che si votasse la fiducia su una legge elettorale», racconta De Mita. Anche quella è una campagna elettorale movimentata, con qualche colpo basso. Un manifesto dello Scudo crociato recita: «Donna italiana anche la tua femminilità è affidata al voto!», in primo piano c’è una signora elegante con la scheda elettorale in mano e sullo sfondo una cicciona col pugno chiuso. La Dc non raggiunge il 50%. «Moro in quell’occasione dimostrò per la prima volta la sua finezza d’analisi – spiega De Mita – Disse che il voto degli italiani era stato un voto intelligente perché aveva premiato i governi della Dc, ma allo stesso tempo era anche una sollecitazione a capire le domande che emergevano dalla società. Se penso che lui è passato per uno dal linguaggio incomprensibile… E sarebbero comprensibili questi scemi di oggi che quando parlano non dicono niente?».
Il governo si dimette, De Gasperi si riprende la segreteria del partito, ma solo per qualche mese. Tra il 1953 e il 1954 la Dc, cambia pelle: fuori la vecchia generazione che aveva frequentato il Partito popolare e dentro i nuovi che si raggruppano intorno alla corrente di “Iniziativa democratica” e al leader Amintore Fanfani. De Mita: «Fanfani era professore alla Cattolica. Andai a sentire una sua lezione e non mi ci trovai. A me piace il pensiero delicato, lui aveva un pragmatismo veloce». Tra i soprannomi di Fanfani c’è “il Motorino”. «A una riunione dei giovani democristiani parlai di fanfanismo deteriore. E ricordo ancora un convegno durante il quale Fanfani, in piena strutturazione del partito, aveva convocato i diccì juniores per dar vita a un giornale. Arrivai nella sessione pomeridiana convinto di discutere temi e linea editoriale, Fanfani mi stoppò: «Di questo abbiamo parlato stamattina, ora discutiamo l’impaginazione». Replicai un po’ arrabbiato: «“Ma io non sono un tipografo”».
Comincia un ciclo trentennale di elezioni e congressi, congressi e elezioni con cui le correnti dc regolano i conti interni e cambiano linea al partito. L’avversario di Fanfani nella corsa per la segreteria è Attilio Piccioni. Proprio durante la faida tra i due scoppia uno scabroso caso di “nera”: Wilma Montesi, una giovane romana, viene trovata morta sulla spiaggia di Capocotta. Nell’indagine viene coinvolto il musicista Piero Piccioni, figlio di Attilio, che poi verrà scagionato. Il caso di cronaca, diventa caso politico. Giancarlo Pajetta, dirigente del Pci, conia il termine “capocottari” per insultare i diccì. Fanfani cavalca la difficoltà di Piccioni. E negli anni successivi Giulio Andreotti ogni volta che sentirà odore di tranelli politici dirà: «Mi sta venendo in mente come è montato il caso Montesi». De Mita: «Non credo che sia stato addirittura organizzato un complotto. Ma se una persona sta correndo sotto la pioggia e trova un albero sotto cui ripararsi, si ripara, non è che abbatte l’albero».
Il petrolio di Mattei. Si chiude un’era, De Gasperi muore proprio in quel 1954. «Nella mia vita ho pianto due o tre volte – racconta De Mita – Una di queste è stata quando è morto Alcide». Nel frattempo nasce la Base, corrente di sinistra di cui fanno parte Giovanni Marcora, Ezio Vanoni e lo stesso De Mita. Tra i fondatori finanziatori c’è anche il mega boiardo del petrolio italiano Enrico Mattei, parlamentare Dc della prima legislatura ed ex partigiano bianco. «La Base è un’esperienza culturale complessa – racconta il leader irpino – È l’individuazione su varie parti del territorio di elementi di vivacità culturale, giovani, militanti delusi, persone di capacità straordinaria. A me in questo movimento è sempre piaciuto pensare, elaborare piani. Pasquale Saraceno, economista e collega di Vanoni, proprio durante il congresso Dc di Napoli del 1954, mi disse che un piano è l’individuazione di un insieme di obiettivi e che la stesura dei particolari poi la fanno i geometri o i ragionieri. Ecco, io ho sempre amato la gestione come equilibrio e non come amministrazione. L’elaborazione delle idee e l’organizzazione del consenso necessario per realizzarle, non tanto il fare». A metà anni Cinquanta, e soprattutto dopo la rottura del Psi con il Pci in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria, l’idea che comincia a balenare nella testa di De Mita è la possibilità di un’alleanza con i socialisti. L’ex premier racconta: «Iniziai a riflettere sul come e sul perché. E iniziai a teorizzare non tanto l’alleanza tra i partiti ma la convergenza delle culture che collaborano per la realizzazione di un disegno comune. Questo disegno era l’organizzazione dello Stato moderno, la risposta ai nuovi bisogni, alle nuove libertà e alle nuove relazioni». La gerarchia ecclesiastica non è molto d’accordo. Quando De Mita si presenta per la prima volta alle elezioni nel 1958, i vescovi del suo territorio gli remano contro e appoggiano i suoi concorrenti all’interno delle liste democristiane. «A uno di questi vescovi che cercava di convincermi a non candidarmi proposi un patto: “Lei spiega ai contadini che l’idea del centrosinistra non costituisce eresia e io non faccio la campagna elettorale insistendo su quella posizione”. Il monsignore domandò: “Mi vuole insegnare a fare il vescovo?”. E io replicai: “Lei vuole dire a me come fare politica?”». Alla fine della campagna elettorale De Mita nella piazza di Avellino arrivò ad accusare i vescovi di simonia perché si vendevano le preferenze. Ora spiega: «La cultura più moderna espressa nella Democrazia Cristiana è quella sturziana del popolarismo. Il dato fondamentale è la distinzione tra ruolo religioso e ruolo politico. È una distinzione delle funzioni. Quando don Luigi Sturzo negli anni Venti è costretto a lasciare l’Italia in vista della firma del Concordato tra lo Stato fascista e il Vaticano, si rivela tignosissimo con l’autorità ecclesiastica e fedele sul piano dell’obbedienza alla Chiesa». Allo stesso modo Indro Montanelli nel libro I protagonisti racconta che di fronte all’eventualità voluta dalla gerarchia ecclesiastica di creare una coalizione di centrodestra per amministrare la capitale nel 1952 (tra l’altro proprio intorno alla figura di Sturzo), De Gasperi da antifascista si oppose, dicendo: «Se mi verrà imposto, dovrò chinare la testa, ma rinunzierò alla vita politica». «Vede? – sorride De Mita – La cosa che dovrebbe colpirci di più della storia democristiana è che un partito di ispirazione religiosa sia stato in realtà il partito più laico».
1 – continua