Davide Frattini, Sette 22/7/2016, 22 luglio 2016
IRAN STIPENDI DA SCANDALO
I superstipendi e i bonus di fine anno che arrivano con la festa di Nowruz imbarazzano i manager iraniani. Gli ayatollah al potere hanno sempre celebrato la rivoluzione islamica del 1979 come la rivolta degli indigenti contro l’oppressione da parte dei ricchi. Il presidente Hassan Rohani aveva promesso che l’accordo con i Paesi occidentali sul programma atomico (ha garantito la fine delle sanzioni) avrebbe rilanciato l’economia. La disoccupazione resta invece al 12 per cento e i conservatori, contrari all’intesa sul nucleare, sfruttano queste cifre negative sommate ai salari dei dirigenti pubblici per mettere in difficoltà il leader riformatore. Sono stati i giornali vicini agli oltranzisti a pubblicare i documenti che mostrano come i manager della Cic, la compagnia assicurativa di Stato, abbiano intascato l’equivalente di oltre 25 mila euro in marzo, quando una famiglia media riesce a metterne insieme poco più di 540 al mese. Un capo della Banca Tejarat, sempre pubblica, avrebbe preso lo scorso novembre quasi 210 mila euro. Secondo questa stipendileaks iraniana Safdar Hosseini, che guida il fondo sovrano, guadagna quasi 17 mila euro mensili: ed è stato proprio il presidente a nominarlo. La legge in realtà imporrebbe che le retribuzioni dei manager pubblici non possano essere più di sette volte superiori a quelle del meno pagato tra gli impiegati. Bonus, premi aziendali e incentivi aiutano – come in Europa e negli Stati Uniti – ad aggirare i limiti. Così Rohani è stato costretto a intervenire per chiarire che gli stipendi sono legali ma «contraddicono i valori morali del governo». Anche l’ayatollah Ali Khamenei, la Guida Suprema, ha criticato «i salari astronomici» che comunque gli offrono munizioni per continuare la sua lotta contro le aperture verso l’Occidente. Sia lui che Rohani vivono in modo parco e austero: non riescono a imporre lo stesso stile ai loro dirigenti.
Il turismo punta sui cinesi
Dal suo ufficio a Gerusalemme si «dedica a metà dell’umanità», come Uri Taub dice alla rivista digitale Al Monitor. È capo del dipartimento per l’Asia e il Pacifico al ministero del Turismo e sa che convincere a venire in Israele un miliardo e 300 mila cinesi potrebbe risolvere un’industria messa in difficoltà dalla guerra con Hamas dell’estate del 2014. Quei 50 giorni hanno scoraggiato anche i viaggiatori internazionali più spericolati, così per la prima volta è stato nominato un consigliere per il turismo all’ambasciata di Pechino. Le guide turistiche sono spronate a studiare il cinese e gli alberghi a offrire menu su misura per i gusti orientali. L’obiettivo di Taub è convincere il governo a concedere un visto automatico all’arrivo, visto che la compagnia di bandiera cinese Hainan ha inaugurato i voli diretti dalla capitale all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. La speranza è di riuscire ad attrarre 100 mila cinesi, che raddoppierebbero quelli sbarcati nel 2015. Anche se le 47 mila presenze dell’anno scorso sono già un balzo, restano una cifra minuscola, lo 0,4 per cento dei cinesi che girano per il mondo. L’associazione degli albergatori è convinta invece che Israele debba continuare a puntare sui pellegrini, ebrei e cristiani. Anche perché adeguarsi alle esigenze dei clienti cinesi è costoso per gli hotel locali: dalla traduzione di tutte le scritte al dover garantire un pettine per ogni ospite. «È quello che chiedono sempre», commentano gli operatori.
La missione di Rami: giocattoli ai bambini profughi
Cibo, medicine, generi di prima necessità, 25 orsacchiotti e 36 Barbie. Il primo carico che Rami Adham ha contrabbandato attraverso il confine con la Turchia conteneva anche i regali che sua figlia voleva mandare ai bambini di Aleppo. In cambio ha chiesto una nuova bambola. Di origini siriane, Rami vive in Finlandia da dove ha deciso di aiutare i rifugiati ammassati nei campi dentro il Paese in guerra da oltre cinque anni e mezzo. Ha affrontato ventisette volte dal 2011 i pericoli delle strade o dei sentieri tra le montagne che deve percorrere per non farsi intercettare dalle bande estremiste o dai soldati del regime di Bashar Assad. Da quel primo viaggio i giocattoli non mancano più, anzi sono diventati buona parte del carico.
36 Svizzera fdf
TUTTE LE SERE SOTTO QUEL FANAL
Se passeggiando lungo i marciapiedi di Basilea incappate in uno strano disegno per terra che raffigura, dentro un rettangolo di linee tratteggiate, una sagoma di donna appoggiata a un lampione – un’immagine alla Lili Marleen, per intenderci – capirete che vi trovate nel quartiere a luci rosse di Kleinbasel ed esattamente nell’area di marciapiede dove le prostitute sono autorizzate a esercitare. Lo spiega The Local, che specifica anche che la prostituzione è legale in Svizzera, ma ha le sue regole. Regole che purtroppo vengono spesso disattese dalle lavoratrici del sesso, che tendono a cercare clienti anche al di fuori delle zone di tolleranza. Capita più frequentemente da quando si è verificato un rapido turnover di professioniste e sono aumentate le straniere, in gran parte provenienti dai Paesi dell’Est, che non hanno ben chiaro come comportarsi, ha spiegato il Dipartimento di sicurezza e giustizia di Basilea. Con quei disegni per terra la polizia, sollecitata anche da una petizione di abitanti delle zone “di sconfinamento”, ha inteso rendere tutto più chiaro per le lavoratrici e più facile per gli agenti perseguire quelle che escono dalle aree designate. Sono circa 800 le operatrici del sesso che lavorano nell’area di Basilea, la maggior parte in locali a luci rosse, mentre sono solo una cinquantina quelle che scelgono il marciapiede.
«Non vogliamo tifosi razzisti»
A Europei di calcio conclusi, una coda polemica investe la squadra che ha sorpreso più di tutte per la sua inaspettata performance. Il club islandese ha guadagnato tantissimi fan, non tutti, però, graditi ai giocatori e alla società. È per questo che l’Associazione Calcio Islanda ha pubblicato una dichiarazione in cui prende le distanze e apertamente condanna un post pubblicato su Facebook dal Partito dei Danesi (nazionalista e di estrema destra) nel quale si insulta la squadra francese (che ha sconfitto il team islandese ai quarti) e si sostiene che non ha titolo per giocare agli Europei viste le origini africane della maggior parte dei suoi giocatori. I tifosi cretini, devono aver pensato in Islanda, è meglio stroncarli sul nascere.
Sono passati 21 anni dal massacro di Srebrenica, quando oltre 8 mila musulmani vennero uccisi dalle milizie serbo-bosniache capitanate dal generale Mladic. Le commemorazioni ufficiali si sono tenute come sempre, da allora, l’11 luglio, diventato giorno di lutto nazionale. C’è però un uomo per il quale rievocare quei tragici giorni è un impegno quotidiano. Viene dal villaggio di Buljim, nell’area dove si compì il massacro, si chiama Ramiz Nukic, ma il suo soprannome è “il cacciatore di ossa”. Ogni giorno Ramiz si addentra nei boschi intorno a Bratunac, dove molti uomini e ragazzi cercarono una via di scampo verso la Bosnia all’arrivo delle truppe serbe, in cerca dei resti di quanti furono uccisi proprio lì, sotto gli alberi, durante la fuga. C’era anche lui, insieme con il padre e il fratello, ma fu l’unico dei tre a scamparla. Quattro anni dopo tornò al suo villaggio e in quei boschi, in cerca di quel che restava dei suoi familiari. Intervistato da Dragana Erjavec per il sito Balkan Insight, Ramiz racconta che quel che vide gli gelò il sangue nelle vene: «Abiti e scarpe sparpagliati nel sottobosco, tre scheletri interi davanti ai miei piedi. Ero spaventato, ma qualcosa mi spingeva verso quelle ossa». Da allora, ogni giorno, percorre palmo a palmo la foresta in cerca dei resti dei suoi cari, ma non solo. Grazie a lui, l’Istituto per le persone scomparse di Bosnia-Erzegovina ha potuto identificare oltre 200 persone e oltre 200 famiglie possono ora, forse, trovare un briciolo di pace. I resti di suo padre e di suo fratello li ha individuati l’anno scorso, nell’area di Zvornjk, e ora sono sepolti nel cimitero musulmano di Potocari, vicino a Srebrenica. Il ritrovamento dei suoi cari non ha però esaurito la sua missione. «Quando li ho trovati mi sono sentito così felice che ho deciso di continuare a cercare perché altre famiglie potessero provare lo stesso sollievo che ho provato io», ha raccontato. Così, ancora oggi, nei giorni liberi dal lavoro percorre anche 30, 40 chilometri perlustrando ogni centimetro della foresta. La fatica, dice, la sente solo nei giorni in cui non trova nulla. Lo scorso anno, l’Istituto per le persone scomparse voleva chiudere la ricerca in quella zona, sostenendo che non c’erano più ossa da ritrovare. Ma Ramiz, che vive in povertà a Buljim e mantiene la sua famiglia coltivando fragole, si è fermamente opposto: «Finché io sarò qui e troverò anche il più piccolo osso questa zona non si chiude. Quando smetterò di cercarli, allora saprete che qui non ce ne sono più». Delle oltre 8 mila vittime, solo 7 mila sono state ritrovate. Ne restano altre mille da identificare, e Ramiz lo sa.