Nicola Calzaretta, Guerin Sportivo 8/2016, 22 luglio 2016
LIBERO PER CASO CAMPIONE VERO– [Pier Luigi Cera] C’era una volta. È l’incipit di tutte le fiabe che si rispettino, con re canuti e bionde regine, streghe cattive e orchi famelici
LIBERO PER CASO CAMPIONE VERO– [Pier Luigi Cera] C’era una volta. È l’incipit di tutte le fiabe che si rispettino, con re canuti e bionde regine, streghe cattive e orchi famelici. C’era una volta è invece il gioco di parole per raccontare una storia molto terrena di un giovanotto che il 25 febbraio scorso ha doppiato la boa dei 75 anni, una bella fetta dei quali dedicati al pallone. Prima in campo, poi dietro una scrivania. Stiamo parlando di Pier Luigi Cera di Legnago, centrocampista-libero di Verona, Cagliari e Cesena. L’esordio in A nel 1958 con la maglia gialloblu, l’ultima in B nel 1978-79 con il bianconero del Cesena addosso. In mezzo, dal 1964 al 1973 la fantastica parentesi con il Cagliari con tanto di storico scudetto nel 1970, viatico per la spedizione azzurra in Messico, a un passo dalla leggenda mondiale. Venti e più anni di calci attivi, prima di passare naturalmente a indossare i panni del direttore sportivo del Cesena, fino al 2000. Ed è qui nella cittadina romagnola che Piero, come lo chiamano tutti, ha messo le radici. Ci vediamo a casa sua, bella zona, molto verde. Prepara un caffè e mi dice di dargli del tu. È tutto in perfetto ordine, il parquet lucidato alla perfezione, in un angolino vicino al camino i pochi i ricordi tangibili del suo passato di calciatore. Giusto qualche trofeo e una bella foto in bianco e nero con Gigi Riva. Abbracciati, felici, sudati alla fine di una partita. «Gli anni di Cagliari sono stati ricchi di gioie, non solo sportive. Il legame con la gente è stato fortissimo. Ore prima della partita lo stadio era già pieno. E l’Amsicora di quei tempi era un impianto sportivo sui generis: la curva era tutta in tubi “Innocenti”, la tribuna era formata da gradoni in cemento con i numeri scritti con la vernice». Ma in campo c’era una squadra vera. «La favola è iniziata qualche anno prima, già nella stagione precedente allo scudetto facemmo molto bene. Eravamo forti in tutti i ruoli, e poi c’era Gigi Riva». Sei felice del pronto ritorno del Cagliari in Serie A? «Molto. Cagliari, la Sardegna si meritano questo. Non solo per lo scudetto di 46 anni fa. Da Cagliari sono passati grandi giocatori: Virdis, Selvaggi (campione del mondo ’82), Francescoli, Zola, Nainggolan. Daniele Conti. E tra gli allenatori ti ricordo Claudio Ranieri e Massimiliano Allegri». Quali sono stati i punti di forza della squadra che ha ottenuto la promozione? «Intanto l’allenatore: Rastelli è bravo davvero. E poi Storari, portiere di altra categoria. Quindi Sau, Farias e João Pedro, un giocatore che mi piace molto». Cosa deve fare per rimanere in A? «Attrezzarsi meglio, soprattutto in difesa». La difesa del Cagliari dello scudetto era messa benissimo: solo 11 gol subiti in trenta partite. «Per i campionati a sedici squadre è un record...» ...nonostante le autoreti di Niccolai... (ride) «Io lo chiamavo Agonia, perché camminava quasi trascinandosi e ogni giorno ce n’aveva una. Ma era un ottimo difensore, specie quando doveva marcare i centravanti famosi. Ha fatto qualche autogol, ma la vera prodezza al contrario è un’altra». Direi che è il caso di andare in cronaca. «Giocavamo a Catanzaro, era la stagione ’71 -72. 2-1 per noi, partita quasi finita. Attacco dei padroni di casa, contrasto dubbio in area. Lo Bello dice di no, il pubblico si scalda, mentre il pallone arriva a Niccolai che dal limite della nostra area lo indirizza al sette della porta con una sassata. Non so se avesse sentito un fischio. Sta di fatto che Albertosi non ci arriva, e Brugnera sulla linea, para con le mani. A quel punto il rigore è sacrosanto. 2-2 e fischio finale». Torniamo alla difesa del Cagliari dello scudetto. «Ricky Albertosi tra i pali, il numero uno della Nazionale. Terzino destro Mario Martiradonna, una mignatta. Sandro Mazzola, ad esempio, avrebbe pagato per non essere curato da lui. Numero tre Giulio Zignoli, un campione di generosità. Stopper Niccolai, libero vecchia maniera Beppe Tomasini». Funziona così per metà campionato. Poi che succede? «Tomasini si infortuna gravemente alla sedicesima giornata. E va sostituito. Eravamo in 17, compresi 3 portieri. Mister Scopigno ne discute con me. Io di fatto giocavo davanti la difesa, un po’ alla De Rossi per intenderci. In campo tutti mi cercavano: “Piero dammi una mano”, “ Piero vieni qua”. Diciamo che è stato abbastanza naturale fare qualche passo più indietro, così come è stato naturale offrire un’interpretazione personale al ruolo di libero». Non solo difesa, dunque. «Proprio così. Volevo sfruttare le mie attitudini e le mie qualità. Avrei interpretato il ruolo anche in chiave costruttiva». Nasce con te il libero moderno. «Non so se sono stato il primo in assoluto in Italia. A certi livelli credo di sì. All’estero c’era Beckenbauer, anche lui nato centrocampista. So che negli anni successivi Scirea e Tricella hanno detto di essersi ispirati a me. Beh, la cosa mi ha sempre fatto enorme piacere». Libero per caso, con risultati fantastici: scudetto con il Cagliari e poi uno dei migliori ai mondiali messicani. «In Nazionale ci sono arrivato un po’ tardi, a 28 anni. Nel 1963 ero con l’Olimpica, poi più niente. Nel ’69 Valcareggi mi fa esordire con la Nazionale maggiore, da mediano. E poi anche lì ha giocato a mio favore il caso». I dettagli, prego. «Il titolare era Sandro Salvadore. Ebbe la sfortuna di fare due autoreti nella partita contro la Spagna a due mesi dal mondiale e fu fatto fuori. Allora fu provato Ferrante in coppia con Puja. Morale della favola, nella prima gara in Messico contro la Svezia il libero sono io, con il fido Niccolai stopper». È in quell’occasione che Scopigno dall’Italia disse «Tutto mi sarei aspettato tranne di vedere Niccolai in mondovisione»? «Io non so se il mister abbia mai pronunciato quella frase. Se lo ha fatto, e ci può stare, c’era dentro solo tanto affetto e simpatia per uno dei suoi pupilli». Ad ogni modo il mondiale di Niccolai dura poco. «Si fece male alla caviglia dopo mezzora e fu sostituito da Rosato. Di coppia centrale di quell’Italia fu figlia dell’imprevisto». Fu giusto il secondo posto? «Sì, anche se tre gol di scarto tra noi e il Brasile non c’erano. La partita vera è finita 2-1. Abbiamo sofferto più di loro le difficoltà dell’altura. Noi si andava avanti a scatti, allunghi. Loro palleggiavano». E se ci fosse stato Rivera? «Bella domanda. Nessuno ha mai saputo il perché dei suoi sei minuti finali. Io ho visto che Boninsegna è uscito, non so se ha chiesto lui il cambio. Ti dico, però, che anche io sarei stato in difficoltà a far giocare contemporaneamente Mazzola e Rivera. Chi tenevi fuori? Domenghini? Bonimba o Riva?». E di Italia-Germania 4-3 che mi dici? «Che è assurdo che sia considerata la più bella partita del secolo. Al massimo, i migliori supplementari per l’emozionante altalena dei gol». Il rientro in Italia fu turbolento, con tanto di lancio di pomodori. «A me non tirarono niente. La cosa che ricordo bene è che, per la prima volta in assoluto, ad attendermi all’aeroporto a Roma c’era anche mio padre che non aveva mai messo piede in uno stadio e non mi aveva mai visto giocare. Per lui il pallone non era una cosa seria». Immagino tu non abbia avuto vita facile agli inizi. «Mio padre era nato nel 1900. Funzionario di banca. Eravamo otto fratelli. Il lavoro prima e sopra tutto. E la scuola». Quindi? «Dopo le medie, feci ragioneria. Il pallone mi piaceva anche se non avevo sogni in particolare. Né una vera squadra del cuore, ad eccezione del Grande Torino. Si giocava sugli argini del fiume, nei campi, all’oratorio. Ci sapevo fare, e allora mi prese l’Olimpia Montorio, una squadra del veronese che faceva la Seconda Categoria. Pullman, allenamento e poi ci si lavava nel fosso vicino al campo». In che ruolo giocavi? «Ho iniziato come attaccante, poi mi sono spostato un po’ indietro, centravanti arretrato, alla Hidegkuti. A 16 anni mi voleva la Juventus. Vennero a parlare con la mia famiglia, prospettarono la prosecuzione degli studi in un collegio serio. Niente da fare. Mio padre disse di no». Però poco dopo ti prende il Verona. «Il mio cartellino fu valutato 1.200.000 lire (siamo nel 1957) quando mediamente per un giovane si spendevano al massimo 70/80.000 lire. Al calciatore spettava una percentuale. Per questo il presidente dell’Olimpia, dottor Bracciabeni, volle incontrare mio padre». Eri presente anche tu? «Ma stai scherzando? Quelle erano cose da uomini. E da uomini furono trattate, nel senso che mio padre rifiutò qualunque compenso. I soldi si guadagnano con il lavoro, disse. A me nel tempo arrivarono dei regali, tra cui un bell’orologio». Con il passaggio al Verona cambia il rapporto con tuo padre? «Neanche per idea. Intanto c’era il diploma da prendere. E quando c’era la doppia trasferta al Sud, i miei compagni se ne stavano fuori per due settimane, magari al mare della Sicilia. A me invece toccava rientrare a Verona per andare a scuola per poi ripartire il sabato. E non è finita». C’è dell’altro? «Un giorno mi convoca in ufficio, in banca. Con noi figli faceva così. Sulla sua scrivania c’è l’Arena con la notizia della mia espulsione della domenica prima. Era incavolato nero: “Così getti discredito sul nome della tua famiglia”. Dovette intervenire il vicepreside della scuola, che era anche nei quadri della banca, per ammorbidirlo». Ma cosa avevi combinato per meritare il rosso? «Un presunto fallo di reazione. Arbitro Verazzani di Parma. Giochiamo nel vecchio stadio di Verona contro il Novara. Un avversario, Zeno, mi dà una scarpata sul braccio e con i tacchetti (più chiodi che tacchetti) mi fa uno sbrego grande così. Io reagisco mostrandogli il pugno. Espulsi tutti e due». Con il Verona debutti in A e ti fai conoscere e apprezzare. «Ho esordito contro il Milan di Cesare Maldini, Schiaffino e Liedholm il 4 maggio 1958. Poi ho fatto sei campionati di B. La personalità non mi mancava. Sapevo stare in campo. Non ho mai avvertito la tensione e prima delle partite ho sempre dormito bene. Va detto che in tutta la mia lunga carriera sono stato fortunato: ho giocato sempre titolare, anche in Nazionale». E a Cagliari, nel 1964, come ci finisci? «Per volere del Verona. Il presidente Bonazzi diceva che c’erano più di dieci squadre di Serie A che mi volevano, tra cui l’Inter. Speravo di non allontanarmi troppo da Verona, dove c’era anche la mia fidanzata. E invece mi spedirono in Sardegna. Io non ero per niente contento. Il Cagliari in quegli anni faceva la doppia trasferta, due in casa, due fuori, era come essere sempre in ritiro». I sardi, tra l’altro sono appena approdati in A per la prima volta. «Ma ci sono buone prospettive, questo va detto. I soldi non mancano. Ci sono ottimi giocatori, tra cui spicca il giovane Gigi Riva che ho marcato proprio io l’anno prima. Eh già, perché quando c’era da tenere uno tosto, lo davano a me. Ne ho curati tanti, l’unico che veramente mi ha fatto penare è stato Helmut Haller, non lo spostavi neanche con le cannonate». Chi era l’allenatore di quel tuo primo Cagliari? «Arturo Silvestri. Mi disse: “Stai qui un anno, poi ti prometto che ti lascio andare via”. Alla fine della stagione, però, lui non mi mollò. Ma non mi sono arrabbiato. Con lui l’unico screzio ci fu quando volle farmi giocare per forza nonostante la pubalgia. Sei pesante, gli dissi». Ma è vero che sei stato riformato per il militare? «Mi ero iscritto all’Università, Economia e commercio. Ma solo per rinviare la chiamata. Ho un piccolo difetto alle dita dei piedi e avevo saputo che un altro ragazzo era stato esonerato per quello. Ci provai e mi riformarono. Ma poi ci si mise di mezzo proprio il Guerin Sportivo». In che senso? «“Un giocatore di Serie A e nel giro della Nazionale riformato alla visita militare”. Questo era il titolo del Guerino. Non c’era il nome, ma non potevo che essere io. Mi rifanno fare la visita. Abile e arruolato». Mi risulta che ci fu un altro titolo del Guerino che ti riguarda. «“Scopigno in castigo, Cera allenatore”: suonava più o meno così. Era l’anno dello scudetto, il mister fu squalificato 5 mesi per aver offeso un guardalinee». Diciamo che c’era molto di vero. «Scopigno non era solo un grande psicologo. Era anche un bravo allenatore. Poi però c’era il campo, con gli imprevisti e le situazioni reali: quelle ce le gestivamo da soli. Ma questo succedeva in tutte le squadre. E giocatori come me, un po’ per il ruolo, un po’ per il carisma, erano più portati al comando». Eri pur sempre il capitano. «La fascia al braccio l’ho sempre portata, anche al Verona quando ero molto giovane e c’erano giocatori trentenni». Eri il leader di quella squadra? «Non direi questo. C’erano giocatori di grande personalità come Albertosi, Gori, Domenghini. Senza contare ovviamente Riva. In me vedevano il fratello maggiore. Nenè mi chiese consigli sul matrimonio. Qualche altro si affidava a me per la dichiarazione dei redditi. In campo succedeva di tutto. Una volta dovetti tenere a bada Martiradonna che voleva picchiare Greatti». Il tuo rapporto con Riva? «Due fratelli. Venivamo dal Nord, carattere schivo, poche parole. Una forza d’urto incredibile e un sinistro potentissimo. Una montagna di gol, il più bello in rovesciata contro il Lanerossi Vicenza. Una meraviglia. Al pari del tuffo di testa in Nazionale con la Germania Est, il giorno del mio esordio in azzurro. Lui sì un vero leader. In campo e fuori». Perché non andò mai alla Juventus? «Gigi erti attaccatissimo alla Sardegna, a Cagliari, alla sua gente. E poi c’erano quelle valutazioni che lo turbavano. Una volta me lo disse. “Pagano per me 2 miliardi. È che siamo, merce da vendere? E poi cosa vuol dire? Che devo fare due gol ogni ogni domenica?”». Come nasce la favola del Cagliati-scudetto? «Si parte dal 1964 e poi, nel corso degli anni, con nuovi innesti e un allenatore che sa come fare gruppo, che ha buone conoscenze tattiche e ha l’intelligenza di gestire Gigi Riva: Manlio Scopigno, un fuoriclasse». Lo chiamavano il “Filosofo”. «In realtà non era laureato in filosofia. Era un uomo arguto, simpatico, scanzonato. Amava dormire a lungo la mattina. Qualche allenamento lo ha saltato pure lui». Tu una volta gli chiedesti quanto mancava alla fine di una partita e lui? «Giocavamo contro il Lecco. La leggenda vuole che la sua risposta fosse “Cosa manca a che?”. Io non ricordo, magari quella frase l’ha pronunciata davvero. Di sicuro a me disse: “Ma dove c...o vuoi che vadano questi qui!”». E quella volta in ritiro ad Asiago cosa accadde? «Eravamo nella mia camera. C’era quasi tutta la squadra. Si mangiava, si beveva e si giocava a carte. E soprattutto si fumava. Nonostante la finestra aperta, la stanza era letteralmente invasa dal fumo». Bussano alla porta. «Era Scopigno. Probabilmente aveva cercato al telefono qualcuno di noi. Entra e, serafico, dice: “Disturbo se fumo?” Geniale. Un altro ci avrebbe massacrati. Lui capì, si unì a noi e, dopo alcuni minuti, ognuno tornò nelle proprie camere». Nel 1968-69 fate le prove per lo scudetto. «Grande campionato. Secondi dietro la Fiorentina, giocando bene, ma mancandoci ancora l’equilibrio perfetto. Che fu trovato in estate quando arrivarono Gori e Domenghini nello scambio con Boninsegna che tornò all’Inter». Abbiamo già ricordato la difesa, manca il resto della squadra. «Presto detto: io davanti la difesa, classico mediano, Greatti e Nenè interni. Domingo tornante di destra, una pedina preziosissima. E poi Bobo Gori, centravanti di movimento. Quando poi io andai a fare il libero, Nenè mi sostituì in mediana ed entrò Brugnera come mezzala». Ad inizio stagione nello spogliatoio parlavate di scudetto? «Se ne respirava l’aria. Il secondo posto dell’anno prima ci dava molto coraggio e consapevolezza». La partita chiave fu il 2-2 a Torino contro la Juve, 15 marzo 1970, giusto? «E che partita! Avevamo due punti di vantaggio sui bianconeri a sei giornate alla fine. Successe di tutto. Intanto Niccolai fa una clamorosa autorete. E Gigi pareggia alla fine del primo tempo». Ripresa. «Dopo un quarto d’ora Lo Bello s’inventa un rigore per la Juve. Martiradonna viene spinto da Leonardi, e lui vede poi un fallo di mano del nostro compagno. Noi lo circondiamo. Lui si convince di andare a consultare il guardalinee. In realtà fa finta, dopo 3/4 passi verso l’assistente, torna indietro e conferma la decisione. Gliene diciamo di tutti i colori, anch’io che sono il capitano. Ma non è finita». Andiamo avanti. «Haller va sul dischetto e Albertosi para. Ma Lo Bello fa ripetere. Stavolta tira Anastasi. Gol, Ricky ha una crisi di nervi e piange. Noi rincariamo la dose con l’arbitro. E sai che mi dice?». Cosa? «Date la palla a Gigi. Hai capito? In un modo o nell’altro avrebbe rimediato all’errore. E cosi è stato, anche se il fallo di Salvadore su Riva fu netto. Come fecero vedere poi la sera alla moviola. Tuttavia rimane la sensazione che quando ci trovavamo ad affrontare le cosiddette “grandi”, il timore riverenziale delle giacchette nere si manifestava inevitabilmente. È successo anche quando poi sono andato a Cesena». 12 aprile 1970. «È il giorno dello scudetto. Una gioia bellissima, un’immensa soddisfazione, i tifosi a far festa, un’isola intera tutta per noi. E poi la ciliegina sulla torta con sei di noi in Messico per i Mondiali». Tre anni dopo l’addio al Cagliari: perché? «Non certo per mia volontà. Avevo anche comprato un bell’attico. Mi vendettero all’ultimo giorno di mercato. La decisione fu del nuovo gruppo dirigente che subentrò a Marras. Mi mandarono al Cesena, per la prima volta in A». Una storia che si ripete. «Andai, non potevo fare altrimenti. Guadagnando molto meno, peraltro. Avevo 32 anni, stavo bene. So che mi volle Bersellini. Mi chiese di fare il libero e mi dette subito la fascia di capitano». Cosa volevi dimostrare? «Che ero ancora in grado di giocare ad alti livelli. Pensavo di giocare solo un anno invece facemmo un campionato straordinario. Salvezza sul campo e per me la pre-convocazione per i Mondiali di Germania nella lista dei 40». Che però hai visto alla tv. «Meglio così. Valcareggi mi disse che se la Lazio avesse vinto lo scudetto, per me non ci sarebbe stato posto. Non mi sembrò un valido criterio di scelta». Con il Cesena vivi una seconda giovinezza. «È stato un bel “tramonto”: facemmo ancora tre campionati in A, addirittura la Coppa Uefa nel 1977. E poi a fine carriera mi fu proposto di rimanere lì come Direttore sportivo. Non ci avevo ancora pensato al post, accettai con entusiasmo e gran voglia di lavorare». Ultima domanda: cosa sei andato a fare insieme a molti dei tuoi compagni cagliaritani in America nell’estate del 1967 con i Chicago Mustangs? «Per una tournée di scarsissimo valore tecnico, uno di quei tentativi per far decollare il calcio negli Usa. Si giocava su terreni dove c’erano ancora le montagnole del baseball. Spesso le partite finivano in rissa. Io, comunque, tornai una decina di giorni prima degli altri: dovevo sposarmi».