Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  luglio 16 Sabato calendario

L’ECONOMIA SALVATA DAI BAMBINI

A Londra c’è un bambino di 4 anni che è già un influencer. Farouk James, gigantesca chioma afro e126.000 follower su Instagram, fa sfilate di moda e viene fermato per strada. Non ha la scorta, al contrario di un altro londinese, George di Cambridge, treenne reale, che al primo giorno di scuola materna indossava una giacchetta trapuntata un po’ retro, color blu navy. Il giorno dopo nella capitale pre-Brexit si sono impennate del 400% le vendite di giacchette blu trapuntate. L’afrofenomeno e il principino sono solo due dei numerosi testimonial di uno dei pochi settori dell’economia che va. Quello trainato dalla spesa per i bambini: che sono sempre meno, ma per i quali si spende sempre di più.
L’economia trainata dai ragazzini la si può osservare dal top, nella gigantesca casa interamente dedicata alla sua linea baby che Dior ha costruito all’interno del nuovo negozio a New Bond Street, a Londra. Oppure dal basso, tra i marchi alla portata dei più. Per esempio dalle parti di Target, la seconda grande catena discount degli Usa, che per lanciare la sua linea cheap chic ha mandato tutti i suoi designer a intervistare un migliaio di ragazzini (dai 4 ai 12), riuniti in focus group nei negozi, o raggiunti nelle case, oppure Online, sulla base di una convinzione ferrea: non bisogna più mirare alle mamme ma a loro, sono i ragazzini quelli che prendono le decisioni di consumo.
O ancora, si può andare a spulciare tra i dati di Euromonitor che passavano di mano in mano all’ultima sfilata di Pittibimbo, che raccontano del sorpasso dell’ultimo anno: mentre i rami donna e uomo del mercato mondiale dell’abbigliamento crescevano del 4%, il rametto bambino si allungava al ritmo del 6%, raggiungendo i 135 miliardi di euro nel 2015 (dai 122 del 2010). Ma quello della moda è solo il primo indizio del boom della bimbo-economy.
Pochi e ben vestiti
Una blusetta senza maniche e un pantalone che si ferma sopra la caviglia, tutto in cotone stampato floreale; un abitino jersey e seta di linea semplice, sempre con fiori. Con questi due outfit Sharon Journo Barda, appena diplomata all’Accademia di costume e moda, ha vinto l’anno scorso il concorso di Riccione Moda Italia nella categoria bambino. «Volevo proporre qualcosa di pratico, e sostenibile», spiega. Adesso fa uno stage a Londra, alla Alexander McQueen; studiando proprio il marketing del childrenswear. Racconta cosa insegnano e cosa chiedono agli stagisti, per penetrare nel mercato più ambito, quello del cliente ragazzino: «Creare uno stile di vita attorno al marchio: e questo vale a tutti i livelli, dai brand di lusso al largo consumo; e per tutti i settori, non solo la moda». Ma lo stile di vita è del bambino, o dei genitori? «Di entrambi. Sui social network ci stanno tutti e due, ed è soprattutto lì che si lavora», taglia corto la ventitreenne Sharon.
E ci lavorano in tanti, e ben oltre il settore dei vestiti; visto che da quel mercato si attendono tassi di crescita positivi, in controtendenza con il clima generale. A spingerlo sono due fattori demografici opposti: quello delle economie emergenti dell’Asia, con la nuova classe media in ascesa vogliosa di trattare bene i propri figli; e quello nostrano, dove è vero che scende il numero dei bambini – i neonati italiani l’anno scorso sono caduti sotto quota 500.000 – ma allo stesso tempo sale il numero di figli unici e soprattutto l’età media dei genitori.
Quella delle neomamme italiane è aumentata di 2,3 anni in vent’anni, dai 29,8 del ’95 ai 32,1 attuali. Se i genitori sono più “maturi’’, è più facile che lavorino e abbiano due redditi, anche perché spesso i giovani che non ce li hanno rinviano maternità e paternità: la differenza di spesa media mensile tra una coppia senza figli e una con due figli è di 746 euro al mese.
Se poi si aggiungono i portafogli degli altri numerosi adulti che circondano i sempre più rari bambini, si capisce che il mercato degli 8,3 milioni under 14 (il 13,7% della popolazione italiana) è appetibile. Tanto più se una parte dell’universo spendente attorno ai ragazzini è presa da quella che la sociologa Marina D’Amato chiama «ansia da prestazione collettiva degli adulti ».
Questa, secondo l’autrice del libro Ci siamo persi i bambini (Laterza 2014), non solo trasforma i figli in «occasioni di prestigio, possibilità di riscatto, in progetto di capolavoro»; non solo ne riempie le giornate al punto che «l’agenda di un bambino di 5 anni oggi può essere paragonata a quella di un manager o di uno statista», che si affanna tra un impegno e l’altro mentre magari la sua mamma-blogger ne celebra, confronta, controlla l’operato; ma finisce per creare dei «genitori bambini e bambini adulti», inversione di moli nella quale «l’emotività bambina degli adulti trova la sua logica soluzione nell’acquisto di beni». E così genitori e zii, nonni e amici «sommergono i piccoli, fin dalla primissima infanzia, di beni di consumo che vanno dall’abbigliamento al mobilio, e naturalmente ai gadget e ai giocattoli».
Dai giocattoli al Corriere
Sarà un caso, ma è lo stesso elenco merceologico che ha dato luogo a una delle mega-fusioni più recenti nell’economia italiana: quella che ha riunito in un unico gruppo Giochi Preziosi, Chicco Artsana, Prenatal, Bimbo Store. 500 punti vendita, con dimensioni dai 600 ai 1.400 metri quadri, per un fatturato totale superiore ai 2 miliardi nel 2013. Una fusione non difensiva, ma arrembante: basti pensare che la sola catena Bimbo Store aveva visto crescere il fatturato, dal 2011 al 2013, da 31 a 84 milioni. Fa una certa impressione, se si pensa alla crisi di nascite e portafogli che negli stessi anni attraversava l’Italia. Il colosso dei giochi e dei passeggini è stato poi scalato dalla Investindustrial di Andrea Bonomi - sì, lo stesso che sta contendendo a Urbano Cairo il Corriere della Sera (chissà che dai business bambini non venga fuori anche il salvataggio dei vecchi giornali)*.
E che il settore infanzia vada bene lo si vede anche dal saldo demografico delle imprese, che è opposto a quello degli umani. La Camera di Commercio di Milano – che non a caso ha una particolare attenzione alla materia, e pubblica anche guide Bimbi sicuri, dai consigli per l’estate alla conformità dei giocattoli - ha contato, al primo trimestre 2016, ben 2.361 imprese legate alla produzione di beni e servizi per la prima infanzia nella sola Lombardia, il 16,7% del totale italiano, che è di 14.170 imprese. Nel 2009 erano 1.518 in Lombardia, 12.384 nel totale italiano. Questo vuol dire che, negli anni della grande crisi, le imprese per l’infanzia sono cresciute in Italia del 14,4%. E nella sola Lombardia hanno avuto un incremento stratosferico: più 55%, per un totale di quasi 7.000 occupati. E vero che il numero delle imprese di per sé non è sintomo di buona salute, potrebbero anche chiudere le grandi e aprire le microattività: ma se si mettono insieme le notizie sulle fusioni miliardarie e sul boom delle attività, e si dà uno sguardo ai dati sui consumi crescenti dei ragazzini, fioccano i segni “più”.
La crescita del numero di imprese riguarda soprattutto quei settori man mano lasciati scoperti dalla crisi di cassa dei Comuni : in Lombardia ad esempio la parte del leone la fanno gli asili nido e le scuole materne private. Ma riguarda anche – si vedano i dati Istat a pagina 2 – i consumi culturali e sportivi degli under 14: corsi, musei, concerti, teatro, cinema, spettacoli. E se cresce la domanda, l’offerta segue a ruota. Alimentata anche da una vastissima schiera di artisti, sportivi, musicisti, critici, docenti in cerca di reddito.
L’Uovo di Colombo
«Sicurezza, controllo, paura, futuro.
A pensarci bene, molte categorie che dominano la società contemporanea sono tipiche dell’infanzia». Umberto Angelini, ideatore e creatore di Uovo- Kids, festival milanese di grande successo dedicato alla creatività di bambini e famiglie, racconta come dal contenitore di una manifestazione “per i grandi” – Uovo performing arts festival – è nata una creatura di successo destinata ai piccoli.
Adesso Uovokids - che anche quest’anno si svolgerà al Museo della scienza e tecnologia di Milano, il 22 e 23 ottobre - vanta 5.500 presenze in due giorni, un’organizzazione che in prossimità dell’evento coinvolge fino a 30 persone, è indicato come bestpractice europea per l’alfabetizzazione dei bambini all’arte contemporanea, e riesce a coinvolgere artisti che, di mestiere, non sono soliti lavorare con i piccoli.
Un caso particolare, nella vastissima offerta artistica e culturale che inonda i bambini in ogni parte d’Italia, per la gioia delle famiglie e dei bilanci dei musei e degli stessi artisti. «Il nostro è un esperimento diverso, poiché anche quando abbiamo messo su il festival per i grandi avevamo bene in mente che i confini tra le generazioni erano saltati: da un lato gli adulti sempre più infantilizzati, dall’altro i bambini che orientano e delimitano i consumi culturali delle famiglie». Così, il progetto è quello di far mettere in gioco artisti affermati – che riducono il loro cachet per l’occasione – e ragazzini, per rimediare «all’assenza dell’arte contemporanea dall’educazione dei nostri bambini». Un progetto interdisciplinare che Angelini ama definire anche “indisciplinato”. Come alcuni bambini di una volta.

Roberta Carlini, Pagina99 16/7/2016