di Federico Pontiggia, il Fatto Quotidiano 21/7/2016, 21 luglio 2016
LA GIOVINEZZA DELL’ULTIMO “GRANDE VECCHIO”
Ottantacinque anni. Ermanno Olmi li compirà domenica 24 luglio. È l’ultimo dei grandi vecchi, e soprattutto il primo dei grandi giovani del cinema italiano, capace di fare un film, Torneranno i prati, non per celebrare il Centenario della Grande Guerra, ma per stigmatizzare “il grande tradimento compiuto nei confronti di milioni di giovani e civili morti senza che sapessero perché”; di ricordare, per Lunga vita alla signora! (1987), che “il potere non può sopraffarmi se non ho disponibilità a sottomettermi”; di sanzionare “la follia di un benessere basato sui consumi” e “il danno che è, per tutti, il denaro lasciato solo”.
Leone d’Oro alla carriera nel 2008, Leone d’Oro nel 1988 per La leggenda del santo bevitore, Palma d’Oro per L’albero degli zoccoli nel 1978, autore di opere mirabili come Il posto (1961), Il mestiere delle armi (2001) e Torneranno i prati (2014), da oltre 50 anni Olmi racconta la realtà, e la speranza, con il rigore di un cineasta che si sente e si vuole sempre agli esordi.
Non è facile, sarebbe addirittura impossibile se film dopo film non si conservasse la capacità di stupire e, soprattutto, stupirsi: negli occhi di Olmi, quello stupore è intatto, generoso, contagioso. Una Storia morale del cinema italiano – prima o poi andrà scritta – lo vedrebbe quale unico, prezioso baluardo al buonismo che di volta in volta ha preso a braccetto il terzomondismo, il pauperismo e gli altri ismi per asservire il film al messaggio e alla funzione: Olmi non è buonista, è buono.
Assertivo e saggio, ha vis polemica, impeto politico – di Berlusconi si chiede “come può un ottantenne non riuscire ad accettare il proprio aspetto fisico?” – e un vizio sempre più raro nel nostro Paese: la tendenza a informarsi e, nel caso, indignarsi. La bontà, quella vera, sta altrove: Olmi non ha una parola cattiva nemmeno per chi, avendo approfittato della sua malattia per soffiargli il progetto sul prediletto Tolstoj, la meriterebbe. Non ne ha bisogno: Olmi ha il cinema, buono a sua immagine e somiglianza. Un cinema che anziché cantare operai e fabbrica, si è fatto operaio, è nato in fabbrica: La diga del ghiacciaio, Tre fili fino a Milano, Un metro è lungo cinque – 20 suoi cortometraggi realizzati per Edison tra il 1953 e il 1961 sono ora disponibili su YouTube grazie all’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa – a riprova che l’esperienza diretta è l’antidoto migliore all’isteria ideologica.
Cresciuto tra Milano, la Bovisa dei gasometri, i tram, l’asfalto e un papà ferroviere “che sapeva sempre di olio di macchina”, e l’aria di Treviglio, “dalla nonna, tra le mucche e la vita libera”, Olmi non ha mai inteso il campo senza controcampo, la tesi senza l’antitesi (ha preferito l’ipotesi, Ipotesi Cinema, la scuola da lui fondata nel 1982 a Bassano del Grappa), il cinema senza la vita. Le convergenze parallele, non democristiane ma cristiane, sono sue, e ancor prima di un padre operaio che la sera andava a curare l’orto cittadino e “portava un fiore a sua moglie”. Quell’orto, quel fiore hanno continuato ad abitare il cinema di Olmi, che sin dai titoli ha fatto sua la natura: La mia valle e L’onda (1955); Il frumento (1958); Il pomodoro (1961); L’albero degli zoccoli (1978); Lungo il fiume (1992); Il segreto del bosco vecchio (1993); Terra Madre e Rupi del vino (2009); Torneranno i prati (2014) e Il Pianeta che ci ospita (2015).
A inizio Anni 60, Olmi scelse “di andare a vivere ad Asiago, decisi che ci avrei fatto casa per metter su famiglia”. Con l’amorevole e innamorata moglie Loredana – la conobbe sul set de Il posto, era la protagonista Antonietta – ci vive ancora, e per le stesse ragioni: non l’Asiago antistante, ma il bosco retrostante, “perché oggi la cosa di cui sento più mancanza è il silenzio: allora vado dietro casa, cerco di difendermi al riparo degli alberi. Oggi non abbiamo più tempo per il silenzio”.
In quella casa, Olmi sta combattendo la malattia e montando, con Paolo Cottignola, il suo nuovo film, Vedete, sono uno di voi – Il Cardinal Martini, che vedremo entro fine anno. Affinità elettiva, quella tra il profeta del “farsi prossimo” e della Cattedra dei non credenti e il cineasta di Centochiodi e Il villaggio di cartone, due parabole evangeliche coraggiosamente eterodosse in cui “si predica l’unione della chiesa del popolo e la chiesa di Dio” e si confida che “il bene vale più della fede”.
Si sono trovati, Martini e Olmi, sulla sottile linea rossa tracciata da Camus: “Se vuoi che un pensiero cambi il mondo, prima devi cambiare te stesso”. Olmi l’ha fatto, continua a farlo a ogni film, aprendo alla poesia, al silenzio e alla pace: dice uno dei soldati di Torneranno i prati, “nei nostri sogni non c’era la morte”. Nei nostri sogni c’era il cinema di Ermanno Olmi, nella nostra vita c’è la sua passione civile: “Sui monumenti che ancora oggi ritraggono gli alti comandanti della Prima guerra mondiale, bisognerebbe scrivere sotto: ‘criminale di guerra’”. Auguri, Maestro.
di Federico Pontiggia, il Fatto Quotidiano 21/7/2016