di Giuseppe Lo Bianco, il Fatto Quotidiano 21/7/2016, 21 luglio 2016
FALCONE NEL MIRINO DI “MENTI RAFFINATISSIME”
Alla fine degli anni 80, l’Italia scoprì che la mafia (e non solo) avvelena i pozzi dell’informazione solo d’estate: quella del 1988 fu torrida per l’antimafia, arrivò a Palermo con il volto squadrato di Arnaldo La Barbera atterrato a Punta Raisi l’8 agosto 1988 e ad attenderlo trovò solo giornalisti e fotografi: “Vengo per mettere sotto scacco la mafia e l’Antimafia”, disse ai reporter per poi dileguarsi verso Palermo, nel suo nuovo ufficio di capo della Squadra mobile.
Arnold, come lo avrebbero chiamato a Palermo, o Il Doge, il suo soprannome veneto, era l’uomo giusto al posto giusto per garantire la lotta antimafia eternamente in bilico tra prudenza e repressione in un periodo in cui le cosche, come disse il pentito Nino Giuffrè, stavano mutando pelle: entrato in polizia nel ’72 dopo avere lasciato un comodo incarico a Milano alla Montedison guidata da Eugenio Cefis, si era fatto la fama di duro uccidendo un rapinatore in laguna, ma aveva soprattutto i contatti giusti tra i servizi, avendo da poco lasciato la collaborazione con il servizio segreto civile, il Sisde, interrotta il 28 marzo precedente, nome in codice Rutilius, per la quale in poco più di due anni non aveva prodotto alcun rapporto scritto.
Il Viminale lo aveva spedito in Sicilia per riportare ordine nei corpi investigativi, dilaniati dagli omicidi dei capi della Squadra mobile palermitana Beppe Montana e Antonino Cassarà, dalle inchieste amministrative sulle collusioni dei funzionari, dalla fuga di quelli più bravi. In quei giorni, il clima era rovente e non solo sul versante investigativo: meno di 20 giorni prima, in una intervista ai colleghi Attilio Bolzoni e Saverio Lodato (Repubblica e l’Unità), Paolo Borsellino aveva denunciato il tentativo di smantellare il pool antimafia da parte del consigliere istruttore Nino Meli, il successore di Nino Caponnetto, scelto dal Csm al posto di Giovanni Falcone per l’incarico di consigliere istruttore. Erano seguite polemiche di fuoco con code disciplinari al Csm proprio mentre a capo dell’Alto commissariato antimafia, il 2 agosto, il governo aveva nominato Domenico Sica, passato dalla Procura di Roma, chiamata “porto delle nebbie”, alla trincea governativa antimafia.
A Palermo, Cosa Nostra continua a uccidere a ritmo costante, cambiano solo i morti, alcuni dei quali ascritti per la prima volta allo schieramento vincente, i “corleonesi”. Ma è la mattina di un anno dopo, il 26 maggio 1989, che Arnaldo La Barbera fa il primo vero colpo grosso dal suo arrivo a Palermo: in una villetta di San Nicola l’Arena, a 30 km da Palermo, arresta il pentito Totuccio Contorno, assieme a decine di armi perfettamente efficienti. È l’inizio di un’estate che si rivela più torrida di quella precedente: ai primi di giugno, una serie di lettere anonime inviate a indirizzi istituzionali trasformano Contorno in un killer di Stato tornato in Sicilia per regolare vecchi conti su input dell’allora vicequestore Gianni De Gennaro e la benedizione di Falcone, il 20 giugno sugli scogli dell’Addaura davanti alla villa del giudice vengono trovati 56 candelotti di dinamite pronti a esplodere: lui parla di “menti raffinatissime”, manda via la moglie e inizia a dormire per terra, con la pistola carica a fianco.
Gli anonimi che seminano veleni tra gli apparati antimafia arrivano a Sica, che non sembra interessato al contenuto, ma a identificare l’autore: il 20 luglio il settimanale Epoca indica nel pm Alberto Di Pisa, l’unico in procura a Palermo a tenere buoni rapporti con l’Alto commissariato, il Corvo, autore degli scritti, le sue impronte vennero prese durante una visita negli uffici dell’Alto commissariato del magistrato che aveva l’abitudine di tamburellare con le dita sulla scrivania di Sica; la rivelazione, avallata dalle analisi di un’impronta digitale nei laboratori del Sismi, i servizi segreti militari, a Forte Braschi, si rivelerà una bufala. In quei giorni qualcuno scopre un tentativo di intercettazione delle linee telefoniche del bunker di Falcone, su una scrivania viene sequestrato un registratore a cassette ma la proprietaria, una segretaria di cancelleria, l’utilizzava per ascoltare musica napoletana.
La tensione tra gli apparati è alle stelle, la guerra per fermare Falcone si combatte con ogni mezzo, dalle bombe agli anonimi, ai dossier. E alle false notizie. Dirà 25 anni dopo l’inviato di Repubblica Attilio Bolzoni, ricostruendo quegli anni al processo per la strage di Capaci: “Nel 1989, La Barbera mi consegnò l’informativa sui telefoni intercettati nell’ufficio di Falcone, il capo della polizia Parisi confermò la notizia al mio collega Giuseppe D’Avanzo e Repubblica uscì con il titolo ‘Falcone spiato’, ma non era vero: quel rapporto non portò da nessuna parte”. Quelle “polpette avvelenate” Bolzoni le chiama “campane sotterranee, che poi tanto sotterranee non erano: alcuni informavano, altri smentivano” e a diffonderle erano prevalentemente “ambienti dell’alto commissariato antimafia: Falcone non si fidava di un sacco di persone dentro le istituzioni”. Per arrivare a una conclusione: “Anni dopo con D’Avanzo ci siamo resi conto che in alcune di quelle vicende siamo stati oggetto di disinformazione”. Tra dossier, veleni e impronte che scompaiono, il 5 agosto sull’asfalto torna il sangue di un servitore dello Stato: due killer in moto uccidono il poliziotto Nino Agostino e la moglie incinta, nel portafoglio gli trovano un biglietto: “Se mi succede qualcosa guardate nell’armadio”. Arrivano per primi gli uomini di La Barbera e di quei fogli non si saprà più nulla, al padre Vincenzo resta solo la certezza di Rutilius: “Lo volete capire sì o no, mi disse, che questo è un delitto di alta mafia?”. Poco prima gli aveva mostrato alcune foto per identificare i killer che il padre aveva fatto in tempo a scorgere, una delle foto era quella di Vincenzo Scarantino, che tre anni dopo, insieme a La Barbera, diventerà il protagonista del depistaggio della strage di via D’Amelio. Ma questa è un’altra storia. O forse no.
di Giuseppe Lo Bianco, il Fatto Quotidiano 21/7/2016