Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  luglio 21 Giovedì calendario

E LA CITY FESTEGGA LA BREXIT

La campagna di tutti i governanti europei contro la Brexit (l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea) e a favore del Remain (cioè il restarci) si era fondata su due argomenti-base, uno ragionevole l’altro assai dubbio. L’argomento ragionevole è che l’uscita dall’Unione avrebbe provocato una stagione di incertezza, e indebolito la posizione dell’Europa sullo scacchiere mondiale. L’argomento dubbio è che il voto per il Remain fosse non solo nell’interesse dell’Europa, ma anche in quello del Regno Unito. Su questo si è molto speso il premier conservatore David Cameron, ma ancor più di lui si sono spesi i principali leader europei. Il messaggio era chiaro: cari inglesi, la vostra permanenza in Europa è un nostro interesse, ma conviene anche a voi, se ve ne andrete sarà un disastro per tutti, non solo per noi continentali.
Questo secondo argomento, a differenza del primo, era ed è piuttosto controvertibile. E i mercati finanziari hanno immediatamente certificato la sua debolezza. Dopo lo scossone della Brexit, che ha colpito tutte le Borse europee, il mercato azionario inglese ha pienamente recuperato i livelli pre-Brexit, cosa che altre piazze, fra cui quella italiana, non hanno ancora fatto. Ancora più interessante è quel che è successo sul mercato dei titoli di Stato: lo spread fra titoli britannici e titoli tedeschi si è ridotto drasticamante, segno di un aumento di fiducia nei confronti del Regno Unito.
Perché? Difficile interpretare il «sentiment» dei mercati, e ancora più difficile è scavare in quello dei popoli. Però un paio di considerazioni forse si possono fare. La prima è che, contrariamente a quanto ha cercato di farci credere la campagna catastrofista contro la Brexit, il Regno Unito aveva ottimi motivi per uscire dall’Europa. L’appartenenza all’Unione europea limita fortemente la libertà degli Stati nella regolazione dei flussi migratori e nelle politiche sociali, la Brexit restituisce al Regno Unito piena libertà di decidere chi accogliere e chi no, e quanti benefici concedere ai propri ospiti: un tipo di libertà che, a quanto pare, molti sudditi di Sua Maestà apprezzano.
C’è però anche una seconda considerazione, questa più attinente alla logica dell’economia, che forse andrebbe valutata attentamente. L’appartenenza a entità sovranazionali, come l’Unione europea, comporta indubbi vantaggi, in termini di potere e di opportunità, ma non è affatto priva di costi. Un costo, ampiamente noto, è l’eccesso di burocrazia nelle transazioni economiche, per cui, per fare un esempio terra-terra, a un produttore di vino è assai più agevole esportare in Norvegia o in Svizzera (che stanno fuori dell’Europa) che in Olanda o in Germania, che le regole europee devono farle rispettare fino in fondo. Un altro costo è l’obbligo di attenersi a determinati standard e obblighi di certificazione, il cui ovvio effetto è un innalzamento dei costi di produzione dell’azienda, e una conseguente riduzione dei margini di profitto.
Ma un costo ulteriore, a mio parere ampiamente sottovalutato, è la mancanza di flessibilità della politica economica: un costo che gli inglesi hanno sempre voluto limitare rifiutando di aderire all’euro, ma che la scelta della Brexit è in grado di abbassare ulteriormente. Con questo non voglio certo dire che quella dei cittadini britannici sia stata una scelta razionale, basata su un calcolo dei costi e dei benefici. Nessuno può sapere come sarebbe andata se avesse vinto il Remain, e nessuno può sapere che cosa ci aspetta ora che la vittoria è toccata alla Brexit. Però forse un’ipotesi possiamo buttarla lì. È anche possibile che, al di là dei calcoli più o meno ragionevoli e fondati che ciascun cittadino britannico può aver fatto, vi sia anche un’intuizione di fondo, un istinto mi verrebbe da dire, che potrebbe aver guidato la loro scelta, ovvero l’idea che, in un mondo globalizzato, l’interdipendenza sia diventata un handicap più che una risorsa.
Dopo l’era in cui si pensava che l’apertura fosse fonte di profitti, di opportunità e di crescita, forse è giunta un’era in cui si comincia a pensare che l’interdipendenza sia anche una tremenda spada di Damocle sui destini di un popolo. Forse, più che l’isolamento, i cittadini britannici hanno scelto di porre un freno alla dipendenza da quello che accade nel resto del mondo.