Pierluigi Diaco, Oggi 20/7/2016, 20 luglio 2016
«CENAVO COI RICCHI, L’HO PAGATA CARA». FAUSTO BERTINOTTI – L’incontro con Fausto Bertinotti comincia con un lungo abbraccio
«CENAVO COI RICCHI, L’HO PAGATA CARA». FAUSTO BERTINOTTI – L’incontro con Fausto Bertinotti comincia con un lungo abbraccio. Testimonianza di un passato condiviso che non passa, di un rispetto che non viene meno nemmeno durante il suo “cono d’ombra”, del ricordo di un caro amico e maestro, Sandro Curzi, che più volte ci riuniva intorno a un tavolo da pranzo - Fausto già leader politico, io giovanissimo giornalista in erba - per parlare di come giravano le cose nel mondo, interiore e non. Ricordo teneramente che sembravano allegre e interminabili sedute di analisi collettiva. Ritrovo un Bertinotti sereno, consapevole, elegante, nonno appagato. Orgogliosamente nostalgico di un modo di intendere e vivere la politica che è quello che lo ha accompagnato tutta la vita: la trasformazione socialista della società. Non pago del prezzo che le sue innocenti abitudini mondane hanno fatto pagare alla sua storia politica, continua ostinatamente a credere che possano convivere ancora non solo il «pessimismo dell’intelligenza con l’ottimismo della volontà», ma anche e soprattutto la nostalgia di uomini e ambienti del passato con la progettazione di un futuro diverso dal presente. Apparentemente parla da vinto e da commentatore, sostanzialmente si racconta con la grazia che solo un uomo politico offeso e ferito può avere. Possiamo ancora chiamarla “Compagno Fausto”? «Certo, essere salutato così è la forma di relazione che preferisco. È un appellativo che ha segnato tutta la mia vita. E forse resterà solo questo». Citiamo Gaber. Cos’è oggi la destra? Cos’è la sinistra? «Che nostalgia! Che nostalgia di tanti incontri e di tante conversazioni con Giorgio. È stato un premonitore, così come lo è stato Pasolini: intellettuali che hanno avuto torto sul tempo presente e ragione sul tempo futuro». Non mi ha risposto. «La destra esiste sempre perché è nel Dna della politica. La sinistra, invece, oggi sopravvive solo nella sfera privata: dentro le abitudini, le passioni, le scelte e le visioni dei singoli». Ma se la sinistra, come sostiene, è sparita dalla sfera politica per resistere in quella privata, che significa oggi essere di sinistra? «Significa lottare per l’uguaglianza. La sinistra non esiste se non per perseguire l’uguaglianza tra le donne e gli uomini. La sinistra, nelle forme più diverse, è questo o non è niente». La lotta operaia ha ancora un senso? «C’è ancora oggi, ma non c’è più il movimento operaio. Non c’è più quel senso di appartenenza, ma attenzione: ci sono ancora gli operai e le loro lotte che, però, non hanno più una rappresentanza politica». Le faccio un elenco: mi dica chi sta a destra e chi sta a sinistra. Cominciamo con Matteo Renzi. «Trasversale». Beppe Grillo? «Trasversale». Massimo D’Alema? «Per storia nessuno gli può negare la collocazione a sinistra. Diciamo che lui è la destra della sinistra». Sabrina Ferilli? «Lei è assolutamente di sinistra e la sua storia lo testimonia». Molti suoi elettori dicono di essere stati delusi da lei. Sente il peso di questa responsabilità? «Da quando due anni fa sono tornato a prendere l’autobus e a camminare, incontro gente che mi dimostra un affetto inaspettato. C’è chi mi dice: “Quando c’era lei era tutta un’altra cosa!”. Oppure: “Quando torna a fare politica?”. Non nascondo che questo mi gratifica molto, anche se sono consapevole che ho deluso delle persone su fronti diversi. Almeno tre: sui primi due me ne vanto ancora, sul terzo sono insicuro». Il primo fronte è quello della rottura con il governo Prodi… «Sì. Le assicuro che è stata una vicenda, anche sul piano umano, molto dolorosa. In quell’occasione ho capito come lo stalinismo non sia un fenomeno riconducibile a un tempo e uno spazio definito. Ho sentito un’aggressività quasi fisica e ho subito l’accusa pesante di tradimento. Ma è una scelta che rivendico ancora con orgoglio: da lì è partita una nuova fase del nostro percorso che ci ha fatto incontrare con i movimenti, quelli nati duranti il G8 di Genova e quelli di Porto Alegre». E le altre due delusioni di cui si sente responsabile? «La scelta della non violenza: da alcuni, dentro Rifondazione, era vissuta come un abbandono della lotta, senza capire che invece era proprio il suo esatto contrario. Infine, il secondo governo Prodi. All’epoca il mio compito era portare il contributo e l’esperienza dei movimenti dentro il Parlamento. Per questo accettai di fare il Presidente della Camera e decisi di non avere la responsabilità di un ministero. Purtroppo, pezzi del partito e del movimento non apprezzarono questo passaggio». In molti non le hanno mai perdonato le sue frequentazioni e la sua propensione alla cosiddetta mondanità. Dagospia in quegli anni creò lo sfottò “BertiNights” per lei e sua moglie Lella… «Ho ricevuto accuse francamente orribili, frutto di un’operazione politica pensata e orchestrata con la complicità di alcuni giornali». Addirittura? Si spieghi meglio… «Si è voluta intraprendere la demonizzazione di una personalità politica irregolare e non prevedibile. C’era questo signore di sinistra, con un’eleganza non certo esibita ma naturale, che frequentava tutti i mondi possibili, non facendo della propria collocazione politica una pregiudiziale verso chi era politicamente e culturalmente diverso. Nel mio caso, è stato considerato un peccato mortale il fatto che, fuori dai miei impegni politici e istituzionali, io frequentassi per un caffè o una cena delle persone distanti da me. L’aggressione mi è sembrata odiosa perché dietro il loro ditino puntato c’era l’accusa di tradimento. In cosa mi sono esposto io? In un eccesso di sicurezza: pensavo che lavorare onestamente e con passione dalle prime ore del mattino, che andare davanti alle fabbriche e girare l’Italia intera per partecipare ad incontri, manifestazioni e assemblee, che l’appartenenza mia e di mia moglie al movimento operaio, mi rendessero immune da questo tipo di critiche. Io ho sempre indossato il vestito della festa per andare in pubblico. E questo perché? Perché per un operaio vestirsi a festa non è mai stato un modo per esibire un lusso, ma al contrario un modo per manifestare la propria dignità. Ecco, tutto questo non è stato capito». Oggi cosa le manca e cosa no? «Mi manca il popolo, il rapporto con la gente per la lotta. Mi manca moltissimo la mia comunità. Ieri è venuto a trovarmi Mario “Il Meccanico”, un pezzo di storia della sezione di Ponte Milvio. Ogni volta che lo vedo, mi emoziono. Mi mancano i compagni. Non mi manca il potere e non mi manca la conflittualità interpersonale interna ai gruppi dirigenti».