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 2016  luglio 20 Mercoledì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - A CLEVELAND TRUMP INCORONATO (ANSA) - Spunta l’autrice del discorso di Melania Trump alla convention di Cleveland, copiato da un intervento di Michelle Obama nel 2008

APPUNTI PER GAZZETTA - A CLEVELAND TRUMP INCORONATO (ANSA) - Spunta l’autrice del discorso di Melania Trump alla convention di Cleveland, copiato da un intervento di Michelle Obama nel 2008. Meredith Mciver, dello staff del tycoon, ha ammesso le sue responsabilità e ha chiesto scusa per il plagio, presentando le sue dimissioni. Queste ultime pero’ sono state respinte dalla campagna di Trump. MARIA GIOVANNA MAGLIE Maria Giovanna Maglie per Dagospia Mettiamola così, ora che la seconda giornata della convention repubblicana è finita, e Donald J. Trump, 70 anni, costruttore, personalità tv, outsider della politica, è il nominato ufficiale: quei voti non solo se li è guadagnati sul campo, ma lo ha fatto distruggendo sul campo una opposizione esplicita, violenta, ben foraggiata, condotta dal suo stesso partito, la vecchia e la nuova élite in testa, e da tutti i mezzi di informazione più importanti d’America e del resto del mondo. I quali mezzi, e vocianti inviati, in queste ore, invece di riconoscere una eccezionale incapacità di leggere e raccontare la realtà dei fatti per come si manifestano, si attorcigliano in giudizi morali sdegnati e previsioni civili apocalittiche. Non sono soltanto grotteschi e incapaci, sono pericolosi, sono nemici della democrazia. L’annuncio che il numero fatidico era stato superato lo ha dato il figlio Donald jr, circondato da fratelli e sorelle, come delegato dello Stato di New York. 89 delegati, "over the top". Lui, The Donald, ha fatto subito un bel tweet, i social sono stati un grande veicolo che usa molto bene, sul “ such a great honor”, e AMERICA FIRST, giovedì il discorso di accettazione prima della chiusura. La sua candidatura l’aveva lanciata un anno fa tra risate generali; il partito repubblicano non lo prese sul serio, all’inizio delle primarie arrivarono in 17, già segno che qualcosa non andava. Sotto il fuoco continuo di critiche per le sue dichiarazioni nette su minoranze etniche e immigrazione musulmana, ha sbaragliato tutti, finanziandosi la campagna senza aiuti, ottenendo 13,3 milioni di voti nelle primarie nei caucuses, un milione e mezzo più di W.Bush, per capirci. Il comitato elettorale e l’establishment del partito si sono piegati gradualmente, con riluttanza, solo alla fine di un percorso che hanno provato a ostacolare in ogni modo. Il tentativo di delegittimarlo è andato avanti fino a lunedì scorso, all’inizio della convention, quando un gruppo di delegati e lobbysti ha tentato di far passare una mozione che consentisse ai delegati di essere liberi dall’obbligo di votare secondo la volontà degli elettori. Hanno fatto una pessima figura, perché un conto è contestare Trump politicamente, altro è tentare di sovvertire, e in senso illiberale, le regole del gioco. Figura barbina anche per l’intera dinasty Bush, assente alla convention e impegnata a dichiarare che nessuno di loro voterà per Trump a novembre. Notizie che però tendono a provenire da fonti sfacciatamente favorevoli alla Clinton, come il sito Politico.com, rivelano una serie di riunioni per costruire il ritorno del partito repubblicano più tradizionale dopo la ritenuta inevitabile sconfitta di Trump. Intervenire per rimediare alle macerie del magnate? Non sarà che su macerie già vistose il magnate ha imposto il suo messaggio? I delegati nel floor di Cleveland rappresentano la testa la pancia e la coda del partito, e non sarà un caso se ad essere entusiasti sul serio non sono quelli della testa. Per molti anni il rapporto tra elettori ed elite a Washington è andato deteriorandosi a causa di una opposizione ritenuta troppo morbida, di un clima da inciucio, un bel Nazareno in salsa barbecue, per capirci. Una settimana fa i repubblicani alla Camera hanno deciso di rinviare al ritorno dalle ferie la proposta di riforma della giustizia, subito dopo è partita l’ondata di violenza metropolitana, da Dallas a Baton Rouge. Ma il vulnus più grave è quello della riforma dell’immigrazione, che parte del Partito Repubblicano capitanata dallo speaker Paul Ryan ha appoggiato. Delle frontiere aperte gli americani, ormai è chiaro, hanno terrore, numeri così vistosi non si verificavano da un secolo, dalle ondate del 1880 e del 1920. E hanno terrore della stagnazione dei salari dopo la crisi del 2008, mai superata perché la ripresa è stata debole, altro che balle. In questo quadro di sfiducia nella classe dirigente, l’unico che ha avuto chiaro dall’inizio il dato complessivo è stato Trump; era in quell’occhio che si doveva ficcare il dito, chiedendo frontiere sicure, nuovi accordi commerciali, denunciando la condizione grama dei salariati americani, degli operai. Gli altri non potevano, erano parte del problema, parlavano di sé: Rubio dissertava sull’impresentabilità di Trump e si lisciava vanesio l’investitura dall’alto e la cubanitudine; Cruz arrostiva bacon sul fucile fumante e schifava Trump come poco conservatore, un altro mito infrantosi nel 2016, ché conservatori ce ne sono molti tipi, e il reazionario beghino non è detto che lo sia. Tutti avevano come avversario il magnate di casa e dimenticavano Obama e la Clinton, i danni della riforma sanitaria, l’incompetenza in politica estera, l’accordo pernicioso con l’Iraq; tutti correvano per sé e mai hanno pensato di scegliere il più forte fra loro e coalizzarsi intorno a lui. Lo stesso efficacissimo intervento martedì sera del governatore del New Jersey ed ex procuratore federale, Chris Christie, ha rivelato l’incapacità di fare opposizione e campagna da candidati credibili dimostrata dai repubblicani storici. Christie ha istruito retoricamente un formidabile caso contro Hillary Clinton, che sembrava l’orazione di Marco Antonio sul corpo di Cesare, a colpi di “siccome il dipartimento di Giustizia si rifiuta di farlo, presentiamo noi i fatti ed emettiamo il verdetto contro Hillary Clinton. Era il capo della diplomazia americana, guardate la violenza e il pericolo in ogni regione del mondo infettata dagli effetti della sua stoltezza. In Nord Africa è stata il grande architetto del disastroso rovesciamento di Gheddafi. Com’è la Libia oggi? Rovine, morte, violenza nelle strade , l’Isis domina il Paese”. Giù così con Siria, Nigeria, soldi alla Cina, il peggior negoziato di armamenti mai concluso della storia, con l’Iran, Cuba, fino alla sciagurata storia delle email sottratte al segreto di Stato e ora vaganti nell’etere digitale, chiedendo a ogni argomento “è colpevole o no?". L’avessero fatta a suo tempo la battaglia alla Clinton , con simile forza politica, tutto sarebbe diverso. Insomma, se oggi l’incapace elite del GOP ha un candidato con delle possibilità di vittoria, deve ringraziare la tenacia e la follia di Donald Trump. Il quale ha capito a perfezione dove sta la sua forza. E’ lo strumento di protesta di una grande maggioranza di elettori che si sono sentiti abbandonati, fuori dal processo politico, civile, economico, e non sono solo repubblicani. A costoro non interessa, almeno non ora, la vecchia sacra retorica del presidente presentabile, gradito al mondo, misurato ed elegante; al contrario deve sembrare anti Washington, provocarli, graffiarli, disprezzarli quei ricchi corrotti burocrati. Il goal dei prossimi mesi è portare al voto l’intero popolo degli arrabbiati. repubblica.it CLEVELAND - E’ fatta, indietro non si torna. In una giornata davvero storica, la convention repubblicana ha definitivamente consacrato Donald Trump come il suo candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Con il "roll call" iniziato alle ore 17.30 locali, cioè l’appello in ordine alfabetico Stato per Stato, le delegazioni presenti qui a Cleveland hanno votato la nomination. Trump ha raggiunto un traguardo impensabile 13 mesi fa quando annunciò la propria candidatura. "E’ un momento irreale", ha commentato a caldo suo figlio Donald Junior. Davvero irreale: un affarista controverso, più uomo di spettacolo che imprenditore, dal passato democratico, convertitosi al partito repubblicano solo di recente, ha sbaragliato 16 concorrenti e si è impadronito del Grand Old Party. A sancire la resa dell’establishment oggi sono venuti a parlare sul palco della Quicken Loans Arena i leader repubblicani di Camera e Senato, Paul Ryan e Mitch McConnell. La giornata si era aperta sotto auspici peggiori. All’insegna di due scandali, uno più fragoroso, l’altro forse più gravido di conseguenze. Il primo: la scoperta che il discorso fatto alla vigilia da Melania Trump aveva scopiazzato interi passaggi da quello di Michelle Obama nel 2008. Il plagio ha occupato l’attenzione dei media per l’intera giornata, ma forse non avrà grandi conseguenze tra gli elettori di destra, che hanno perdonato o ignorato una lunga serie di bugie a The Donald. Peraltro, Melania sembra aver mentito anche sulla propria laurea. Di che stroncare un ministro tedesco, non un’aspirante First Lady nell’èra della politica come reality-tv. L’altro scandalo, forse più serio, sta decapitando la Fox News. Il potentissimo Roger Ailes, chief executive della tv di Rupert Murdoch, canale di riferimento per il popolo di destra, dovrà andarsene per le accuse di molestie sessuali di diverse anchorwomen tra cui la celeberrima Megyn Kelly. Ailes è colui che ha fatto della Fox News la tv d’informazione più guardata e più influente, la sua caduta segna la fine di un’epoca. Il clima della convention è ambiguo. La base dei delegati qui presenti è entusiasta come ci si deve aspettare. Urla approvazione per il clan di Trump, fischia impietosamente i notabili colpevoli di un appoggio tiepido, come Mitch Mc Connell. Si capisce che l’establishment è ancora incredulo per quello che ha dovuto subire. Il ceto politico di destra ancora non sa se il tycoon immobiliare lo sta conducendo a un disastro (l’esperto di sondaggi del New York Times, Nate Cohen, dà il 67% di probabilità di vittoria a Hillary) oppure se nel mondo impazzito del post-Brexit potrebbe accadere un altro portento. The Donald intanto si crogiola nel suo momento magico. Anche stasera non ha resisto al proprio impulso narcisistico: è apparso di nuovo alla convention, per la seconda serata consecutiva, rubando la scena a tutti gli ospiti e violando la regola per cui il candidato parla solo alla fine. Anche lui sente l’irrealtà di quel che gli sta accadendo. E intanto se la gode. Poi si vedrà. caso melania CLEVELAND - Se ne sono accorti tutti che alcuni passi del discorso di Melania Trump, ieri alla convention di Cleveland, parevano ripresi pari pari da quello di Michelle Obama a Denver nel 2008. E così sull’aspirante First Lady dei repubblicani si è accesa la prima polemica dell’adunata che ha lasciato il segno anche in casa Trump aldlilà delle dichiarazioni ufficiali. I video dei due discorsi messi a confronto non lasciano dubbi, ma lo staff del miliardario bolla come "assurde" le accuse di plagio e mentre sui social infuria l’ironia, fonti vicine al magnate del Real Estate lo descrivono infuriato con il suo staff per aver esposto la moglie all’incredibile gaffe. E’ quanto rivelano fonti alla Cnn, mentre è iniziato lo scaricabarile tra i collaboratori del candidato repubblicano riguardo alla responsabilità della revisione del discorso. Le solite fonti hanno indicato Rick Gates, il vice del manager della campagna Paul Manafort, come la persona a cui era stata affidata la responsabilità di seguire la stesura del discorso di Melania. Silenzio invece dalla Casa Bianca. Se ne sono accorti tutti, si diceva, ma qualcuno se n’è accorto per primo: è stato un giornalista disoccupato, che non era nemmeno accreditato alla convention repubblicana, a svelare le forti similitudini fra i due discorsi. Giornalista televisivo da poco licenziato, il 31enne afroamericano Jarrett Hill era davanti al computer a un tavolo di uno Starbuck di Los Angeles e seguiva la Trump mentre controllava twitter e Facebook, quando ha notato la frase "la forza dei sogni" che gli ha ricordato il discorso di Michelle. S’è messo a cercare il video "originale" e ha fatto il confronto, poi sono partiti i suoi due tweet: "Melania deve aver apprezzato il discorso di Michelle Obama alla Convention del 2008 perché l’ha copiato", e "Melania ha rubato un intero paragrafo dal discorso di Michelle", post al quale ha allegato il testo originale. "Ridatemi il discorso", si ironizza su Twitter con la foto di Michelle sull’hashtag "le frasi famose di Melania". La citazione più letterale è quella usata dall’aspirante First Lady per descrivere i valori che le sono stati insegnati dai suoi genitori, cioè a dire il fatto che si deve "lavorare duramente per ciò che si vuole nella vita, che le promesse vanno mantenute, che si deve fare ciò che si dice e che si deve trattare la gente con rispetto", nonché l’importanza di trasmettere questi valori "alle future generazioni perché vogliamo che i nostri figli sappiano che il limite per i nostri traguardi è rappresentato dalla forza dei nostri sogni e dalla volontà di realizzarli". La signora Trump, fra l’altro, aveva dichiarato di aver scritto il discorso personalmente e ieri dopo la gaffe si è cercato di rattoppare anche questo ’buco’. "Melania e il suo team hanno preso appunti sulle fonti di ispirazione della sua vita, includendo, in alcuni casi, il suo pensiero", ha cercato di spiegare il portavoce Jason Miller, lasciando intendere che non fosse stata lei l’autrice. "E’ stato un onore introdurre mia moglie - ha commentato invece Donald Trump via Twitter sull’onda delle polemiche - il suo discorso e il suo atteggiamento sono stati formidabili". Ma anche in casa Gop, in molti hanno storto il naso: il capo della Repubblican National Committee ha detto che, trovandosi in una simile situazione, avrebbe già "licenziato" chi aveva scritto il discorso. La laurea è falsa? - Ma le accuse di plagio non sono l’unica tegola piovuta sull’ex modella slovena. Secondo quanto rivela l’Huffington Post Usa, Melania Trump avrebbe mentito sulla sua laurea. Citando due giornalisti sloveni che hanno scritto la biografia della moglie del magnate newyorchese del mattone, il sito svela che Melania, a dispetto di quanto viene detto pubblicamente, non ha mai portato a termine gli studi universitari. Li avrebbe invece abbandonati al primo anno. La biografia ufficiale ’Melania Trump, my World’, in particolare, racconta che la signora Krauss (il cognome da nubile della moglie del tycoon) ha iniziato a fare la modella a 16 anni, una carriera che è diventata a tempo pieno solo dopo la laurea in Disegn e architettura conseguita all’università della Slovenia. L’Huffington post scrive invece che la laurea non c’è mai stata, perché Melania avrebbe in realtà interrotto gli studi quando era solo una matricola. Sempre secondo quanto riferisce il sito, la nuova rivelazione sulla signora Trump solleva questioni su altre possibili ’bugie’ intorno alla figura dell’aspirante first lady. IL VICE CLEVELAND - "Sono un cristiano, un conservatore e un repubblicano. In quest’ordine". Michael Richard Pence, detto ’Mike’, incoronato dai delegati del Grand Old Party come "prossimo vicepresidente degli Stati Uniti", non ha mai nascosto la sua fede religiosa. L’essere cristiano-evangelico non è solo motivo di vanto personale, è anche quello per cui è stato lui il ’prescelto’, l’uomo che dovrà accompagnare Donald Trump nella corsa verso la Casa Bianca. Cinquantasette anni, nativo e residente di Columbus, Indiana, sposato da trentuno anni con Karen, tre figli (Audrey, Michael Jr. e Charlotte) e un passato da conduttore radiofonico, il numero due del dream ticket repubblicano è la parte ’politica’ che deve bilanciare il populismo, l’irriverenza e l’irruenza anti-sistema di The Donald. Come politico non aveva iniziato bene, portandosi dietro per qualche tempo la fama da perdente (peccato mortale negli Usa). Era la fine degli anni Ottanta quando per due volte di fila (nel 1988, l’anno della vittoria presidenziale di George Bush Sr. e due anni dopo) tentò di essere eletto alla Camera dei Rappresentanti, finendo regolarmente sconfitto dall’avversario democratico. La passione politica era però troppo forte, così pur dovendo attendere fino al 2000 (l’anno della contestata elezione di George W. Bush) realizzò finalmente il suo sogno. Dodici anni al Congresso a rappresentare l’Indiana e poi l’ascesa a Governatore in uno Stato di provata fede repubblicana, dove un quarto degli elettori (totali) si dichiara di fede evangelica. La cosa che lo definisce meglio, nel mondo della destra Usa messo a soqquadro da Donald Trump, è proprio il suo essere un cristiano-evangelico: schierato apertamente contro l’aborto, contro i matrimoni gay (e qualsivoglia unione omosessuale), un classico repubblicano dell’America del nuovo millennio, quella del Tea Party e della guerra totale a Barack Obama e Hillary Clinton. Da The Donald lo hanno diviso (anche nel recente passato) questioni fondamentali. La ventilata proposta di proibire l’accesso negli Usa ai musulmani (più che altro uno slogan per solleticare il proprio elettorato) Pence l’ha definita "offensiva e incostituzionale", il suo appoggio iniziale a Ted Cruz - il candidato, rivale di Trump, campione della destra cristiano-evangelica - ha reso incerta la sua nomina come vice fino all’ultimo. Poi anche The Donald si è convinto (un ruolo essenziale nella scelta lo ha giocato Paul Ryan, il numero uno del Grand Old Party al Congresso): è l’uomo giusto per rassicurare la destra più conservatrice sui temi sociali (aborto, gay, etc.), per convincere ad andare alle urne anche quella parte di elettorato che storce il naso di fronte a un candidato pluridivorziato, star tv e newyorchese purosangue (che agli occhi di una certa America è come dire peccatore seriale). Su aborto e matrimoni omosessuali Trump ha un passato di prese di posizione decisamente lontane dalle convinzioni conservatrici e il ’pedigree’ evangelico di Pence è senza dubbio di aiuto. E al candidato-miliardario - in questo molto pragmatico - poco importa che abbia sostenuto il nemico Ted Cruz e le critiche anche recenti del Governatore dell’Indiana ai suoi slogan. Quello che conta sono le sue posizioni (molto conservatrici), che lo rendono attraente a chi è ancora incerto se recarsi o meno alle urne: i fedelissimi del Tea Party, gli anti-abortisti, anti-gay , anti-tasse e pro-armi. Qualche mese fa Pence è finito sulle prime pagine dei media nazionali per la controversa legge sulla ’libertà religiosa’, che avrebbe permesso a commercianti, negozianti, ristoranti di rifiutarsi di servire clienti omosessuali. Dopo le proteste (comprese quelle di Apple o della Nba) ha dovuto fare una mezza marcia indietro, facendo una revisione della legge e scrivendo sul Wall Street Journal un editoriale per chiarire le sue posizioni: "Se vedessi il titolare di un ristorante rifiutarsi di servire una coppia gay, smetterei di andarci a mangiare". Nel suo passato una legge che rende obbligatori i funerali dei feti abortiti, i finanziamenti elettorali dall’industria del tabacco e una proposta di legge (nel 2009) per limitare il diritto di cittadinanza a chiunque nasca negli Stati Uniti. Proposte che dividono, ma che nell’America della guerra al terrorismo hanno un qualche effetto. Toccherà a lui, forte del suo passato da conduttore radiofonico, stare in prima linea nell’attaccare Hillary e il vice che la ex First Lady sceglierà nei prossimi giorni. MARIA LAURA RODOTA’ Si parla molto, alla convention di Cleveland, di «american exceptionalism». E’ stata descritta, questa convention repubblicana, come «il reality politico definitivo». Forse non è definitiva, di certo presenta interessanti elementi da reality. E momenti che fanno pensare «solo in America»; anche se forse oramai non è vero. Comunque, nella seconda serata, tema annunciato Make America Work Again, rimettiamo l’America al lavoro, c’è stato da lavorare per gli appassionati di personaggi non esattamente politici (altri, politici di primo piano come il leader del Senato Mitch McConnell, e all’inizio anche Paul Ryan, sono stati fischiati). I non politici sono stati scelti in quanto significativi, adatti a delineare e anticipare la personalità del candidato presidente Donald Trump. Il manager dei lottatori in gabbia Tra gli oratori, si è ascoltato: il manager dei lottatori in gabbia. Amicone di Trump o qualcosa del genere, Dana White è il presidente dell’Ultimate Fight Championship: «Non sono un politico, sono un organizzatore di combattimenti». Tra gente che pratica “arti marziali miste” e fa a botte nelle gabbie. Il giustamente taurino White ha raccontato: «Nessuno ci prendeva seriamente. Solo Donald Trump». Ovviamente, «Donald Trump è un combattente, e combatterà per gli Stati Uniti d’America». Come celebrità non è, secondo il termine trumpiano, “tremendous”, ma pazienza. Kimberlin Brown, ex attrice di soap operas come The Young And The Restless e Beautiful, ora ha una fattoria in cui coltiva avocados. Non si sente ben rappresentata «dai media e dai democratici». Le donne come lei vogliono «assicurare un futuro alle loro famiglie». Ha parlato da piccola imprenditrice e rapprentante delle California Businesswomen for Trump. Se l’è presa con l’Obamacare e le complessità dell’assicurazione sanitaria per i dipendenti. Ha detto che perciò i suoi dipendenti «quest’anno voteranno repubblicano». E che serve «un businessman di successo», insomma Trump. Ha concluso criticando «la sinistra» che tarpa le all’economia, e Hillary. La povera Tiffany E’ la figlia non prediletta, con occhioni da manga. Sua madre è Marla Maples, moglie numero due, l’unica che Trump detesti. Ha appena finito il college, ha inciso un singolo, ha un account su Instragram, si teme patisca l’impeccabile sorella Ivanka. «Scusate se sono agitata», ha detto iniziando; «però come mio padre non mi tiro mai indietro». Proseguendo; «Il suo desiderio di eccellenza è contagioso». «Mi motiva a lavorare duro». «Tira fuori il talento delle persone». Ha raccontato dei suoi commenti affettuosi scritti sulle pagelle, che lei conserva. Ha ricordato come, bontà sua, chiedesse notizie dei parenti dell’ex moglie in Georgia. «Il mio papà è un incoraggiatore nato». «Ho ammirato mio padre tutta la mia vita. Dio vi benedica tutti», ha concluso, poi è scappata. L’enologa Kerry Woolard della Trump Winery ha parlato bene di Trump: «E’ un uomo di visioni. Trasforma le visioni in realtà». Anche nel Trump Winery and Hotel, da lui resa “la più grande azienda vinicola della Virginia”. «Non sarebbe successo senza Donald Trump». «Lui e suo figlio Eric ascoltano con attenzione». «I Trump mi hanno donato un approccio alla vita che mi ispira». Chi è Andy Wist? Se lo sono chiesto tutti, quando è stato diffuso il programma della convention. Si è presentato un signore con barba corta e accento di Brooklyn, che ha dichiarato «sono uno normale. Sono la prova che il sogno americano è una realtà». Diminuita «dopo otto anni di presidenza Obama». Wist è di New York come Trump, ha un’impresa, la Standard Waterproofing Company, restaura facciate, ripara tetti, impermeabilizza, Anche lui ha parlato male di Hillary. La golfista professionista Natalie Gulbis si è fieramente proclamata golfista cristiana e conservatrice. Si è lamentata delle discriminazioni verso le donne nel golf. Grazie a Donald Trump, ha aperto un golf club. Le ha anche detto «non avere paura delle sfide». Obiettivo del suo breve discorso è stato di far sembrare Trump quasi femminista (lei non ha parlato male di Hillary) Il lobbista dei fucili Chris Cox, direttore del NRA Institute for Legislative Action, il braccio politico della potentissima American Rifle Association, ha fatto sapere che «viviamo in tempi pericolosi», anche per via dell’amministazione Obama: «Per questo abbiamo bisogno del Secodo Emendamento» (entusiasmo in platea). Poi ha presentato il caso di una “mamma con bimbi piccoli” con un energumeno che le sfonda la porta. Poi ha parlato malissimo di Hillary. Ha detto che una presidenza Clinton vorrebbe dire «perdere il diritto di avere un’arma»; però a lei non importa perché da trent’anni è sempre scortata. «Le donne americane sono il gruppo in cui cresce di più il possesso d’armi». Tutti i Trump sono membri della NRA, ha notato subito dopo. Al netto delle femmine di famiglia (neanche Ivanka), forse scortate anche loro, o meno appassionate. Donald Junior E’ un tipo magro e timido, con i capelli che sembrano dipinti in testa. E’ stato lui, dal parterre dei delegati di New York, ad annunciare il voto dello stato, che ha messo Trump, “over the top”, insomma gli ha fatto raggiungere la maggioranza necessaria alla nomination. Le persone sensibili in tribuna hanno avuto un moto di empatia nei suoi confronti. Donald junior sembra sopraffatto dal genitore e ha pure lo stesso nome. Quando è salito sul palco era nervosissimo. Si è presentato come padre di cinque figli, marito di Vanessa, e «figlio di un grande uomo». Aggiungendo che bisogna eleggerlo in quanto uomo «in grado di realizzare l’impossibile». «Per lui, la parola impossibile è solo l’inizio». «Mio padre dava più retta agli uomini che lavoravano nelle costruzioni che ai tipi di Harvard». Don junior ha poi parlato di politica ed economia. Ha detto di essere amico di uno dei sopravvissuti di Bengazi. Subito dopo ha parlato non male, malissimo di Hillary. Poi, il giorno dopo il caso Melania, pure lui per mezz’ora è stato accusato di plagio. Due passaggi del suo discorso -dedicati alla scuola, poi- sono quasi uguali a quelli di un articolo sulla rivista The American Conservative. Uno -pareva efficace- era critico verso le scuole americane, «che un tempo erano un ascensore sociale e ora sono bloccate al pianterreno». L’altra le paragonava a «un grande magazzino sovietico, organizzato a beneficio dei commessi, non dei clienti». E’ seguita una polemica istantanea; uno screenshot del testo di Trump junior e dell’articolo uscito a maggio e twittato dal Daily Show è stato condiviso 9000 volte in pochi minuti, a Cleveland si è riso un tot. Anche se l’autore dell’articolo, F.H. Buckley, ha poco dopo twittato che «non è stato un furto». E che per lui «è okay». Molti gli hanno obiettato che se si usa una frase altrui si dovrebbe citare la fonte. Buckley ha fatto sapere di aver collaborato alla stesura. Ora si attendono i discorsi dei fratelli Eric e Ivanka. Donald Trump E’ apparso sugli schermi in collegamento dopo la golfista, come sfondo aveva una bandiera americana e un muro in pietra viva. L’inquadratura includeva una cornice dorata (il colore degli alberghi e di tutte le cose Trump). Ha annunciato il suo arrivo a Cleveland mercoledì, la sua vittoria in Ohio, la sua presa di possesso della Casa Bianca. Ha detto che parlerà anche oggi, insomma parlerà ogni sera come minacciato (a pensarci è una convention a modo suo eccezionale, e un reality, vabbe’).