Alessandra Bocci, SportWeek 16/7/2016, 16 luglio 2016
SILVIO RIMEMBRI ANCOR?
Sono soltanto numeri. Trent’anni di Milan, cinque coppe dei Campioni, otto scudetti e un sacco di altra argenteria.
Grandeur prolungata, ma alla fine, come nella serie tv Downton Abbey, non c’erano più soldi per tenere aperte tutte le sale. Non è maldicenza, è realtà: Berlusconi non poteva continuare a perdere milioni ogni anno, glielo chiedevano i suoi figli, glielo chiedevano i tifosi. Alla fine il tycoon potrebbe mollare a un altro tycoon, composito e sconosciuto, perché al bar la gente dice: «Finalmente Silvio ha venduto ai cinesi». Quali cinesi? Sono miliardi, i cinesi. Non ci sarà più un proprietario, ma un fondo, oggetto rimasto a lungo misterioso. Parafrasando Humphrey Bogart si potrebbe dire: «È il calcio moderno, bellezza, e tu non puoi farci niente». E in fondo il Milan di Berlusconi era finito da tempo, e il presidente stesso non è mai riuscito ad accettare quella creatura che aveva cambiato pelle senza che lui riuscisse a farle rivivere il passato. Ora piano piano il quadro si chiarirà e le promesse di un grande mercato da parte dei leader di un fondo importante potrebbero sistemare tutto. Riporteranno forse un entusiasmo ormai finito, anche se replicare quello che è stato per trent’anni il modello Milan è una mission (per dirla alla Berlusconi) probabilmente impossibile.
Come tanti modelli rivoluzionari, il Milan alla Berlusconi è passato attraverso scetticismo, potere forte, conservatorismo e decadenza. È partito con gli elicotteri, la musica di Wagner, uno straniamento generale visto che si arrivava da un periodo buio. Berlusconi prese il Milan quand’era con i libri in tribunale, come ripeteva spesso il suo luogotenente Galliani, e Milanello era un posto dove si davano feste di matrimonio e i giocatori in ritiro si addormentavano (o non si addormentavano) con la musica del party. In quel caos emerse Silvio, il giovane imprenditore del mattone, che disse più o meno: «Costruisco qualcosa anche qui».
E operò una scelta azzardata, affidando presto la sua creatura ad Arrigo Sacchi, allenatore visionario per l’epoca. Vincere, convincere, divertire: una cantilena che generazioni di giocatori, cronisti, tifosi, hanno sentito ripetere, e in fondo a tutto c’era sempre lui, Berlusconi. Prima l’imprenditore che amava il calcio ma voleva anche accreditarsi a livello internazionale, poi il politico che, dicevano gli oppositori, aveva trovato nel Milan un formidabile strumento di propaganda, quindi l’uomo che vede crollare tutto il suo sistema e si aggrappa ancora al Milan, che non fa parte degli affari e anzi “afferisce alla sfera dei sentimenti”.
UOMINI E TROFEI
Il suo Milan ricco di coppe e fallimenti inspiegabili (la rimonta subita dal Deportivo La Coruña, soprattutto la sconfitta con il Liverpool a Istanbul) è una storia di trofei ma soprattutto di uomini, scelti da lui o accettati senza troppa convinzione. Uomini simbolo come Sacchi, quello del trionfo di Barcellona, dell’esodo dei tifosi, del periodo giovane. In quegli anni con le coppe europee correvano le battute, le barzellette, un senso di creatività che dominava tutto il resto. I giocatori erano strapagati, erano i migliori, ma dovevano obbedire alle visioni di gioco dell’Arrigo e a quelle del presidente, che non sempre coincidevano. Sacchi amava il gioco collettivo, Berlusconi gli interpreti dai piedi raffinati. Sacchi gli diceva: «Secondo lei, presidente, Robert De Niro potrebbe trasformare Giovannona Coscialunga in un cult?». Berlusconi ci pensava su, ammetteva che in fondo per vincere convincere divertire ci voleva un progetto complessivo, uno di quelli che a un imprenditore di successo non possono mancare. Il sodalizio non si è mai interrotto, la linea telefonica è sempre rimasta aperta, una specie di linea rossa che diventava caldissima quando c’erano da prendere decisioni complicate. Adriano Galliani e Arrigo Sacchi sono rimasti sempre sulla barca del presidente. Gli altri salivano e scendevano. Loro no.
RITRATTO DI GRUPPO
Poi ci sono stati altri uomini, perché trent’anni di Milan sono come un quadro di Pellizza da Volpedo: un ritratto di gruppo, una moltitudine dietro alle figure in primo piano. E al Milan in trent’anni ce ne sono state, di figure da primo piano. Van Basten, Gullit, Rijkaard. Maldini, Baresi, Costacurta. Pirlo, Nesta, Shevchenko, Kakà, Inzaghi. Ronaldo, Beckham, Ronaldinho, l’ultimo grande amore calcistico di Berlusconi. Quando arrivò da Barcellona il presidentissimo disse “È il giocatore più forte”. Peccato che Ronnie non avesse granché voglia di allenarsi o di abbandonare la sua linea di condotta, fra calcio e vita libera.
SARTI E MODELLI
Ci sono stati gli uomini amati e quelli trattati con scetticismo. C’è stato Zaccheroni, il sarto che rovinava la stoffa buona (Silvio dixit), eppure al Milan aveva portato in dote uno scudetto insperato. Ma i successi per il presidente non bastavano mai. Il suo modello era Santiago Bernabeu, il milanismo era come il madridismo. Il Milan di Berlusconi e del suo ministro Galliani ha intrattenuto per anni e anni rapporti eccellenti con i club più potenti: gli amici erano tanti, ma il più vicino di tutti forse è sempre stato Fiorentino Perez, l’erede del mitico Bernabeu, uomo potente e inossidabile. Erano anni di grandi amichevoli oltre che di grandi ingaggi, e il presidente pensava in grande anche nelle sconfitte: una volta Zaccheroni ha rischiato il licenziamento per aver perso il trofeo Berlusconi con il Real a San Siro. Consiglio di Stato, poi conferma sub judice. Ma il presidente era capace anche di imbelvirsi quando non c’era nulla da vincere, ma tanto da fare per divertire. Eppure a volte neppure questo gli bastava: per esempio, il 4-2-fantasia di Leonardo. Finì con una separazione piuttosto brusca: lui e Berlusconi non erano fatti per intendersi.
L’ETÀ DELL’ORO
La prima età dell’oro è quella dell’ideologia sacchiana, la seconda quella del pragmatismo di Capello: scudetti a ripetizione, ma anche la Champions League più incredibile e insperata ottenuta schiantando il Barcellona di Cruijff. Era un Dream Team e il Milan con la difesa incerottata lo fece a pezzi. Berlusconi è rimasto sempre legato alla prima finale, quella vinta con la Steaua Bucarest, perché lo spettacolo delle migliaia di tifosi in carovana da Milano alla Catalogna lo aveva entusiasmato. Ma la vittoria del 1994 aveva consolidato l’impero del Milan, stabilendo una continuità difficile da eguagliare. Dopo Sacchi e Capello l’era di Ancelotti, più Arrigo che Fabio, un solo scudetto in otto stagioni (per Sacchi uno in quattro), ma due vittorie in Europa e una finale incredibilmente persa col Liverpool. È il Milan dei grandi talenti, l’ultimo vero ciclo. Poi arriva Allegri e con lui Ibrahimovic, un altro scudetto, ma anche tanti tentennamenti.
Il presidente ripensa ai vecchi anni e non gradisce molte delle esibizioni.
L’INIZIO DELLA FINE
Partito Ibrahimovic con Thiago Silva, esonerato Allegri, si apre un periodo turbolento, con la stranezza del doppio amministratore delegato e i risultati che stentano ad arrivare. È un viaggio nel tempo, che ricorda quel biennio del ritorno infelice di Sacchi e poi di Capello, perché il passato non sempre si può replicare. E infatti Ancelotti, a volte richiamato, si guarda bene dall’accettare l’invito. È un periodo di amarezze in campo e fuori, con i commenti agri dei tifosi e una gestione sempre più complicata. Berlusconi fa scelte che non convincono nessuno, altro che vincere, e alla fine si arrende all’evidenza. È il momento di lasciare il Milan in altre mani, che difficilmente sapranno ricreare quello che non c’è più. Ma quando chiudere alcune stanze non basta, l’unica cosa da fare è cedere il castello.