Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 20/7/2016, 20 luglio 2016
E LO “SCEICCO” FELLINI GUASTÒ IL FEGATO A FLAIANO
Federico si lamentava ad alta voce: “Quel rompicoglioni di Flaiano è proprio un rompicoglioni! Fa le sue cose da scrittore e non lo smuovi e poi è pigro, è pigro. Scrive solo se ha bisogno di soldi, ma quando avrebbe vinto il Premio Strega se Longanesi non lo avesse preso per finire il libro?”. Nei ricordi di Moraldo Rossi, il Moraldo de I Vitelloni, storico assistente di Fellini, il lungo sodalizio tra il regista e lo scrittore visse di momenti di lampi creativi e incomprensioni. Dal loro primo incontro – nelle stanze di Omnibus di Benedetti – Fellini e l’altro provinciale sbarcato dalla provincia marziana per raccontare Roma meglio di qualsiasi indigeno collaborarono per 5 film (Lo sceicco bianco, I Vitelloni, Le notti di Cabiria, La Dolce Vita, Giulietta degli spiriti) e poi si separarono bruscamente ritrovando poco prima della morte di “Enniotto”, nel 1972, un dialogo formale in cui l’affetto di un tempo era un rumore di fondo, un rimpianto.
Come racconta Fabrizio Natalini in un libro dedicato all’autore pescarese (Ennio Flaiano, una vita per il cinema) secondo Goffredo Fofi la querelle e la sua ricostruzione a posteriori sono molto meno interessanti del risultato. Più che ai contrasti e alle loro ragioni – suggerisce Fofi – bisognerebbe guardare al prodigio di un lungo creare tra due mondi lontani che tanti capolavori diede al cinema. I due si frequentano spessissimo. Hanno villette a Fregene e si trovano in via Veneto dove Fellini, introdotto da Flaiano, siede ai tavoli dei letterati di fine anni 50 prendendo appunti inconsapevoli su La Dolce Vita.
In quella Roma, c’era Alberto Arbasino secondo cui i motivi della frizione poi diventata addio erano per così dire esistenziali: “Fellini e Visconti non avrebbero mai riconosciuto ai loro collaboratori uno status alla pari, nemmeno a intellettuali di rango come Flaiano o Testori. E non solo perché Visconti aveva l’attitudine del signorotto abituato a trattare tutti come dei lacchè; anche Fellini, che pure non si chiamava come i duchi di Milano, quando andava in America viaggiava in prima classe, mentre Flaiano veniva abbandonato in turistica. Gli sceneggiatori erano considerati dei subordinati. E anche da qui veniva l’amarezza di Flaiano”. L’episodio del biglietto aereo è solo uno tra i tanti. Per l’Oscar di 8 ?, la Cineriz di Rizzoli organizza i titoli di viaggio di cinque illustri esponenti del “cinematografo”. Angelo, il produttore e Fellini, il regista, in business. Kezich, Tullio Pinelli e Flaiano in economica. Durante la trasvolata a un cupissimo Flaiano, Fellini va a scusarsi dell’equivoco portando noccioline e assicurandogli la propria estraneità. Dopo 9 ore di tormenti e pensieri più scomodi di una poltrona di seconda classe però, Flaiano scende dalla scaletta dell’aereo e per prima cosa acquista un biglietto per fare immediato ritorno in Italia.
Nell’opinione generale, il contributo di Flaiano ai film di Fellini – enorme, ma non recintabile – non si limitava al guizzo geniale, ma temperava la metafora a cui Fellini amava indulgere. Nelle discussioni pubbliche però, l’apporto di Ennio tendeva a diventare una macchia nel quadro. Disse Suso Cecchi D’Amico: “Fellini mise a dura prova il fegato di Flaiano dichiarando sempre di non avere sceneggiatura e di andare sul set con in tasca un fogliettino grande quanto il biglietto dell’autobus sul quale nottetempo aveva segnato qualche appunto. Sfacciato. Le sceneggiature le aveva eccome…”. Flaiano era combattuto tra la ritrosia di appartenere a un contesto lavorativo che sentiva appartenergli sempre meno e la sensazione di essere, tra i figli di Fellini, quello nato da un dio minore. “Mi ha trattato come fossi una bottiglia di Coca-Cola, lui tira dalla cannuccia e aspira”, raccontò il disegnatore Bruno Rasia descrivendone l’insofferenza.
A Enzo Forcella che recensì con toni duri Diario Notturno, Flaiano scrisse sul tema parlando de La Dolce Vita e fotografando un crescente disagio: “Detestavo chi mi trovava ‘divertente’, perché io non mi divertivo affatto e le tue parole misero un po’ di limone nel pasticcio dei consensi inutili. Erano le più giuste e da quel giorno ebbi per te la stima e l’affetto offeso che riserviamo soltanto alle persone sincere… Il film di Fellini nasce da questo bisogno di raccontarci come sono andate le cose per noi della nostra generazione che abbiamo creduto di poter sistemare le nostre faccende spirituali così come andavamo sistemando quelle economiche. Vuotando il bicchiere abbiamo visto che in fondo c’era il verme. Ognuno ha reagito secondo la sua natura: chi ha ingollato anche il verme, chi ha gettato via il bicchiere, chi ha vomitato. Io continuo a vomitare. Ma senza recriminazioni…”. Le recriminazioni invece arrivarono e pochi anni dopo, nel 1964. Il pretesto fu un articolo di Sergio Saviane per l’Espresso in cui si paragonava la scomparsa di Flaiano dall’orizzonte dei collaboratori a un’operazione senza anestesia. Pinelli (quello che tra gli sceneggiatori a detta di Fellini – rivelò Gianfranco Angelucci – “faceva il lavoro di muratore”) e Brunello Rondi si risentirono e risposero rivendicando il proprio ruolo. Scrisse anche Flaiano e scrisse a Fellini: “Saviane ha detto soltanto una cosa giusta, cioè che la nostra collaborazione è finita”. E ancora: “Ciao, caro Fellini, le amicizie frivole finiscono per una frivolezza. Tuttavia, come si dice in questi casi? Arrivederci e buona fortuna”. Dopo pochi giorni Fellini rispose: “Caro Flaiano, non ho mai avuto dubbi sulla frivolezza della tua amicizia ma che vuoi farci, sei proprio fatto così e anche la lettera che mi hai scritto è frivola. Comunque, per me andava tutto bene lo stesso. Finisce la collaborazione? Mi spiace. Mi sembrava che in fondo ti divertivi a lavorare con noi e non ti facevo poi fare brutta figura come spesso ti capita con altri registi. Ennio caro, ti saluto e buona fortuna anche a te, frivolamente”.
di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 20/7/2016