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 2016  luglio 18 Lunedì calendario

POTERE E INVESTIMENTI SPINGONO IN GIÙ IL GREGGIO

L’estate avanza, e con essa potrebbero aumentare sostanzialmente i prezzi del petrolio. Ma si cela un fuoco fatuo dietro questa possibile prospettiva alimentata da fattori congiunturali e analisi imprecise. Ciò che può spingere il greggio al rialzo anche fino a 60 dollari, è la stagione dei più alti consumi, quella estiva, in cui i trasporti mondiali raggiungono il picco. A sostenere la crescita c’è la convinzione – diffusa da molte imprese e osservatori – che l’eccesso di offerta si stia progressivamente riassorbendo a causa della crisi di molti paesi produttori e dell’incremento dei consumi. La schiera di quanti diffondono messaggi positivi è guidata dall’Agenzia Internazionale dell’Energia e dall’Opec, eccellenti nel prevedere il passato ma raramente in grado di fornire una qualche indicazione sul futuro. È bene guardare con cautela agli elementi che sottendono le voci ottimistiche. Con l’arrivo dell’inverno, i consumi scenderanno sensibilmente. E la crescita dell’offerta non si fermerà perché gli investimenti avviati qualche anno fa per lo sviluppo di nuova capacità stanno arrivando adesso sul mercato, mentre altri sono in completamento e i loro effetti si devono ancora vedere. Il risultato è che la capacità produttiva e l’offerta di petrolio continuano a crescere. A peggiorare le cose, i Paesi produttori, a partire da Arabia Saudita e Russia, stanno spingendo l’acceleratore sulle produzioni con l’obiettivo di mantenere o conquistare quote di mercato a dispetto dei prezzi. Nei primi mesi del 2016 la Russia ha battuto ogni record produttivo dell’era post-sovietica. L’Opec non è stata da meno: a giugno l’organizzazione ha raggiunto livelli produttivi mai visti dal 1997, dimostrando quanto fosse illusoria l’aspettativa che i grandi esportatori di greggio trovassero qualche intesa per limitare la loro produzione. L’Arabia Saudita, che dell’Opec è il kingmaker, non accetterà mai che l’Iran risorga come grande Paese petrolifero (cosa che sta accadendo) rifiutando di partecipare al taglio delle produzioni come Teheran ha più volte annunciato. Allo stesso tempo, Riad non potrà mai accettare che Russia e Stati Uniti si considerino immuni da ogni iniziativa di contenimento della produzione, poiché i loro governi sostengono di non controllare le imprese che producono petrolio. In queste condizioni, come mi ha confidato in privato uno dei massimi esponenti dell’elite petrolifera saudita, meglio la guerra totale e vinca il migliore, cioè chi riuscirà a resistere a prezzi che dovessero precipitare. Anche il Canada (quarto produttore globale) è in ripresa dopo i devastanti incendi che ne hanno limitato la produzione in primavera contribuendo a diminuire l’offerta mondiale e quindi a sostenere i prezzi, e già nei prossimi mesi la capacità del paese tornerà a superare i 4 milioni di barili al giorno. La lista dei paesi in crescita produttiva rimane preponderante rispetto a quella di chi vede la propria produzione di petrolio in calo. Tra questi ultimi, sono sempre citati gli Stati Uniti, che effettivamente stanno pagando quanto nessun altro il fio del boom troppo rapido dello shale oil. Ma attenzione. Per quanto calata di poco meno di 1 mbg rispetto al picco toccato a aprile del 2015, la produzione di greggio Usa ha retto bene alla crisi dei prezzi. Molte società impegnate nello shale sono fallite, ma rappresentano una frazione modesta dell’intera produzione. Al contrario, le imprese migliori stanno migliorando le tecnologie delle operazioni shale, con la prospettiva di portare i costi operativi sotto i 20-25 dollari a barile nel prossimo triennio. Intanto, dopo un anno di continue diminuzioni, negli Stati Uniti è tornata a aumentare l’attività di perforazione, che nel frattempo è diventata molto più efficiente e economica. La discesa dei costi di estrazione, d’altra parte, è un fenomeno mondiale. Dopo l’inflazione degli anni passati, si sta assistendo a una deflazione che consente di sostenere investimenti altrimenti troppo costosi. Tutti questi elementi e l’analisi puntuale di quanto sta avvenendo nell’80% dei giacimenti mondiali inducono a ritenere che l’eccesso di offerta di oro nero non si riassorbirà nei prossimi mesi, e l’aumento dei consumi non riuscirà a compensarlo. I due motori che negli ultimi anni hanno sostenuto la pur modesta crescita della domanda mondiale – Cina e India – non bastano più da soli a dare l’impulso che servirebbe a un sostanziale rimbalzo dei consumi. Inoltre, le politiche per l’efficienza energetica e la lotta all’inquinamento che si stanno dispiegando in molte parti del mondo agiscono in qualche modo da freno a una robusta crescita della domanda, come pure la riduzione dei sussidi in favore dei prodotti petroliferi in molti paesi emergenti. Se poi il dollaro dovesse effettivamente rafforzarsi, gli effetti sulla domanda sarebbero ancora più deprimenti. Pertanto, a meno di una grande crisi geopolitica o di crisi multiple su più fronti, temo che per i produttori di petrolio il peggio non sia ancora passato. E che dopo i fuochi fatui dell’estate e del primo autunno, una nuova ondata di ribassi dei prezzi possa gelare le aspettative illusorie all’inizio del 2017.
Leonardo Maugeri, Affari&Finanza – la Repubblica 18/7/2016