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 2016  luglio 18 Lunedì calendario

DERIVATI, CONTRO I PERICOLI È TUTTA QUESTIONE DI CONTROLLI

La crisi bancaria italiana ha acceso i riflettori sulle centinaia di miliardi di crediti deteriorati che ingombrano i bilanci dei nostri istituti. Ma a sentire molti protagonisti del nostro mondo politico e bancario, il vero pericolo per la stabilità finanziaria europea è costituito dai derivati, titoli il cui prezzo è determinato dal valore di un altro strumento. «La vera questione sulla finanza europea non sono i non performing loans italiani ma i derivati di altre banche», ha detto Matteo Renzi a inizio luglio. «È un problema che va verso la soluzione ma vale uno, i derivati di altre banche valgono cento», ha aggiunto. Il ruolo giocato dai derivati durante la crisi finanziaria del 2008 ha contribuito a rendere tossica la loro reputazione. Ma alcuni economisti notano come la pericolosità di questi prodotti dipenda principalmente dal modo in cui essi vengono utilizzati. «La nozione che i derivati aumentino i rischi nel sistema finanziario non regge», dice Nicolas Véron del think tank Bruegel. «Sono uno strumento che esiste per coprire altre posizioni, inventato per ridurre i rischi». Per Véron, i derivati pongono un problema quando sono gestiti con incompetenza dalle banche, oppure se sono usati per attività di speculazione finanziaria: «Il problema non sono i derivati in quanto tali, ma come vengono utilizzati». Secondo dati della Banca dei Regolamenti Internazionali, che agisce da banca centrale delle banche centrali, l’80% dei derivati esistenti nel 2015 era legato ai tassi d’interesse. Questi derivati includono prodotti molto complessi, ma anche strumenti più semplici, come quelli che la banca utilizza per coprire i rischi legati all’emissione di mutui a tasso fisso. Il 13% circa erano contratti sui tassi di cambio, mentre il peso dei prodotti associati al prezzo delle materie prime e delle azioni era molto minore. Uno studio di Mediobanca, anticipato da Affari & Finanza , ha mappato i derivati presenti nei bilanci delle principali banche europee. A fine 2015, il loro valore totale, misurato a prezzi di mercato, era di 4,300 miliardi, pari a circa tre volte e mezzo il patrimonio netto tangibile delle banche. Le banche con la maggiore esposizione a questi strumenti sono Deutsche Bank, Bnp Paribas e Barclays. Il valore di ciascuno dei loro portafogli di derivati è di circa 450-500 miliardi di euro – rispettivamente pari a 9, 5,5 e 5,8 volte il loro patrimonio. Unicredit e Intesa Sanpaolo, le principali banche italiane, hanno un’esposizione molto minore, di circa 75 miliardi a testa, pari a meno di due volte il loro patrimonio. Il portafoglio di derivati di Deutsche Bank sta causando particolari preoccupazioni fra gli osservatori internazionali. A fine giugno, il Fondo Monetario Internazionale ha detto che «Deutsche Bank sembra essere la banca che contribuisce di più al rischio sistemico » a causa della sue interconnessioni globali. La dimensione dei portafogli di derivati è scesa in praticamente tutti i principali Paesi europei. L’esposizione complessiva è infatti diminuita del 30%, rispetto al 2014. Per gli svizzeri Credit Suisse e Ubs il valore dei derivati è diminuito rispettivamente del 57% e del 34%. La ragione principale di questa diminuzione riguarda i nuovi requisiti regolatori che intendono limitare la leva delle attività finanziarie delle banche. Le nuove regole di Basilea 3 hanno introdotto un limite al cosiddetto leverage ratio per cui il rapporto fra capitale e attivi non potrà essere sotto il 3%. Questa norma entrerà in vigore nel 2018, ma i regolatori hanno già cominciato a premere sulle banche perché rientrino nei nuovi criteri. I regolatori Usa, svizzeri e britannici hanno inoltre deciso di avere dei requisiti più stringenti rispetto a quelli richiesti da Basilea. I contratti derivati espongono le banche a due tipi di pericolo. Il primo è legato al “rischio di credito”, ovvero che la controparte con cui è stipulato il derivato fallisca. Il valore lordo di un portafoglio di derivati è, da questo punto di vista, una guida sbagliata alla sua pericolosità. È possibile infatti che una banca abbia due titoli diversi con la stessa controparte, con posizioni opposte, che si annullerebbero a vicenda in caso di fallimento. Da questo punto di vista, è dunque importante vedere il valore netto dei portafogli di derivati. Secondo elaborazioni di Mediobanca, per Bnp Paribas e Hsbc, una volta fatto il “netting”, il valore della loro esposizione a derivati scende di circa un quarto, riducendosi rispettivamente da 476 miliardi a 355 e da 362 a 264. Al rischio di credito si affianca però quello di mercato, ovvero che i titoli si muovano in maniera improvvisa, causando perdite eccessive su una determinata posizione. Questo problema è stato alla base di alcune delle perdite più spettacolari causate dai derivati: nel 2012 Bruno Iksil, trader di JP Morgan, ha accumulato circa 6 miliardi di perdite su un portafoglio di derivati che lo ha reso famoso al mondo come la “balena di Londra”. Per questo le banche computano il “valore a rischio”, una stima della perdita potenziale che non può essere superata in un determinato periodo di tempo con una determinata probabilità. Nel 2015, il valore al rischio per Deutsche Bank, calcolato su un intervallo di un giorno e con una probabilità del 99% è stato in media di 105 milioni. Questo calcolo non considera però i movimenti più improvvisi del mercato, che sono quelli che possono creare le perdite maggiori. Per i regolatori, la sfida è dunque quella di controllare l’uso che le banche fanno dei derivati, senza però uccidere uno strumento che può essere utile. «Le autorità di vigilanza devono capire e monitorare questi portafogli», dice Véron. «Non è chiaro se ci sia bisogno di regole nuove, l’importante è un’attenta supervisione».
Ferdinando Giugliano, Affari&Finanza – la Repubblica 18/7/2016