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 2016  luglio 18 Lunedì calendario

MERCATI, 11 MILIARDI DI BOND SOTTOZERO: COSÌ L’ECONOMIA RISCHIA LA SUPER-DEFLAZIONE

Paul Krugman e molti altri stanno insistendo su questo tema: che cosa sta cercando di dirci il mercato mondiale dei bond (titoli pubblici, obbligazioni)? Come decifrare i suoi segnali, apparentemente impazziti? Una premessa: più delle Borse, le cui oscillazioni sono spesso prive di significato come indicatori di lungo termine sulla salute dell’economia reale, è il mercato dei bond il barometro più affidabile per capire dove va l’economia mondiale. Per una serie di ragioni: perché il mercato dei bond è più grosso, poi perché tratta titoli che rappresentano un anello di collegamento fra lo stato delle finanze pubbliche o aziendali da una parte, dall’altra le scelte di medio-lungo periodo di investitori istituzionali come i fondi pensione e le compagnie assicurative.
Fatta questa premessa, il passo successivo non è rassicurante. In questo momento, se preso alla lettera, un mercato dei bond dove 11.000 miliardi di dollari di titoli danno rendimento negativo, è un preannuncio di recessione mondiale. Nonché di deflazione a perdita d’occhio. Tuttavia qualcosa è cambiato nella natura stessa di questo mercato per effetto delle politiche di "quantitative easing" delle banche centrali, sicché non sappiamo se sta prevedendo con certezza una recessione, o se invece ci sta dicendo che le nuove politiche monetarie hanno scatenato una rivoluzione copernicana in tutte le aspettative degli investitori. Se questo è vero, il barometro dei bond sarebbe diventato molto meno affidabile di una volta, o quantomeno non potremmo fare analogia tra le sue previsioni di oggi e quelle di ieri, perché un attore importante come le banche centrali ha in qualche modo "truccato" il barometro interferendo pesantemente col suo funzionamento, ancorché a fin di bene.
Chi crede nella saggezza del mercato dei bond, individua una profonda razionalità anche nel comportamento attuale di quegli investitori che accumulano bond dal rendimento negativo. Anche se la logica dice che si tratta di un controsenso, di un mondo alla rovescia, la versione economico-finanziaria di "Alice al di là dello specchio" (Lewis Carroll: non un economista, ma un fine giocoliere di logica matematica). Bisogna allora situarsi nella prospettiva della "stagnazione secolare". Ricapitolando l’origine di un termine che sta entrando nel discorso comune, fu negli anni Trenta e nella scuola austriaca che si teorizzò per la prima volta la stagnazione secolare. Un paio d’anni fa il concetto è stato aggiornato e rilanciato da Larry Summers, economista di Harvard nonché ex segretario al Tesoro di Bill Clinton. Da allora una ricca letteratura scientifica è tornata ad occuparsene, compresi alcuni studi targati Fondo monetario internazionale. Semplificando molto, i teorici della stagnazione secolare ci dicono che nel lungo termine – dalla Rivoluzione industriale inglese ai nostri giorni – lo sviluppo economico ha avuto due motori trainanti: la crescita demografica e il progresso tecnico. L’aumento della popolazione ha allargato sia la forza lavoro sia la platea dei potenziali consumatori. L’innovazione tecnologica ha consentito l’aumento della produttività del lavoro. Il capitalismo ha generato benessere diffuso grazie a queste due spinte propulsive. Che si sono esaurite, o si stanno esaurendo, entrambe. La popolazione ha smesso di crescere da tempo nei paesi avanzati, ma ormai anche la Cina è sotto l’effetto della denatalità e subisce un veloce invecchiamento della sua forza lavoro. I trend delle nascite sono in calo praticamente ovunque, anche in molti paesi emergenti. Nel breve termine c’è chi riesce a contrastare o attutire la propria denatalità facendo ricorso all’immigrazione, per esempio gli Stati Uniti. Ma l’apertura all’immigrazione incontra resistenze politiche sempre più forti. E comunque, se a livello planetario rallentano le nascite, prima o poi anche il ricorso all’immigrazione non potrà compensare una demografia stagnante.
In quanto al progresso tecnologico, è il grande mistero del nostro tempo: se ne parla tanto, se ne vede poco. O meglio, sono invisibili i suoi effetti sulla produttività. Crediamo di vivere in un’epoca di forsennate innovazioni, ma forse è solo un’illusione. I social media e le app degli smartphone sono una bazzecola, nel loro impatto economico, se paragonati con le grandi invenzioni come il motore a vapore e il motore a scoppio, l’elettricità e la ferrovia, il telefono e i jet. Quelle sì, ebbero un impatto poderoso e misurabile sulla produttività umana. L’ultima grande invenzione di cui si ha traccia nei dati della produttività del lavoro è il personal computer. La sua introduzione negli uffici e nelle fabbriche fece fare un balzo alla produttività negli anni Novanta. Da allora la produttività è ferma o perfino, a tratti, calante. La Silicon Valley sforna gadget che non ci rendono più produttivi. Dunque anche il secondo motore dello sviluppo economico si è fermato. Fin qui, la teoria della stagnazione secolare aggiornata al XXI secolo, per quanto riguarda l’economia reale.
Ma la stagnazione secolare ha anche un versante finanziario. È l’idea che si crea un eccesso strutturale del risparmio sugli investimenti, già ampiamente analizzata dall’inglese John Maynard Keynes nel contesto degli anni Trenta. L’investimento privato langue, perché uno scenario di stagnazione non incentiva affatto gli imprenditori a scommettere sul futuro creando nuova capacità produttiva. Una gran massa di risparmio delle famiglie giace inutilizzato. Donde un eccesso di offerta di fondi, che automaticamente deprime i rendimenti. Ecco dunque perché, anche a prescindere dall’azione delle banche centrali, c’è già nella dinamica del settore privato una potente spinta al ribasso dei tassi. Per arrivare ai tassi negativi, occorre solo un piccolo salto logico. Certo, è insensato che io paghi un interesse allo Stato per ringraziarlo del privilegio di prestargli i miei soldi acquistando i suoi bond (è questa la traduzione dei tassi negativi). Ma non lo è più, se io prevedo che domani i tassi scenderanno ancora più giù. Perché allora io potrò rivendere i miei bond realizzando un profitto. Il valore di un bond in conto capitale è inversamente proporzionale al suo rendimento. Se domani i tassi saranno ancora più negativi di oggi, i miei bond varranno di più. È questo il calcolo che giustifica i grossi investitori istituzionali che hanno fatto incetta di bond anche dai rendimenti negativi. È la stessa ragione che spiega il paradosso giapponese: la banca centrale di Tokyo continua a spingere in negativo i suoi tassi sperando che questo deprima lo yen e renda più competitive le esportazioni made in Japan; invece ottiene l’effetto inverso!
Gli investitori internazionali non credono alla cura giapponese, pensano che domani i tassi sullo yen scenderanno ancora più giù; quindi comprano bond nipponici. E fanno salire lo yen. Se crediamo alla razionalità degli investitori, dunque, il messaggio che ci sta dando il mercato dei bond è angoscioso: avremo ancora anni di deflazione, e di ristagno della crescita, che costringeranno le banche centrali a prolungare gli esperimenti del "quantitative easing" spingendo i tassi ancora più giù. Ma una narrazione contrastante si sta facendo strada. L’economia reale, secondo questa tesi, è meno malata di quanto sembri. Alcune aree del mondo – Eurozona e Giappone – sono effettivamente inguaiate. Ma in altre, cioè Stati Uniti Cina e India, la crescita è sulla strada giusta. Le banche centrali hanno distorto il mercato dei bond. Il pessimismo eccessivo degli investitori ha fatto il resto. Ben presto ci sarà un risveglio alla realtà, più positiva di quanto si creda. Sarà un risveglio amaro, però: almeno per chi ha fatto incetta di bond dai rendimenti negativi, un "sano" rialzo dei tassi potrà provocare grosse perdite in conto capitale.
di FEDERICO RAMPINI, Affari&Finanza – la Repubblica 18/7/2016