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 2016  luglio 19 Martedì calendario

CINGHIALI E SORCI, COMPLICI DEL POTERE

Mo’ pure i cinghiali. Muovendo da Orte via Monte Mario irrompono a Roma nord in attesa che l’urbe ridiventi palude abitata dai lupi come in una simulazione di Alberto Angela. Ma l’ungulato selvatico, con la sua mole e la sua tendenza a intruppare le macchine, nasconde il reale nume tutelare dell’epoca e del luogo capitolino: il sorcio. Se l’era Marino era quella dei maiali (a Boccea pasteggiavano a avanzi di prosciutto), quella Raggi s’inaugura come l’era del topo, e chissà a quale animale si ispirassero l’Alemanno mafiacapitalizzata e le Rutelli-Veltroni, nel cui discorso pubblico il topo era freudianamente rimosso (forse Veltroni li teneva lontani proiettando film d’essai mentre loro lo aspettavano nei campi nomadi per riprese neorealiste). SEGUE A Urge dunque etnografia del topo capitolino. Intanto quelli di Roma non sono topi: sono pantegane. La denominazione non si limita a connotarne la dimensione, abnorme, dovuta a sovralimentazione da rifiuto urbano. Pure a New York i topi sono grandi, veloci e pesanti come Maserati d’epoca. Il topo di Roma è grande di prepotenza, panzuto, menefreghista, abituato a secoli di co-evoluzione romano-topo vinta a suon di “scànsate”, discendente di avi coevi di Romolo e Remo, del Belli e del Papa Re (e Belli rese Papa un sorcio, Rosicaio Secondo, che morì nella città di Trappolaja fino a nuova elezione: “Quant’ecchete da un bucio esce un zorcone che strilla: ‘Abbemus Divorìno Sesto’. E li sorci de giù: ‘Viva er padrone!’”).
Più topos letterario che topo. Quando il sindaco Raggi è stata chiamata dai cittadini a verificarne l’invasione negli inferi di Tor Bella Monaca, il sorcio è assurto agli occhi dei civili a emissario del degrado. Forse prima non c’erano topi. Li avrà scaricati su Roma un elicottero della Casaleggio. Forse li tenevano chiusi in un meet up di Novara in attesa di espugnare la capitale insieme al Re dei Topi. Coi grillini, che molta stampa sospetta deboli e filoterroristi, il topo s’è fatto coraggio, s’è dotato di una sua coscienza di classe, emergendo dal sottosuolo col suo carico di simbologie pestifere e inconsce.
Nessuno può seriamente sostenere che il topo che scorrazza nei giardini del Louvre sia antropologicamente identico a quello di Villa Ada. Perfino, esiste una sorciologia topologica romana a seconda del municipio. Il ratto di Roma nord ama il verde, corre a Villa Borghese, forse mangia bio. A Cinecittà il topo è coatto: dritto sulle zampe, la pancia sollevata da terra, se lo guardi ti guarda male. Il topo di Tor Bella Monaca che s’è prestato per la photo-opportunity anti-grillina fa una vita da schifo: se sopravvive al traffico della Casilina gli toccano rifiuti radioattivi e bambini pronti con gli smartphone a immortalarne la corsa, abituati a vedere topi come un tempo si vedevano, nelle borgate, galline e cani randagi. A Trastevere, al tramonto sorbiscono aperitivi nelle pozze di alcol e vomito. A Monti ciondolano come scugnizzi alla stazione di Napoli nel ’44, manca poco che chiedano soldi. All’Isola Tiberina i turisti li credono un’attrazione, tipo scoiattoli a Central Park. Qualcuno sostiene che siano stati assunti al Fatebenefratelli come portantini. A Monte Citorio, metafore dell’abbuffata, ne girano di giganti, e nei sotterranei fanno man bassa di documenti e leggi vecchie (purtroppo non di riforme).
A marzo sulla biglietteria del Colosseo grondava il sangue di un topo rimasto schiacciato in una intercapedine. La bestia sacrificata assunse su di sé lo schifo di un popolo. Come ne La peste di Camus, “quel sorcio non era al posto suo”. Chiusura del monumento, turisti ritratti afflitti in reportage orripilati, campagna elettorale dotata finalmente di un ubi consistam d’impatto, dopo la fiacca emergenza buche. Bertolaso, candidato durato quanto Papa Luciani, ne contò 4mila ad abitante, totale 120 miliardi di esemplari. Invece sono nove milioni, tre a cristiano, in pullulante combutta per dimostrare la famosa ingovernabilità di Roma. Antonio Razzi propose di eliminarli con 500 mila gatti, tra l’ilarità generale: ma si deve alla gloriosa amministrazione Nathan il detto “non c’è trippa per gatti”, laddove i gatti, voce in bilancio, proteggevano gli archivi capitolini dall’animalaccio.
La pantegana lotta per la sopravvivenza coi feroci piccioni e i gabbiani migrati dalla litoranea e dalla discarica di Malagrotta. Appaiono, i due uccelli sanguinari, in improvvise coreografie hitchcockiane, in zuffe da cui fuoriescono con parapiglia di piume pezzi di carne sanguinolenta che plana con suono splatter sul parabrezza del romano anche a ciò abituato. Sui resti dell’uccello sconfitto s’avventano poi ratti informatissimi dell’esito manco avessero Twitter. Nella differenziata di Marino la pantegana ha trovato il suo bengodi. Nelle Nikon dei giapponesi ci sono più topi che statue. Vale ancora l’intuizione di Goethe nel Viaggio in Italia: inorridito da quel che facevano i topi a via del Corso degli avanzi del martedì grasso, scrisse che se i governanti di Roma rimuovessero il lerciume, cittadini e viaggiatori vedrebbero in che stato versa la città nuda, il suo scheletro putrido. Un generale disfacimento che l’abitante e il turista distratti dalla pantegana non scorgono. Il topo, a Roma, è il miglior complice del potere.
di Daniela Ranieri, il Fatto Quotidiano 19/7/2016