Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 17/7/2016, 17 luglio 2016
«HO INVIDIATO SOLO L’ALTEZZA: IO E MINA IN TELEVISIONE ERAVAMO STANLIO E OLLIO» – [Intervista a Franca Valeri] – Due settimane ancora e Franca Valeri, nata nel 1920 al crepuscolo di luglio, farà un altro passo in direzione del secolo di vita: “Madonna santa, lo sapevo, pietà
«HO INVIDIATO SOLO L’ALTEZZA: IO E MINA IN TELEVISIONE ERAVAMO STANLIO E OLLIO» – [Intervista a Franca Valeri] – Due settimane ancora e Franca Valeri, nata nel 1920 al crepuscolo di luglio, farà un altro passo in direzione del secolo di vita: “Madonna santa, lo sapevo, pietà. I compleanni li ho sempre detestati, forse per colpa della data così estiva con gli amici regolarmente lontani o forse per colpa di mia madre. Si dimenticava di festeggiarli e faceva cancellare le date di nascita dai quadri di famiglia. La domestica vedeva passare le stagioni senza mezza candelina: ‘Signora, ma la bambina non cambia mai età?’”. Indifferente per lezione ai 96 anni, Valeri è attivissima. Nelle sette puntate di Colpo di Scena ritrae sette grandi italiani insieme a Pino Strabioli. Interrogando i figli celebri, da Gassman a Tognazzi (RaiTre, terzultima puntata stasera alle 20.30) sullo schermo passano polvere e stelle di un bel palcoscenico novecentesco: “Ugo era un attore raffinato e straordinario, uno dei pochissimi a saper essere molto comico e molto drammatico, lo amavo molto. In Splendori e miserie di Madame Royale di Vittorio Caprioli che è un film bellissimo interpretava Alessio, questo frocio di mezza età fiero dell’idea di impersonare la sorella del re in modo sublime”. Ha detto “uno dei pochissimi”. Metterebbe Gassman nella stessa categoria di Tognazzi? Vittorio era meno geniale. Gassman era un attore drammatico che frequentava di preferenza il tragico e partiva dai grandi testi. Ugo no. Era un attore completamente diverso. Che impressione le ha fatto tornare in televisione per raccontare persone che aveva conosciuto da vicino? La tv non è e non è mai stata un episodio basilare della mia vita, ma mi diverto sempre molto a lavorare con Pino Strabioli, l’idea della trasmissione mi sembrava buona e i personaggi da raccontare simpatici. Ho scritto una paginetta di ricordi. Scrivere mi è sempre piaciuto. È molto prolifica. Sono rapida. Ora – nonostante mi sia operata all’anca e con disperazione non riesca più a fare quel che facevo prima e mi debba attaccare al braccio di qualcuno per camminare – ho più tempo. La mano grazie a dio funziona ancora bene. La memoria anche. Mi ricordo di mio padre. Un uomo ironico, di buon gusto, molto elegante. Non a caso nella vita aveva scelto due cose: mia madre e l’antifascismo. Sono bagliori di un mondo che non c’è più. Lei nel suo ultimo libro si definisce superstite. La settimana scorsa, al Premio Strega, mi sono resa conto di essere rimasta l’unica che era presente quando Ennio Flaiano vinse con Tempo di uccidere. Mi impressiona sempre constatare che siano andate tutte via. Non c’è più nessuno. C’è una moria di amici. Per fortuna ne ho di più giovani e non da ieri. I vecchi tendono a stare sempre tra loro. Io mi sono fatta furba a tempo debito. Cos’altro l’ha fatta arrivare a 96 anni? Sono sempre stata curiosa, ho sempre riso molto e non ho mai osato annoiarmi in vita mia. A far procedere la macchina comunque è sempre la testa. Se pensi di essere vecchio sei già morto. È una teoria interessante. Nel campus in cui mi hanno curata me lo dicevano sempre: “Lei non dica quanti anni ha o se proprio deve ne tolga una ventina. Lei per noi non ne ha più di cinquanta”. E lei com’era a cinquant’anni? Una donna allegra e senza complessi. Non erano riusciti a farmeli venire, però insomma, a forza di darmi della brutta, negli anni ci avevano provato in tutti i modi. Chi ci aveva provato? Vittorio Caprioli e Luciano Mondolfo in primis. Mi mettevo un cappellino tondo, un vestitino un po’ giovanile e un po’ ridicolino o una veste un po’ scollata e subito partiva il coro: “Ma Franca, questo non è per te, non ti sta, non c’entra niente”. In Italia non passavo per bella, in Francia invece sì. All’epoca del Teatro dei Gobbi a Parigi andavo via come il pane. E Caprioli si ingelosiva? Fino ad allora per niente. In Francia si ingelosì all’improvviso. Ero corteggiata, anche dagli attori, anche da gente carina. E al ritorno, dopo più di otto anni insieme senza affrontare l’argomento, mi chiese di sposarlo. Accadde e da destino già scritto poco dopo finì. Intende dire che il matrimonio sopisce ogni slancio? Può succedere. Nel mio caso ci separammo, dopo esserci molto divertiti per un decennio, forse perché un conto è lavorare insieme, altro recitare senza copione da moglie e marito. Eravamo attori. Gente brada, un po’ instabile, sempre in giro da una città all’altra. Ci sposammo in fretta e furia, da scapigliati, a Ventimiglia. Al momento dello scambio degli anelli, Vittorio si rese conto che aveva dimenticato di comprarli. Lasciò tutti lì e trovata una gioielleria tornò dopo un quarto d’ora. Mia madre, scettica, dubitava: “Sicura che un matrimonio del genere abbia i crismi della regolarità?”. Che ricordi ha di quel matrimonio così breve? Vittorio era un consorte normale. A volte, soprattutto nei momenti di maggiore grassezza, poverino, faceva di tutto per ridicolizzarsi. Mi inteneriva. Avevo la mia indipendenza comunque. Quando ci telefonò Paolo Grassi per chiederci di recitare all’inaugurazione di un teatro milanese, Vittorio titubò. Perché? A me bastava aprire un cassetto. Lui aveva un repertorio meno ricco e ideare una cosa al volo non era così semplice. Vidi l’incertezza, afferrai la cornetta e dissi a Grassi che sarei arrivata per le prove entro due giorni al massimo. Vittorio ci rimase male: “Ah, ci vai?”, “Sì ci vado, mi va, non capisco perché perdere l’occasione”. Dovendo fare meno fatica forse fui un po’ egoista. I rapporti coniugali, come insegnava ne Il Vedovo Dino Risi sono sempre affari complicati. Ma non tutti i mariti sono come l’Alberto Nardi messo in scena da Sordi. Lei lo conosceva bene. Ci ho fatto sette film, mi era molto simpatico e io che non ero il prototipo della bellona ero perfetta per lui. Non ci prevaricavamo ed eravamo in ottimi rapporti anche fuori dal set per quanto Alberto fosse tutto tranne che un animale da società. I suoi unici veri amici erano Piero Piccioni e uno schiavo, un servo che lo seguiva ovunque. Mai visto Sordi con una donna fissa. Si dice fosse terrorizzato dall’essere ingabbiato nelle nozze. Può darsi, ma non come ho sentito dire per ragioni di avarizia perché questa storia del Sordi taccagno è una tremenda bugia. Ora è vero che io e Alberto non siamo mai scesi sul terreno degli scambi commerciali, ma non mi ricordo di una sola volta in cui mi sia dovuta pagare un caffè. Gli avari si vedono subito, Sordi non era tra loro. Neanche sul lavoro. Ci valorizzava. Se qualcuno inventava una battuta che gli piaceva, quella battuta andava dritta, dritta nel film. Da cosa si vedono gli avari? Dai piccoli gesti. Dalle piccole cose. Monica Vitti ad esempio era di un’avarizia mostruosa. Una volta venne a casa con una tortina piccola, ma così piccola, che sembrava la definizione stessa di avarizia. Che attrice è stata? Molto brava, molto fiera della propria bravura e molto strana. Tra noi c’era rispetto, ma a Monica non andava mai bene niente. A metà degli anni 80 la diressi a teatro ne La strana coppia con Rossella Falk. Dovevo dividere le mie attenzioni e lei non sopportava che mi occupassi anche di Rossella. Ma a far ridere erano in due, non potevo ignorare un’attrice per favorirne un’altra. Si ritiene una perfezionista? I perfezionisti li ho conosciuti. Un perfezionista maniacale era Antonello Falqui. All’epoca di “Studio Uno” lavorava per ore sui testi, sulle luci e anche sulle scenografie. Vedeva le cose in anticipo, Falqui. Ed era una televisione bellissima quella, anche esteticamente. Falqui ha fatto la storia del varietà televisivo italiano. Con Antonello lavoravi tranquilla. Certo, magari ti faceva fare le cose un po’ di volte e se non era soddisfatto non si accontentava. Sono certa di essere stata tra le sue preferite. Perché? Perché non gli facevo perdere tempo e le prove che facevo andavano quasi sempre bene. La stessa cosa succedeva con Mina, l’altra sua cocca. Bravissima. Una che non sbagliava mai neanche per sbaglio. Sembra un gioco di parole. Dico davvero. Mina era perfetta, non faceva mai capricci ed era sempre a dieta. Nell’anno di “Studio Uno” ad esempio era veramente molto a dieta e come è ovvio era bellissima. La invidiavo un po’. Così alta, vicine sembravamo Stanlio e Ollio. Questa cosa dell’altezza è ingiusta. Sia perché da ragazza era un po’ più alta, sia perché nel film che girai con Sofia Loren, Il segno di Venere di Dino Risi avremmo dovuto essere sorelle. Invece nel copione che lei scrisse con Risi, Anton e Flaiano, Agnese Tirabassi e Cesira Colombo sono solo cugine. Sostenevano tutti che la sorellanza non fosse plausibile: “Franca, non c’è niente di personale, ma sorelle proprio non potete essere”. E io, puntigliosa: “Scusate, ma nelle famiglie non succede mai che nasca prima un fratello alto e poi uno basso?”. Con Risi ha lavorato spesso. La delizia dell’intelligenza. Il garbo. La signorilità. L’ironia. Non alzava mai la voce Dino, la dote delle persone veramente autorevoli. Fellini era autorevole? Per lui la vita era un gioco, un sogno, un terreno per sperimentare. Probabilmente Fellini inventava anche di notte. Feci una breve apparizione in Luci del varietà solo perché una volta, a casa di Lattuada, Federico e Alberto mi chiesero di fare una piccola improvvisazione sulle coreografe ungheresi. “Non credo di sapere cosa debba fare” dico. E loro: “Tranquilla, ci inventiamo che tu arrivi in questa stanza e poi se ci serve qualcos’altro inventiamo pure quello”. Capirai. Per me era come andare a nozze. Non ho mai avuto paura di inventare. Così dopo la prova venni ingaggiata: “Dopodomani vai a questo indirizzo a mezzogiorno”. E lei andò. Sul set incontrai una frocia, improvvisammo la scena e poi ce la ritrovammo nel film. Nel cinema italiano di allora potevano capitare anche cose così, nate per puro caso. Improvvisare le è sempre piaciuto. Quando improvvisi dai un ritmo, un inizio e una fine. Se hai un po’ di ingegno teatrale, da un certo punto di vista è la cosa più facile che esista. Lei si schermisce sempre. Ma no, sono gli altri che si sopravvalutano. Quando vado in tv e mi dicono: “Stanno per arrivare gli autori” ho sempre un fremito. “Che dovrei dire esattamente agli autori per due battute in croce?”. Il poco che ho fatto in televisione nelle mie sporadiche avventure, l’ho quasi sempre improvvisato. L’uomo più interessante che ha incontrato nel cinema? Il più bravo di tutti, Vittorio De Sica. Mi aiutò moltissimo e non solo concretamente, come pure fece permettendo di realizzare film che senza il suo appoggio forse non avrebbero mai raggiunto la sala. Vittorio aveva una vita privata molto complicata che scindeva totalmente dall’avventura artistica. Dormiva una notte con Giuditta Rissone, al centro di un famiglione del teatro italiano vecchio stampo e un giorno con Maria Mercader, bella e simpatica. Con Emi, la figliolona di Vittorio, identica a suo padre, sono ancora buona amica. Una vita complicata toccò anche a Flaiano. Ennio non aveva un atteggiamento critico verso gli altri, ma ce l’aveva verso la vita. Aveva un lato nascosto, una figlia che era stata colpita da una grave forma encefalopatica a neanche un anno d’età. Era una storia tragica di cui sua moglie portò il peso per tutta la vita, una storia che Flaiano riparava dalla curiosità e di cui non parlava mai. Di cos’altro non parlavate in quegli anni tra attori e sceneggiatori? Che io ricordi, anche se può sembrare strano, di politica. Allora si capiva benissimo cosa votavano i miei colleghi e non c’era nessun bisogno di indagare. Non ce ne importava niente, non ne facevamo un dramma, non credo che nel riscrivere la storia dello spettacolo italiano sia stato poi così importante essere comunisti o democristiani. Nel 1947 Andreotti era stato nominato sottosegretario allo Spettacolo. Una sera lo incontrai anche. Le solite frasi di circostanza, una stretta di mano e buonanotte. Sapevamo benissimo che i direttori degli Stabili erano stati tutti messi lì dal partito, non per questo non andavamo in scena. Per disimpegno? Perché non esisteva niente di più bello al mondo. di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 17/7/2016